HOME
 
CHI SIAMO
 
PUBBLICAZIONI
 
AUTORI
 
PERIODICI
 
DIDATTICA
 
LESSICO
 
BIBLIOGRAFIA
 
RECENSIONI
 
EVENTI
 
CREDITS
Vai all'indice di questa sezione
LA POLITICA NELLA STELLA DI SARDEGNA

La politica nella Stella di Sardegna

La politica nella Stella di Sardegna
La rubrica Cronaca politica e articoli correlati

Anno I Num. DI SAGGIO Sassari, 31 ottobre 1875

CRONACA POLITICA
(pag. 11)
Incominciamo la nostra rassegna settimanale in momenti pieni di dubbî e di preoccupazioni. Dovunque volgiamo lo sguardo vediamo il cielo della politica pieno di punti neri. Vi è un gran numero di questioni che domandano imperiosamente di venire risolte.
Fra queste tiene il primo posto quella che suol dirsi questione d'Oriente, un gruppo di problemi che da anni ed anni tiene la diplomazia in angosce. In questi giorni avremmo una nuova levata di scudi dei rajà della Bosnia e dell'Erzegovina, ma la ragione del ferro e del fuoco pare che trionferà anche una volta. Però il grande malato dà segni non dubbî della non lontana sua fine.
L'Austria-Ungheria si risente delle agitazioni dell'Oriente, ed equilibrandosi tutta sul sistema dualistico tragge una vita penosa, incerta del domani. Attratta dall'elemento slavo che prevale di numero, si stacca sempre più dai Tedeschi e dagl'Italiani che obbediscono ad una forza centrifuga irresistibile. La politica metternichiana ha fatto il suo tempo, la nuova aperta e liberale non si è ancora bene spiegata.
La Germania, nell'orgoglio della sua potenza e circonfusa degli splendori d'una gloria immensa, s'impone all'Europa. Temuta più che amata, attende con occhio sicuro e fermo lo svolgersi degli avvenimenti, e forse agogna novelle annessioni di territorio.
L'impero del silenzio, come una volta era chiamata la vasta monarchia degli czar, si tiene tuttavia in un grande riserbo, ma il testamento di Pietro il grande turba sempre i sonni del Romanow. Ciò porta ad una collisione coll'Inghilterra nelle regioni dell'Asia, e forse ne nascerà tale un cozzo da far tremare l'Europa.
Il ministero Derby-Disraeli vorrebbe ricomporre l'antico prestigio dei Tories, ed alza spesso la voce nelle quistioni internazionali. Ma la pace sta a cuore sopra ogni cosa all'Inghilterra, e a quel nume sagrificherà molto, forse anche la propria dignità.
Coll'alzarsi della Germania da una parte e dell'Italia dall'altra si abbassò la Francia. Umiliata e mutila da spaventosi disastri militari, ora ripiglia fiato, riorganizza l'esercito e ha ricomposto le finanze. Ma la Francia è dilaniata internamente dai partiti e l'avvenire le si presenta buio assai.
Guardando all'Ebro e al Manzanare l'occhio rimane rattristato dallo spettacolo d'un popolo dibattentesi nell'anarchia e desolato dalla guerra civile.
Rimane la patria nostra alla quale sorride un grande avvenire. Giunta al colmo delle sue politiche fortune, attende ad un vasto e profondo lavoro di organizzazione interna. L'opera sarà coronata quando avremo un forte esercito, una florida finanza e la questione religiosa cesserà di tenere agitati gli animi.
Ecco a larghi tratti la situazione politica dei grandi Stati europei, i quali poi sono tutti più o meno travagliati da due grandi malori: l'internazionale rossa e l'internazionale nera. Ma si spera che le forze riunite della civiltà basteranno a domare il mostro bicipite.
A. P.

Anno I Num. 1 Sassari, 5 dicembre 1875

CRONACA POLITICA
(pagg. 11-12)
Ferve un intenso lavorio diplomatico per impedire che la dissoluzione dell'impero ottomano, procedente con estrema rapidità, metta in fiamme l'Europa.
Arbitre della situazione sono la Russia, la Germania e l'Austria-Ungheria.
Finché il loro accordo si mantiene, la pace non corre alcun pericolo. Ma il giorno che quell'accordo fosse rotto?
Le popolazioni della Bosnia e dell'Erzegovina combattono coll'eroismo della disperazione contro il loro secolare oppressore. Alle promesse di riforme e di concessioni che il Turco fa, ma che non può mantenere esse rispondono col fucile, e la vittoria sorride loro di frequente.
Il Montenegro, la Serbia e la Rumenia si mantengono fino ad ora neutrali come se la lotta che si combatte non toccasse i loro interessi. Ma in quel contegno che sembra indifferente, c'è qualche cosa di cui la Turchia non ha certo a rallegrarsi. Tutte e tre quelle potenze sentono avvicinarsi la fine del dominio ottomano in Europa e vi si preparano in operoso e vigile raccoglimento.
Intanto mille voci si diffondono circa le intenzioni di questa o di quella potenza. Ora si afferma che la Russia aduna armi ed armati al confine, collo scopo di occupare Costantinopoli; ora di dice che l'Austria-Ungheria farà nella Bosnia e nell'Erzegovina la parte che rappresentò nei Principati Rumeni al tempo della guerra di Crimea.
La stampa inglese specialmente si fa propagatrice di quelle voci sinistre, giacché essa vede assai buio nel cielo d'Oriente.
Ma l'Inghilterra, benché i suoi uomini di stato che ora tengono le redini del Governo sembrino volersi ispirare alle tradizioni di Pitt anziché a quelle di Gladstone, ha troppo scarsa influenza nelle relazioni internazionali: e checché minacci il Times o assicuri Disraeli, la grande questione d'Oriente si risolverà senza l'Inghilterra.
Questa s'agita e teme ad un tempo, e benché non abbia ancora mandata la sua flotta nel Corno d'oro, né occupato l'Egitto, come ne corse parola, ha comperato le azioni del canale di Suez possedute dal Kedivè: fatto assai grave, e che in questi giorni commosse l'Europa.
La Francia, quasi affatto estranea a quanto accade fuori de' suoi confini, sta per subire la gran prova delle elezioni generali. Prima però il suo Governo, coadiuvato da una inesorabile maggioranza dell'assemblea, si cinge di tutte le cautele legislative per scongiurare il pericolo che trionfi il radicalismo. Ha fatto passare lo scrutinio uninominale di circondario, tiene imbavagliata la stampa, e non vuole che sia tolto lo stato d'assedio.
Come stanno oggi le cose, in mezzo all'incondito gorgolìo di partiti d'ogni tinta, non si può avventurare un giudizio su quello che sarà della Francia di qui ad alcuni mesi.
Il ferro ed il fuoco continuano a desolare le provincie nordiche della Spagna. Però i carlisti hanno di recente ricevuto colpi terribili, ed altri ne preparano loro i quattro corpi d'armata che si stanno concentrando.
Il Pretendente se ne consola con lettere e proclami che paiono dimostrarlo discendente in linea retta da don Chisciotte. Nelle cosas de Espana un po' di buffo non manca mai.
Si disse in questi giorni, che gli Stati Uniti d'America erano risoluti a sottrarre violentemente Cuba al dominio iberico. Ma non sembra che le cose sieno giunte così innanzi, sebbene il destino della perla delle Antille splenda chiaro ad ognuno. La grande Repubblica, benché sempre devota alla dottrina di Monroe, vuole godere dei benefici della pace, ammaestrata anche dal triste esempio delle altre minori e infelici consorelle del mezzodì, alle quali si potrebbe oggi applicare quello che, fremendo, diceva Dante dei nostri comuni medioevali.
In Italia è aperto il Parlamento, il quale deve prepararsi a discutere fra non molto sovra due argomenti di sovrana importanza: il riscatto delle ferrovie ed i trattati di commercio.
A. Pandian

Anno I Num 2 Sassari, 12 dicembre 1875

CRONACA POLITICA
(pag. 26)
Non sembra che le intenzioni del governo degli Stati Uniti sieno tanto pacifiche, come sembrava alcuni giorni or sono. Il presidente Grant nel suo messaggio ha parlato di Cuba in modo da destare gravi sospetti. La situazione dell'Isola non sembra ad esso che possa durare com'è. La Spagna per quando vi profonda d'oro e di sangue non vale a spegnere l'insurrezione. Fra poco, aggiunge Grant, ove l'aspetto delle cose non muti, com'è più che probabile, il governo della Repubblica dovrà pensare ad opportuni provvedimenti.
E la Spagna che cosa fa? Don Carlos ha promesso che se la guerra avesse a scoppiare fra la sua patria e la Repubblica transatlantica, offrirebbe al regnante Alfonso una tregua per combattere il nemico comune. Cosa da non prendersi a gabbo! Intanto però continua la strage fraterna, e il carlismo non sembra ancora vicino alla sua fine, malgrado gli sforzi dei generali alfonsisti e l'adesione alla nuova monarchia dei moderati Sagasta e Serrano, celebrata testé con una certa pompa a Madrid.
Il principe Gortschakoff è venuto improvvisamente dalle rive della Newa a quelle della Sprea per avere un colloquio col principe Bismark. E il mondo se ne commosse come ad indizio di prossima guerra. Si dice che il repentino atteggiamento dell'Inghilterra di fronte alla questione orientale aveva determinato la Russia ad uscire dal suo riserbo, e che perciò essa voleva assicurarsi una volta di più delle intenzioni della Germania.
Che cosa c'è di vero in queste dicerie? Noi non lo sappiamo di certo. Non possiamo però dimenticare un altro fatto che ci sembra degno di essere notato, ed è che contemporaneamente all'arrivo del Gran Cancelliere russo a Berlino giungeva a Belgrado Kristic, reduce da un abboccamento col principe del Montenegro, e veniva tosto incaricato di formare un nuovo gabinetto.
Il rumore destato dalla compera delle 177 mila azioni del canale di Suez per parte dell'Inghilterra non è ancora cessato. La stampa s'affanna per veder le ragioni di questo colpo politico-finanziario del governo inglese e ne dice di ogni natura. V'è chi lancia le accuse più amare contro l'Anglia avara, e per poco non ripete il celebre sonetto di Vincenzo Monti: Luce ti nieghi il sole, erba la terra... V'è chi ringhia a bassa voce e si morde le labbra, e v'è anche chi ammira e plaude ad un atto della più audace ed accorta politica. I giornali che riflettono l'opinione pubblica russa e francese sono quelli che si danno maggiore rovello.
L'Inghilterra continua la sua via e lascia dire le genti. Padrona del canale di Suez, preponderante nell'amministrazione e nei consigli del Kedivè, tien l'occhio rivolto contemporaneamente a Stambul e al sacro Gange, e può assistere senza grande affanno all'ultimo sbrano del turbante turco.
L'ordine delle idee ci richiama alla memoria la Grecia, paese come il nostro di storia ambiziosa e mesta, ma oggi, benché mezzo risorto a politica indipendenza, traente una vita aduggiata e rachitica. Meschine gare di partiti, violazione della legge fondamentale, processi per corruzione e simonia ad ex-ministri, la corona scoperta, scompiglio amministrativo e finanziario, industria e commercio arenati: ecco lo spettacolo che sanno presentare della loro patria i discendenti di Temistocle e di Botzaris.
Eppure la Grecia aspira ad insediarsi a Bisanzio!
In Italia la politica è rinchiusa dentro le mura del Parlamento, ove si trascina la discussione dei bilanci. Del resto nulla che meriti di essere registrato in questa cronaca.
A. Pandian

Anno I Num. 3 Sassari, 19 dicembre 1875

CRONACA POLITICA
(pagg. 38-39)
L'assemblea di Versailles, sorta dal seno della nazione in un momento di suprema sventura e di suprema aberrazione, commise molti spropositi. Dai liberali fu detta assemblea dei rurali, e non a torto. Essa non ha nessuna delle sublimi energie di quel sinedrio che nel 1789 proclamò i diritti dell'uomo, e nel quale facevano udire la loro voce Mirabeau, Barnave, e il nobile gruppo dei Girondini.
L'assemblea di Versailles rappresenta nella sua tempestosa maggioranza idee confuse ed esauste e passioni di vecchi partiti.
Una prova di questa sua natura la diede or ora discutendo la quistione della riforma giudiziaria in Egitto, e nella elezione dei 75 senatori. Chi lo crederebbe? La Commissione rappresentata dall'erudito e marsigliese Ruvier sostenne a spada tratta il sistema delle capitolazioni, memore più dei tempi di Luigi XII, di Francesco I e di Solimano il magnifico, che non dei bisogni dei tempi moderni.
Il Ministro Decasez ebbe un bel compito nel far comprendere che tutt'Europa ha messo da banda il vieto sistema delle capitolazioni ed ha accettato la riforma sapiente del Kedivè. L'assemblea, udendo che la Francia è isolata in questa come in tutte le altre questioni internazionali, ha dato torto alla Commissione ed accettò in massima di rinunziare al passato.
L'elezione dei Senatori è stata curiosa. Chi avrebbe detto che la sinistra avrebbe trionfato? Eppure la cosa è tale. Bisogna che lo sfacelo sia profondo nelle file degli Orleanisti e dei legittimisti, perché possa accadere una cosa simile. Ci si fa osservare che l'inatteso avvenimento è l'effetto di una di quelle alleanze mostruose che vediamo spesso manifestarsi nella chimica come nella politica degli elementi contrari. Che cosa avverrà all'atto delle elezioni generali?
Il Principe di Bismark è il maggior politico che vanti oggi l'Europa. Il successo gli ha dato ragione. Mazzarino, Richelieu, Oxenstierna e Talleyrand non gli arrivano alla spalla. Cavour soltanto può stargli a fronte, e forse superarlo. Quell'uomo che dal 1863 domina in Prussia, dal 1870 in Europa. Egli è circondato da una forza mondiale di stima e di paura. Nessuno avrebbe detto che ieri l'altro discutendosi al Reichstag una novella del codice penale dell'impero sarebbe rimasto soccombente. Gli articoli principali da lui sostenuti con potente vivacità, non furono approvati perché troppo illiberali, e coercitivi della indipendenza individuale. Vinse però in alcuni altri articoli, ma vinse alla guisa del re Epirota e forse anche peggio.
Non possiamo prevedere la conseguenza di questo fatto, poiché nella stirpe germanica l'individualismo prevale alla solidarietà sociale.
Forse Bismark rimarrà al suo posto serbando il prestigio del suo genio. E noi non ce ne crucceremo gran fatto, benché non sia venuto all'ombra del Duomo di Milano ospite del nostro re e del popolo italiano. Però non ci incresce neppure di vedere tutte le velleità dittatoriali sfumare innanzi alla scienza del patriottismo ed alla legge.
...Expellas furca tamen usque recurret, si potrebbe dire in questi giorni della questione orientale, e noi cronisti dobbiamo sobbarcarvici. Il governo ottomano accumula firmani a firmani, che certo avranno la sorte di quello famoso di Gulhanè. I rajà rimangono in armi e confidano nel Dio delle battaglie che sorrise così bene ai compatrioti di Niceta turcofago, di Zavella, di Canaris, di Ypsilanti. Ignoriamo però se per loro vi sarà un'altra battaglia di Navarrino.
Le potenze amiche fanno proposte di riforme. L'Austria ha l'iniziativa ufficiale; e tutte le notizie ricevute concordano in questo: che la Russia e la Germania accettarono le idee del conte Andrassy, le quali conservano un culto quasi tradizionale all'integrità e all'indipendenza dell'impero turco.
Il conte Giuseppe De Maistre, non ricordiamo più se nel Le Pape o nelle Soirées de Saint-Petersbourg, ha vaticinato che non sarebbe scorso un secolo che il prete cattolico avrebbe cantato la messa solenne nel tempio redento di Santa Sofia. A noi, a dire la verità, poco cale di questa messa cantata, foss'anche dal venturo pontefice, cioè dal non crux de cruce, ma desideriamo con tutta l'energia della mente e del cuore che l'orda di Maometto secondo "strappi le tende da una terra che madre non gli è".
Cessato il periodo eroico del suo risorgimento, e principiata l'età più fredda del riordinamento amministrativo e finanziario, l'Italia nostra non ha da registrare fatti di cospicua importanza. Però non si chiama per nulla alma parens, e non per nulla ha il peso di tre civiltà sulle spalle. Ed ecco che all'occorrenza sorge qualche uomo, uno di quelli che davvero possono dirsi viri nel ciceroniano senso della parola, il quale tiene alto l'onore delle tradizioni e della laude moderna. Fra questi noveriamo il patrizio genovese che fe' dono alla sua Genova di venti milioni, e ne assegnò altri due a scopo di speciale beneficenza. In noi vivono tuttavia sentimenti derivateci col sangue dai nostri maggiori, e, sebbene di rado, fortemente ce ne accorgiamo talora. Nel medio evo i più doviziosi cercavano il lustro non pure della propria famiglia, ma e della città che loro fu culla. Il principe di Lucedio se ne è nobilmente ricordato e la nazione intera gli erige nel cuore un monumento imperituro.
Ah, se il dotto e ricco patrizio vulgo di cui è cenno nei Sepolcri di Ugo, si trasformasse secondo l'esempio del cittadino della Liguria, molti problemi che ora alle menti ottuse non sembrano potersi affrontare che col petrolio, sarebbero gloriosamente e santamente risoluti.
A. Pandian

 


COSE DELLA PROVINCIA
(pag. 40)
Opere pubbliche. Si può sicuramente affermare che Sassari e la Provincia, da pochi anni a questa parte, spendono molti danari per le opere pubbliche, ma sventuratamente i risultati non rispondono ai sagrifizi che fa il paese.
Alle prime piogge cadono ponti, si guastano le linee ferroviarie, si rovinano gli stradoni! E tutte queste opere sono pur collaudate! Viene fabbricato e collaudato il palazzo delle finanze? Dopo pochi anni cadono fradici i solai con pericolo della vita degl'impiegati. Si collaudano con pompa i tronchi della ferrovia? Ed ecco le benigne piogge ne guastano per più di cento metri; e per recarsi ad Ozieri si è costretti di prendere un omnibus e percorrere dieci ore di distanza!
Noi non richiamiamo soltanto per questi gravissimi sconci l'attenzione del Genio Civile e della Prefettura, ma più ancora dei consiglieri provinciali e comunali. Quando si collauda un'opera pubblica che ci ha costato tanto danaro, vorremmo che ciò non fosse un ostentato spettacolo di pranzi e di brindisi, ma una seria ispezione che ne renda certi che i nostri danari furono bene spesi!!!

Anno I Num. 4 Sassari, 26 dicembre 1875

CRONACA POLITICA
(pagg. 58-59)
La è magnifica e strana ad un tempo. In mezzo al frastuono degli apparecchi di guerra che assorda tutta l'Europa, v'è chi sogna l'idillio della pace perpetua e predica l'abolizione e la riduzione degli eserciti.
Il signor Fischof appartiene alla nobile schiera di questi infervorati umanitari. Non ha molto scrisse un opuscolo in cui era propugnata l'idea della riduzione delle milizie stabili; più di recente indirizzò al Reichsrath di Vienna una calda petizione nello stesso senso.
Il Fischof è animato da una fede viva che nessun ostacolo vale ad abbattere; e come lottò un quarto di secolo Wilbeforce per la liberazione degli schiavi, vent'anni O'Connel per l'emancipazione dell'Irlanda, e quasi dieci anni Cobden per procurare al popolo pane a buon mercato, così crede anch'egli di riuscire a furia di costanza a convertire in vomeri i cannoni Krupp, le spade in ronche.
Noi ammiriamo e passiamo.
Mentre i tre imperi del nord si accordano a presentare alla Turchia un intero disegno di riforme che dovrebbero, secondo il loro modo di vedere, ricondurre l'ordine e la prosperità là dove regna la desolazione e la guerra, il Sultano sobillato da consiglieri che sembrano invidiare gli allori del cittadino di Gand, vien fuori con un firmano in cui promette di togliere gli abusi e riformare radicalmente gli ordini o meglio i disordini esistenti in ogni ramo della pubblica amministrazione. Il Sultano sembra diventato non il seguace del profeta, il despota arbitro della vita e degli averi de' suoi sudditi, ma un principe liberale secondo i principii della filosofia e della civiltà cristiana.
Il mondo però non aggiusta più fede a promesse troppo spesso ripetute e sempre fallite; e sta spiando le mosse della diplomazia che va assumendo ognora più un atteggiamento annuvolato e minaccioso.
L'Inghilterra si è scossa al risvegliarsi della quistione d'Oriente e non passa settimana, si può dire, che qualche manifestazione ufficiale non attesti questo cambiamento nella politica degli uomini di Stato britannici.
Dopo l'acquisto del canale di Suez, vengono le ammonizioni di lord Derby al viceré d'Egitto perché non occupi l'Abissinia, il discorso del cancelliere delle scacchiere e quello del duca di Cambridge.
La ricomparsa dell'Inghilterra nel campo attivo della politica internazionale viene da alcuni riguardata come arra di pace.
In fatti guardando la cosa da un certo aspetto non si saprebbe vedere come quella grande potenza potesse prediligere i fieri di marte. Essa satura di gloria e di ricchezza, innamorata più della libertà che della forza dovrebb'essere potente propugnatrice della conservazione della pace.
Il Parlamento germanico sembra animato da uno spirito indomabile di opposizione verso il principe di Bismark. Ricordammo un'altra volta come abbiano trovato la maggioranza negativa alcuni articoli importantissimi che il governo voleva fossero aggiunti al codice penale. Oggi notiamo come anche la tassa sulla birra e sugli affari di borsa sia stata respinta dal Reichstag. Il bilancio dell'impero pel 1876 presenta un disavanzo di 24 o 25 milioni. È naturale perciò che il Bismark perorasse con quella sua demostenica eloquenza per la creazione del nuovo balzello. Ma il Reichstag, in passato così ossequente alla politica del grande statista, non ne volle sapere.
Noi non pretendiamo di voler entrare in un litigio che non ci appartiene, e in cui forse non vediamo bene chiaro; ma per dire il vero dividiamo anche noi il timore ond'è compreso qualche altro scrittore, che cioè il suffragio universale abbia sollevato agli onori della rappresentanza nazionale troppi clericali, socialisti e vecchi feudali, che hanno giurato al gran cancelliere una guerra tanto irragionevole quanto spietata.
La Camera italiana si è chiusa, e i deputati sono corsi alle loro case per passare nella gioia serena della famiglia le feste tradizionali del Natale e del Capo d'anno.
L'opera legislativa che hanno compiuta in questo breve lasso di sessione non è stata vana, benché avrebbe potuto tornare più proficua, se le consuete divagazioni della Sinistra non avessero tolto che la discussione dei bilanci fosse più disciplinata e più spiccia.
A. Pandian

Anno II Num. 1 Sassari, 2 gennaio 1876

CRONACA POLITICA
(pagg. 8-9, vol. I)
Il partito clericale si agita ovunque così nel vecchio come nel nuovo mondo per acquistare quella supremazia che la civiltà gli ha strappato. Il Sint ut sunt pronunciato or è un secolo dal padre Ricci si ripete oggi superbamente dai settatori del Sillabo e dell'infallibilità. Ma il paese ove questi spiegano forse maggiore baldanza è il Belgio. Unitisi ai liberali nel 1830, e cooperando al trionfo della rivoluzione che sottraeva la patria al giogo dell'Olanda, ebbero sempre un grande ascendente. Profittarono con molta astuzia e con attività indefessa delle libertà pubbliche per estendere il loro dominio, e vi riuscirono a meraviglia; così che oggi costituiscono un grave pericolo per lo Stato.
I liberali se ne sono accorti, sebbene un po' tardi, ed ora combattono coi retrogradi una lotta tremenda. Questo stato di cose è magistralmente delineato in un discorso tenuto testé a Bruxelles da quell'insigne statista che è Frère Orban. Noi esortiamo a leggerlo negli altri giornali, non comportando la natura di quest'effemeride di qui riprodurlo.
Però certe idee non contengono più succo vitale, e dopo un fatuo e passeggiero trionfo si palesano per quello che sono e perdono i loro sostenitori. Così avverrà senza dubbio anche nel Belgio, ed ora si notano alcuni fatti che preludono a un non lontano mutamento in vantaggio della civiltà e del progresso.
La stampa officiosa continua a fare ditirambi sulla robustezza della nuova Santa Alleanza dei tre imperatori, guarentigia la più sicura del mantenimento della pace. Tuttavia c'è chi persiste a questo riguardo in uno scetticismo incorreggibile. Costoro veggono la quistione d'Oriente arruffarsi ognor più e gl'imperi del nord vagheggiare ciascuno un disegno proprio e di particolare vantaggio.
Ed invero non si può credere che gl'interessi della Russia siano gli stessi di quelli della Germania e dell'Austria-Ungheria. La prima, non v'ha dubbio, è dominata dalla immane visione del panslavismo, e tende ad estendersi a mezzogiorno ed a sud-ovest; il che torna a tutto svantaggio della bicipite monarchia degli Absburgo. Questa, che ha più di 45 milioni di slavi sotto di sé, vorrebbe che la pace non fosse turbata nelle vicine provincie della Turchia, e nel caso che questo non si possa ottenere, non vorrebbe certo che sulla Bosnia, e sull'Erzegovina pesasse la ferrea mano della Russia, la quale perciò acquisterebbe una potenza smisurata da farsi sentire dai Carpazi fino ai Balkani.
Chi non è dominato da idee egoistiche, e pensa che giustizia deve esser fatta anche agli schiavi della Mezzaluna, crede che al dominio di questa non dovrebbe subentrare né quello della Russia né quello dell'Austria-Ungheria, ma bensì si dovrebbe costituire una robusta federeazione di popoli liberi e indipendenti. Ma è chiaro che questo disegno non può piacere né a Vienna, né a Buda-Pest, né a Pietroburgo.
E la Germania? Questa si tiene in grande riserbo e la sua diplomazia fa le viste di non badare gran fatto a quello che possa accadere in Oriente. Ma le apparenze non possono corrispondere alla realtà. Crediamo colpiscano meno lontano dal segno coloro che attribuiscono alla Germania l'idea di spostare ancor più l'Austria verso Oriente, renderla del tutto potenza slava per potere impadronirsi delle provincie tedesche, le quali, checché si dica, hanno per stella polare Berlino.
Insomma la situazione è difficilissima sempre: e lord Derby ha ragione quando dice che non si può dormire fra due guanciali quando si vedono le maggiori potenze militari preparare le armi per sette milioni di uomini.
L'Assemblea di Versailles ora dà schiaffi e ora carezze al Ministero. Oggi nomina a Senatori gli uomini di sinistra, domani approverà rumorosamente le idee di Buffet, che vuole mantenuto lo stato d'assedio nelle grandi città, sostiene un progetto assurdo di legge sulla stampa, perora per l'unione dei conservatori, e per la nomina di deputati conservatori, che vuol dire reazionari o devoti all'esanime orleanismo.
La nazione guarda e tace, e sembra preparare qualche grande sorpresa pei giorni delle elezioni. Che cosa uscirà dall'arcano dell'urna? Nessuno lo sa; è però chiaro che legittimisti ed orleanisti hanno ricevuto colpi formidabili, e che il gran litigio pende fra le due forme della democrazia, la cesarea e la repubblicana.
In mezzo a questo cozzo di idee, a questo strazio partigiano, a questa angoscia politica, la Francia non può far udire una parola ascoltata nella crisi che travaglia l'Europa orientale. È un bene, o un male? Il Times dice che è un male, ed invoca il giorno in cui la Francia riprenda il posto che le spetta.
Noi non vogliamo sentenziare contro il Times "colla veduta corta di una spanna" ma non crediamo ingannarci giudicando che l'azione della Francia all'estero non si farà sentire se prima la nazione non trova modo di conciliare l'ordine colla libertà all'interno, opera che si compirà in tempo non breve e con immensi stenti.
A. Pandian

 


L'EUCALIPTUS GLOBULUS INNANZI AL PARLAMENTO NAZIONALE
(pagg. 9-10)
Non è intendimento mio occuparmi ex professo di questo albero-gigante, né di dettare su d'esso una lezioncella scientifico-popolare, perché di esso, da oltre tre lustri, occuparonsi e diversi Congressi, e i Comizî agrarî tutti del Regno, e la stampa sì scientifica che politica. Ond'è che io arrivando siffattamente in ritardo nella trattazione di questo tema altro non farei che portare i soliti vasi... e i non meno soliti coccodrilli... Per ciò, ragionevolmente, ritenendo che, intorno a questa benefica pianta, gli ottimi lettori della Stella di Sardegna ne sappiano già tanto quanto io ne so, se non di più, ridurrò il compito che mi sono assunto a far loro conoscere l'accoglienza che l'eucalitto s'ebbe dal ministero e dalla maggioranza de' deputati italiani.
In una delle ultime tornate parlamentari, discutendosi il Bilancio preventivo, per l'anno 1876 del ministero di agric., ind. e comm., l'onorevole deputato SALVATORE MORELLI, con nobile e umanitario slancio, sollevava la sua voce eloquente in prò della benemerita sì, ma diseredata classe degli agricoltori, la quale, disse, produce ogni bene che fa il ricco beato, ed è mancante di ogni nutrimento vitale; riempie i magazzini di frumento e di grano di ogni specie; coglie la frutta; fa la vendemmia della vite da lui curata diligentemente, e poi non ha pane, o lo ha duro e nero, fortunato se ha la polenta con un po' di sale; beve acqua talora salmastra, si ciba di erbe, dorme nel presepe con gli animali mondi e immondi, e RESPIRA L'AERE AVVELENATO della esalazione micidiale dell'acque ristagnate e imputridite. Perché voi, Signor Ministro, non avete pensato alla sanificazione dei terreni con piantagioni larghissime di alberi come l'eucalyptus, e tollerate che vi sia la morte dove potrebbe e dovrebbe essere la vita e l'abbondanza? E bisogna convenire che questo quadro, per quanto straziante, non sia per nulla esagerato. Che se in alcune fortunate regioni della Penisola, il contadino "ha un benessere invidiato dagli operai della Città" (sono le parole testuali del ministro, onor. FINALI), ve n'hanno altre (e per le quali lo stesso ministro "si sentì a stringere il cuore da molta pietà" non potendosi da lui "imaginare che altrove la vita dei lavoratori de' campi fosse così infelice( )") in cui le miserande e deplorevoli condizioni della famiglie contadinesche sono tali quali sì maestrevolmente le ha ritratte l'onor. MORELLI.
E, giacché il destro mi si offre, dirò come in molte parti della Sardegna nostra, le condizioni di un ragguardevole numero de' suoi abitatori siano precisamente quelle dal MORELLI accennate: e però fo appello alla lealtà dello stesso signor ministro di agric. ind. e comm., comeché abbia solennemente dichiarato, in faccia ai rappresentanti della nazione (ciò che non gli torna in merito davvero!), di non sapere, di non imaginare che altrove fosse sì dura la vita degli agricoltori, per dirmi se in quest'isola (che Egli deve molto bene conoscere, né avere sì facilmente dimenticato, per averci fatto assai lunga dimora) " il benessere del contadino è tale da essere invidiato dagli operai della città"; e se le condizioni igieniche nostre, rese, da pochi anni a questa parte anco più triste da' vandalici disboscamenti, non sieno tali da richiamare tutta la sollecitudine e le amorevoli cure non solo de' municipî e delle provincie, ma quelle altresì dell'amministrazione centrale.
E pure ‒ chi l'avrebbe mai imaginato? ‒ né il signor ministro, né la maggioranza dei deputati vollero accettare l'ordine del giorno seguente, proposto dall'onorevole COMIN; " La Camera convinta della necessità di risanare per quanto è possibile gl'immensi terreni nei quali i lavoratori agricoli lasciano, lottando colle febbri, la vita, invita il ministro di agricoltura e commercio a promuovere con ogni mezzo la piantagione dell'eucalyptus sopperendo anche in parte alle spese necessarie".
Avvenne, in tal guisa, che la Nazione tutta poté assistere allo strano spettacolo, che mentre dal ministero le si chiedeva la ingente somma di un milione e mezzo di franchi per "impiegarli nelle scuderie reali", "lo stesso ministero si rifiutava recisamente di stanziare nel Bilancio poche decine di mila lire per mettere qualche riparo alle pessime condizioni cosmo-telluriche di più d'una italiana provincia. Oh sapienza e provvidenza agricola, industriale e commerciale de' nostri governanti!
E ora, prima di por fine a questo articoletto qualunque, e anche per rispondere, sebbene indirettamente, al ministro FINALI che, pur ammettendo la virtù igienica dell'eucalitto, disse essere da molti siffatta virtù oppugnata, credo prezzo dell'opera qui riportare quanto in proposito si legge nel penultimo fascicolo dell'Archivio di medicina, chirurgia, ed igiene, che vede la luce in Roma, e del quale è uno dei principali collaboratori l'illustre prof. Deputato GUIDO BACCELLI. Così dunque, leggesi nel giornale suddetto:
"I nostri lettori saranno al certo informati come dai risultati di una più estesa amministrazione fatta dell'eucaliptus per combattere le febbri intermittenti non si sia da questo ottenuto ciò che da prima si riprometteva. Sembra quindi che questa pianta possieda forza mitissima nell'arrestare la frequenza degli accessi febbrili, o di opporsi alle gravi conseguenze organiche della malattia.
È pur tuttavia interessantissimo a conoscersi come la sua preconizzata influenza sulla malaria siasi sostanzialmente confermata.
Il D. COSSON recentemente annunziò che gli effetti salutari della piantagione dell'eucalyptus in Algeria sono stati rimarchevolissimi dopo che questi cominciarono a ben vegetare, particolarmente intorno al lago di Zezzara. Ivi la malaria, che per lo innanzi era intensa, al presente è quasi disparita.
Secondo ne assicura il capitano Ney, il villaggio di Ain Mocra presenta un esempio eguale. Questa stazione per lo innanzi tanto insalubre da richiedere il cambiamento della guarnigione francese ogni cinque giorni, a causa di gran numero di malati di febbri periodiche, dopo le piantagioni fatte dell'eucalyptus globulus sui bordi dei laghi ed ai lati delle vie ferrate, in tutto formanti il numero di 6000 alberi, queste febbri sono disseccate e vanno divenendo sempre più rare. Lo scrittore menziona un fatto ancora più singolare, cioè la filloxera disparì in tutte le viti che hanno vicino gli eucalyptus. Questo esperimento fatto da più anni in più vigneti, è stato ovunque uniforme.
Egli è interessante, in rapporto a questi fatti, l'osservare che le foglie di questa pianta contengono un olio etereo di cui le anco mezzo secche ne ritengono un 6 %; quale olio, secondo ne riferisce GIUBERT, è un potente antistetico: preserva il sangue ed il pus, come l'acido fenico (più di cinque mesi), e molto più dell'olio di trementina. Preserva pure dall'appariscenza de' funghi o vibri. Tali osservazioni hanno ricevuto conferma ancora da BIUZ in Germania.
Questa pianta provvidenziale, di cui ora non resta dubbio che sia destinata a salvatrice di poveri esseri umani, i quali per rendere altri opulenti" (come vede l'onorevole Morelli nel propugnare la causa de' contadini, trovasi in ottima compagnia) "o per contribuire col loro oneroso obolo all'Erario, vivono in luoghi malsani inzuppando quelle micidiali zolle del loro sudore, sono quelli che, per tutto guiderdone, vanno ad esserne le vittime espiatrici. Diffatti a chi, medici e non medici, non è noto quali siano le conseguenze della malaria in coloro che, specialmente della classe de' coltivatori, dimorando in luoghi palustri, ovvero in città e villaggi da questa influenzati miseramente vi periscono nel corso dell'anno per la sequela della malattie malariche?
In seguito a questi fatti, uniti ad altri già da molto cogniti alla scienza, e che abbiamo tutta ragione di crederli inappuntabili e veri, perché il governo, i consigli provinciali, sanitarî, municipî, non hanno atteso o non attendono seriamente, mercé questo mezzo, a migliorare la salute di tante popolazioni che risentono di continuo le triste conseguenze della infezione malarica? Ordinino dunque, che ne sarebbe tempo, e dispongano che numerose piantagioni dell'eucalyptus globulus siano disseminate nelle località tutte, focolai d'infezione, e dopo pochi anni, come altrove s'è di già verificato, se ne riscontreranno i salutari effetti. Sarà possibile che in Italia si vorrà essere, in cosa di tanta importanza e di facile eseguimento, secondi ad altri popoli che meno di noi sentono la necessità del miglioramento sociale?
Governo e cittadini tutti si adoperino, adunque, per quanto è da loro, nell'interesse del comun bene a diffondere in LARGA SCALA, e dovunque, le piantagioni di quest'albero salutare, ma specialmente nei centri noti come sorgenti della infezione malarica".
Dopo ciò altro non mi resta di aggiungere, e solo fo voti che l'onor. ministro FINALI, e quanti con lui votarono contro l'ordine del giorno, tanto modesto, quanto umanitario, dell'onorevole COMIN, che ravvedutisi vogliano presto rimediare in qualche modo al mal fatto che fu proprio, sia detto senza rancore, troppo leggermente imaginato.
Ozieri, negli ultimi giorni dell'anno 1875.
Dott. A. Falconi

Anno II Num. 2 Sassari, 9 gennaio 1876

CRONACA POLITICA
(pagg. 26-27)
I giornali del continente che ci pervennero in questa settimana sono pieni di osservazioni intorno all'anno che or ora "nel mar d'eternità mise la foce". I giudizii sono diversi secondo l'umore degli scrittori e i punti di luce da cui viene osservato l'argomento. Ma i più convengono che il 1875 ha fatto poco per lo scioglimento delle quistioni urgenti, e che invece ne abbia lasciato al suo successore tutto il gravissimo pondo. Anche noi siamo di questo parere.
Gli si fa però un gran merito, ed è di aver preservato all'agitata Europa il beneficio della pace. Infatti è noto ad ognuno come nella primavera passata si fosse a un pelo di veder rotte le ostilità tra la Germania e la Francia. Fu Alessandro di Russia che interpose efficacemente la sua influenza conciliatrice fra gli sdegni dei due grandi rivali. Tutto però, come dicemmo, è rimasto in sospeso, e si può dire che all'alba del nuovo anno i timori e le angosciose incertezze sul mantenimento della pace sono più vivi che mai.
Gli Stati Uniti d'America paiono stanchi di assistere tranquilli allo spettacolo della guerra che arde a Cuba. È stato asserito avere il presidente Grant mandato una nota alle potenze d'Europa invitandole ad esercitare la lor azione per far cessare quell'infame strazio. Quale accoglienza abbia trovato presso i nostri gabinetti la mossa americana non sappiamo, tuttoché un telegramma ci abbia raccontato che il contegno delle potenze fu più che mai riservato.
Il Times da qualche tempo fa l'occhio dolce alla Francia, ne compiange "l'immeritato" isolamento ed invoca il giorno in cui la "grande nazione" tornerà ad essere ascoltata nei consigli d'Europa. La stampa indaga quale può essere mai il motivo che commuove in tal guisa l'animo dell'organo magno dell'opinione pubblica inglese, e il motivo lo trova naturalmente nelle combinazioni politiche a cui può dare luogo la crisi orientale. L'Inghilterra di fronte alla lega dei tre imperatori e agli avvenimenti che si preparano si sente isolata e va in cerca d'alleati. Li troverà?
I suoi disegni sopra l'Egitto si vanno colorando sempre più. Malgrado le assicurazioni di lord Derby è un protettorato che l'Inghilterra vuole esercitare sul paese dei Faraoni e dei fellah. Mentre scriviamo, per noi non è certo se veramente il Kedivè dopo una conferenza avuta con l'agente finanziario britannico, Cave, abbia prorotto in esclamazioni indignate dicendosi ingannato dall'Inghilterra nella quale credeva trovare un'utile e fida consigliera e trovò invece una padrona. L'incidente, se vero, ci parrebbe tale da provocare una nuova e seria complicazione.
L'assemblea di Versailles ha finalmente pronunciato la sua sentenza di morte: essa si è sciolta dopo avere indette le nuove elezioni. Separandosi, a Destra mandò il grido di viva la Francia, a Sinistra quello di viva la Repubblica. Questi due motti ponno benissimo uscire accoppiati dal labbro del più sincero patriotta, ma risuonando in un'assemblea come quella che votò le leggi a tutti note hanno senso tutt'altro che confortante. Sono come due opposte bandiere che si sollevano in momenti procellosi e danno il segnale di lotte accanite feconde, non d'altro che di guai alla nazione.
A. Pandian

Anno II Num. 3 Sassari, 16 gennaio 1876

CRONACA POLITICA
(pagg. 44-45)
La cronaca politica in una effemeride destinata al numero dei più ha una importanza molto relativa. Dall'altra parte aumentano le difficoltà per chi ha il nobile ufficio di stenderla. La monotonia è la nostra croce, e pur troppo anche quella dei nostri lettori. Abbiano quindi pazienza, e pensino che la virtù del Cireneo fu da un poeta veronese chiamata gentile.
Che cosa ci offre la settimana politica? Poco, o quasi nulla. De minimis non curat Praetor, diceva la vecchia sapienza giuridica romana, e noi seguiremo il precetto con la devozione che ci è possibile.
Diremo quindi cominciando, che il Presidente Grant, forse nella smania di essere eletto Presidente per la terza volta della Repubblica dalla bandiera stellata, fa progressi nella via della politica audace. La flotta degli Stati Uniti si è concentrata in un punto dove è chiaro balenare la minaccia a Cuba. La diplomazia è sempre la stessa, vecchia simulatrice e dissimulatrice. Quindi udiamo applicare un pretesto quasi indegno, come direbbe Aristodemo parlando all'ambasciatore di Sparta, ad un provvedimento strategico.
Quello che ne sia per uscire lo saprà qualche saccente più acuto di noi. Ma non giova variare su questo tema, giacché non faremmo altro che ripetere luoghi comuni.
Mac-Mahon, il vincitore di Magenta, perché ha trasgredito gli ordini di Napoleone III e giunse in ritardo di tre ore sul campo di battaglia, ha rivolto un programma al popolo francese. Che cosa vuole con ciò il gerente responsabile del Settenato? Noi riteniamo che egli scriva o parli secondo la insufflazione di Buffet, il gagliardo ministro dell'interno.
Ordine, ordine, egli invoca come il terreno gli vagellasse sotto i piedi. L'ordine è il termine correlativo dell'altro che si appella libertà, e ciò corre liscio come olio. Ma non bisogna invocarlo due volte, perché allora ricorre alla memoria il generale Sebastiani, che come ministro degli affari esteri di Francia dopo l'eccidio di Varsavia, fece eco alla miseranda enciclica di Gregorio decimiosesto, appellata persino da Cesare Cantù: improperio lanciato sopra un cadavere.
Ma i partiti si riordinano: Gambetta si accosta a Thiers, e sfida i radicali ponendo la sua candidatura in una cinquina di collegi. Il focoso e ambizioso oratore, ci ha dell'aria terribilmente schiacciante di Mirabeau; ma all'assemblea non sarà mai tale da ripetere il motto di costui: silenzio alle trenta voci!
Però Gambetta è uomo di coraggio e degno di rispetto. Ha tuttavia una disgrazia, cioè di non trovarsi accanto ai titani della prima Rivoluzione. La colpa non ne è tutta sua, perché i tempi sono mutati. La Francia percorre la sua curva discendente, e obbedisce a quella irresistibile provvidenza della Storia, di cui Vico, sebbene inesattamente, tracciò le linee nella Scienza nuova.
Hegel, il filosofo del diventare, fece l'apologia della guerra, paragonandola agli uragani che purificano l'atmosfera dai miasmi che la civiltà aduna insieme all'aura vivificatrice ed ossigenata della società, e affermò che lo spirito dell'Epoca moderna si posò sulla Germania. Temiamo che in parte abbia ragione. Ad ogni modo, guardando ai fatti che si svolgono sotto i nostri occhi, dobbiamo dire con franchezza che è falso il detto di Napoleone III: la Francia è sempre là dove c'è una causa giusta da far valere.
Nei passati giorni ci fu una polemica che non deve essere preterita da chi cerca l'esattezza nel tener dietro a quanto accade nel mondo ingarbugliato e straziante della politica. Al sig. Holtzemburg, celebre criminalista e difensore del Conte Arnim, parecchi studenti viennesi dettero un pranzo. Al geniale convito assisteva anche lo Schmerling, il famoso ministro centralista austriaco.
Quest'uomo, lo conosciamo, blandiva il sogno del Vaterland, cioè d'una grandezza politica mostruosa, che il capo dovrebbe posare alle foci dell'Elba, stendere il piede a quelle del Po. È una birbonata, che sostenne, pare impossibile, anche il famoso Parlamento di Francoforte nel 1848.
Ebbene, essa birbonata importerebbe ora non più la soggezione d'Italia all'Austria, ma bensì la ricostituzione dell'antica confederazione germanica, pallida larva di quell'Impero che Voltaire chiamava: né sacro, né romano, né impero.
Questo concetto lo Schmerling adombrò in un discorso pronunciato al banchetto di cui sopra e non è a pensare se la stampa patriottica tedesca ne andò in visibilio. Parve ai tedeschi del nord che un partito in Austria sognasse una specie di révanche, che avrebbe il più infelice riscontro con quella che ha per oggetto l'Alsazia e la Lorena. Ora però ogni allarme è cessato, sebbene i sospetti affannino forse ancora il cuore del principe di Bismark.
Quanti germi di future tempeste non brulicano in questa vecchia Europa!
Un altro argomento a chiose e logomachie infinite, l'ammanirono i discorsi reali e imperiali del primo dell'anno.
La voce del nobile Re nostro fu più delle altre ascoltata, e ci fu una specie di momentanea preoccupazione, perché ad alcuni parve informata ad un tono di guerra. Noi non essendo stati presenti alla cerimonia della presentazione dei generali a Sua Maestà, non ci sentiamo in grado di precisare i termini in cui sta circoscritto il vero. Un'induzione tuttavia non è difficile, e ci è lecito il dire queste due semplici cose: 1o che la situazione politica di Europa è tutt'altro che rassicurata; 2o che l'Italia potrebbe essere implicata nella baraonda guerresca, e che essa dev'essere preparata sufficientemente a farsi onore, e mantenere ad ogni costo incolumi i suoi diritti.
La così detta questione orientale raccoglie nel suo seno la soluzione di problemi che riguardano direttamente anche la patria nostra; giacché non bisogna in mezzo alle materiali preoccupazioni obliare, che i nostri confini naturali non sono completamente raggiunti, e che la forza per noi è ancora la sanzione del diritto.
A. Pandian

Anno II Num 4 Sassari, 23 gennaio 1876

CRONACA POLITICA
(pagg. 58-59)
Il nome del Maresciallo Mac-Mahon continua ad esser ripetuto sulle labbra dei politicanti e sulle pagine di ogni giornale.
Il recente proclama di lui alla nazione francese ha messo in iscompiglio le menti.
Il telegrafo quasi sempre confuso, e non di raro bugiardo, nel riferircene il sunto gli aveva attribuito un'impronta di liberalismo che certo non ha. Né guari esatto è che tutta la stampa repubblicana francese l'abbia accolto con giubilo.
In vero, che cosa prometteva di nuovo e di bello il Presidente alla vigilia delle elezioni generali? Dopo aver fatto appello alla nazione perché si stringesse intorno al partito conservatore, onde far argine al traboccare delle idee sovvertitrici, assicurava che egli avrebbe saputo mantener l'ordine e difendere con energia il potere a lui confidato.
È la solita frase, oramai sciupata, che egli ripete ogni qualvolta gli fanno aprire la bocca, e che certo non può colmare di gioia i figli della libertà. Se non che egli ha saputo anche sentenziare così: "Le istituzioni prima di essere rivedute vogliono essere poste alla prova".
Ecco quello che destò il lirismo di alcuni giornali, fra i quali con maraviglia troviamo il Siècle e la République Française.
Ma è pur giustificata questa esultanza? E che cosa volle dire, praticamente Mac-Mahon con quelle parole? Il Settennato dovrebbe durare fino al 1880, termine probabile di prova per l'attuale Costituzione, che allora potrà essere riveduta. Ma da chi, e a profitto di chi?
Frattanto il Ministero che era in dissoluzione si ricompone alla meglio: liberali, repubblicani, costituzionali, reazionari hanno ancora trovato modo di stare gli uni accanto agli altri, assisi allo stesso banchetto; ma è chiaro che la crisi scoppierà alla prima e forse più lieve occasione.
Anche nella Spagna sono per essere schiuse le urne elettorali per l'elezione dei deputati alle Cortes. Il governo del signor Canovas del Castillo, in ciò più liberale di quello del maresciallo Mac-Mahon, raccomandò che la massima libertà sia lasciata agli elettori. E passando dalle parole a' fatti permise a Valenza le riunioni sostenenti la candidatura di E. Castelar e fece staggire una lettera di quel vescovo, che dichiarava empi i candidati anticattolici.
In verità che anche nella patria di Filippo II e di prete Merinos le molle del progresso sono tutt'altro che spezzate. Esse fanno sentire di tratto in tratto la loro robustezza immortale. L'onda crescente delle idee liberali non rispetta nemmeno la cresta delle Sierre, e Castelar può da Parigi lanciare agli elettori di Valenza e di Barcellona un proclama in cui è scritto a caratteri di fuoco: "Fra noi non esiste altro elemento di perturbazione all'infuori del partito clericale, che benedice impunemente a masnade capaci di annichilire il nostro suolo con l'incendio, la nostra generazione con le carneficine e rompere e distruggere le nostre nazionalità con la guerra: masnade sorte al funesto grido ed esempio di quei sacerdoti che dovevano andare, secondo l'Evangelio, fra gli uomini come agnelli fra i lupi e vanno come i lupi fra gli agnelli. Necessità è ottenere dal clero una sottomissione cieca allo spirito liberale della nostra legislazione politica e civile".
I timori di una conflagrazione per le cose d'Oriente sono alimentati dal fatto che il conte Andrassy è lasciato solo al compito di formulare un sistema di riforme da offrire, o imporre alla Turchia come condizione di salvezza. È vero sembrare assicurato che la nota austriaca trovò l'approvazione della Russia, della Germania, dell'Italia, della Francia e, colle debite e sospettose riserve, dell'Inghilterra. Ma tutto ciò non appaga né rassicura.
Traverso alle lusinghiere parvenze della diplomazia si scorge la faccia del demone della discordia, messaggiero di tempesta e di lutti. La situazione generale, oggi che scriviamo, non può essere ritratta altrimenti.
Il re di Grecia si dice abbia afferrato un consiglio che somiglia molto a quello seguito dal suo antecessore alla vigilia di essere detronizzato dalla rivoluzione. Egli si appresta ad un viaggio di piacere, non sappiamo per qual parte d'Europa, mentre il suo paese è tutto sovvolto dalle ire di parte, e scosso dalle speranze che infonde ai patrioti il tramonto quasi compito della mezzaluna. È difficile indovinare se il re covi qualche gran disegno a beneficio della Grecia, oppure se pensi a fare spontaneo il gran rifiuto prima che l'incalzare degli avvenimenti glielo impongano.
A. Pandian

Anno II Num. 5 Sassari, 30 gennaio 1876

L'INDENNIZZO AI DEPUTATI
(da pag. 68 a pag.71)
Questione agitatissima, molto discussa, trasandata e di nuovo surta a galla in Italia, non ostante la sconfitta che nel passato anno si ebbe l'onorevole Bresciamorra in un suo disegno di legge, è quella che spontanea si presenta alla semplice lettura dell'articolo 50 della nostra carta fondamentale. I deputati possono essere retribuiti dal governo a causa della loro pubblica funzione? Ecco qual è la questione, cui io brevemente risponderò, facendo notare l'ingiustizia della disposizione che si racchiude nel succitato articolo, e la ragionevolezza e somma necessità di un proporzionale indennizzo per coloro che rappresentano gl'interesse del popolo.
Allo scopo di rimuovere ogni sospetto d'influenza che potesse pregiudicare alla spontaneità e libertà di azione dei deputati e senatori, lo Statuto non accordò ai membri delle Camere alcuna retribuzione od indennizzo. Non è da porsi in dubbio che la disposizione ivi sancita colpisce più i deputati che non i senatori, in quanto che dalla descrizione delle categorie accennate all'articolo 33, onde i senatori sono scelti, si scorge essere per la maggior parte uomini che hanno assicurata una posizione sociale con pubblico stipendio, mentre la maggior parte dei deputati si compone d'uomini che hanno una posizione indipendentissima, e per conseguenza soffrono un pregiudizio nei loro interessi e nell'impiego della loro opera a vantaggio del paese. Per ciò, più specialmente riguardo ai deputati che riguardo ai senatori, si è sollevata la questione da me accennata. La ragione intanto del succitato articolo, relativamente ai deputati, non basasi che su d'un funesto raziocinio, derivato da una falsa supposizione, smentita dalla quotidiana esperienza, come verremo in seguito esponendo.
La vera base, l'elemento essenziale e costitutivo del governo monarchico-costituzionale consiste nella divisione dei poteri costituiti, la quale divisione ha per iscopo di sorvegliare e mantenere entro i proprii limiti i governanti, senza del che non ponno essere garantiti e difesi i diritti del popolo. L'elemento democratico intanto che è parte integrante del potere legislativo, è quello che anzitutto deve tutelare e difendere gl'interessi sociali ed opporsi con una reazione forte ed incessante alle arti malfide ed ai capricci del governo. Ma per ottenere un tale scopo è mestieri che le idee, le opinioni e le tendenze popolari si svolgano liberamente, si condensino nelle migliori intelligenze che raccolgono la fiducia dei cittadini: quindi è che debbonsi eleggere a deputati uomini onesti e probi, disinteressati ed intelligenti, onde dalla loro unione ed accordo si possa formare quella base che rappresenti il vero spirito di progresso.
È un fatto, però che il concorso di uomini di sì sentito carattere mancherà certamente, se sì negherà loro un'adeguata indennità, perché, dovendo essi abbandonare famiglia ed affari, che formano la sorgente di loro sussistenza, mai si sobbarcheranno alle grandi spese che si presentano nella capitale; gli è perciò che gli elettori saranno costretti di ricorrere ai pubblici funzionari, o quanto meno agli uomini che rappresentano l'aristocrazia del denaro! E come, sino ad ora, questi due ordini di persone abbiano sostenuto il loro mandato se la loro vita siasi assorbita dalla vita parlamentare, lo dicono chiaramente gli annali delle nostre legislature, in cui si leggono (né si potranno cancellare) certe vergogne, che disonorano il nostro paese... Intenti sempre a fiutare l'incenso dei busca-impieghi, ebbero chiuse le orecchie ai giusti reclami dei cittadini, e colla massima indifferenza permisero di promulgarsi leggi nocive; di gettare con un alinea di articolo, coi soprusi e colle illegali misure nella miseria quella stessa classe di cittadini da cui ebbero l'incarico di rappresentarli.
Sono questi e molti altri fatti più scandalosi che emergono dal sistema sinora invalso di accordare l'onorifico ufficio di deputato a persone che di carattere versatile, e del ben pubblico incuranti, hanno sempre patrocinato i proprii interessi. Né altro mezzo havvi per impedire tante vergogne che accordare un indennizzo a chi presta l'opera sua per l'interesse comune. Solo allora si potrebbero sanare le ferite che impunemente ci vengono inferte; coprire ed impedire certe vergogne che al sommo disonorano l'Italia.
Il signor Odillon Barrot in un suo discorso pronunziato alla Camera dei deputati nella seduta delli 8 marzo 1831, facea conoscere i grandi danni e gli scandali che nascevano dal niegare un'indennità ai deputati; ed il chiarissimo scrittore Carlo Comte, nella Rivista Enciclopedica del 1828 dimostrava che perseverando a rifiutare ogni indennità ai deputati, era duopo che i dipartimenti si rassegnassero a non essere rappresentati che da pubblici funzionari, o dalla aristocrazia parigina.
È un fatto che non può porsi in dubbio che la democrazia non può esplicarsi che nella maggiore sfera di libertà; e le pubbliche funzioni gratuite non ponno che costituire un privilegio che esclude molte capacità, molte intelligenze, che potrebbero essere a queste funzioni chiamate. Gli è perciò che, come dissi, gli elettori eleggono coloro che, quantunque di nessuna istruzione forniti e di carattere versatile dotati, sono però in grado di mantenersi nella capitale del regno.
Ché se pure eleggono cittadini di indipendente carattere e che caldeggiano gl'interessi della patria non possono dessi assolutamente assistere a tutte le discussioni parlamentari. Doveri sacrosanti pari a quelli che si devono avere per la patria, li richiamano alle proprie case; i doveri cioè d'un padre, d'un marito affezionato che deve pensare ai mezzi di sussistenza per la sua famiglia.
Coll'adeguata indennità invece si ovvierebbe a questi mali e si otterrebbero non pochi beneficii. Si moltiplicherebbe inoltre la concorrenza dei candidati; e l'elettore, collocato in una sfera maggiore, coll'escludere i pubblici funzionari, e tutti quelli che hanno il solo prestigio di avere grandi ricchezze, sarebbe in grado di eleggere coloro che si distinguono per ingegno, dottrina e probità, senza pericolo alcuno d'ingenerarsi il sospetto di dipendenza, o di un calcolo d'interesse.
Né con tale indennità si offenderebbe il decoro dei deputati, perocché sia un pregiudizio il credere che un lavoro equamente retribuito sia meno decoroso, e ci porterebbe a conseguenze molto maggiori che quella di negare l'indennizzo ai deputati: né si avrebbe, come da alcuno si asserisce, un aggravio pel pubblico erario, dacché le leggi di buona economia sociale ci suggeriscano, non doversi reputare soverchia una pubblica spesa quando è provata necessaria, e quando è di molto inferiore a quelle che indirettamente si richiedono a causa di un lavoro poco assiduo ed interrotto da parte dei rappresentanti della Nazione.
E poi, non è forse una flagrante ingiustizia, una disparità di trattamento quella che si commette e si usa tra un deputato investito d'un pubblico ufficio, e colui che, senza godere dei vantaggi di tal beneficio, si procura i mezzi di sussistenza con le opere dell'ingegno suo? Infatti, mentre questi pel puro amore della patria, abbandona la propria famiglia e la sorveglianza dei suoi affari per recarsi alla capitale, e per il tempo che disimpegna gli obblighi inerenti al suo mandato soggiace a gravi sagrifizii personali e reali; quegli invece continua a godere il suo lauto stipendio, senza più attendere agli obblighi della sua carica. E tale condizione di cose mantenendosi, non pochi sono i danni che ne risente la società, perché, eleggendosi a deputato, poniamo il caso, un professore universitario, costui, sotto pretesto di disimpegnare il mandato affidatogli, si porta immantinente alla capitale, abbandona la scuola, ed altrove cerca di godersi i frutti del suo impiego; mentre i giovani, assuefatti alla sua direzione, o si lasciano privi d'altra guida, ovvero si destina un sedicente professore che molte volte ne sa meno degli allievi stessi. Che se poi trattasi di aver eletto a deputato un magistrato, per esempio un consigliere d'appello, la non pronta amministrazione della giustizia, sarà la conseguenza di tale elezione.
Né a quella indennità che molti agognano di veder sancita in legge, osterebbe la disposizione del succitato articolo 59, perché i termini che lo informano non sono proibitivi, ma meramente e semplicemente negativi; come ancora non osterebbe il principio della inviolabilità della volontà manifestata dal potere costituente, perocché crediamo che ove ricorra un supremo interesse della Nazione, ivi possa farsi luogo ad una modificazione. Esempio ne ha dato il Belgio, ove si è fatto un assegnamento ai deputati. Per effetto stesso delle nostre libere franchigie, s'è introdotta la libertà di coscienza con essersi portata una sensibile variazione all'art. 1 della carta fondamentale; e la inamovibilità della magistratura, baluardo della società, si è ridotta ad una parola vana. Per l'articolo 67 i ministri sono risponsabili, ed in tanti anni di vita parlamentare mai si è fatta una legge!
Conchiudiamo colla fiducia che si vorrà anche portare una riforma a quella disposizione, onde così possa ottenersi una buona rappresentanza nazionale, illuminata, compatta e forte, col di cui mezzo si possa riparare i danni finora sperimentati, e prevenire quei dell'avvenire.
Oristano, 26 dicembre 1875
Avv. G. Sircana

 


CRONACA POLITICA
(pagg. 74-75)
Diamo un'occhiatina alla Borussia, cioè alla Prussia, a quel paese vigoroso che uscito dal margraviato di Brandeburgo, divenne il nucleo della Germania.
Bismark, che un giorno pronunziò il famoso motto: mann must cavourisiren, sembra un poco ecclissato; ma egli è come gli dei d'Omero, che ci celano opportunamente dietro una nube.
Le discussioni che fervono al Reichstag hanno una grande importanza, ma chi guarda ad esse? Il codice penale è destinato a ringiovanirsi di parecchie novelle, che riguardano la libertà personale ed i diritti politici dei cittadini. Già ne abbiamo parlato altra fiata, ma il dibattito continua, e prosegue con varia fortuna pel ministero.
Un paragrafo è approvato e due no; insomma al grande uomo di Stato possono toccare le sventure costituzionali del 1863, quando parlò di ferro e di fuoco, e dovette sciogliere due volte la Dieta.
Ma il neo-principe deve aver studiato il Principe di Machiavelli, che dettò nella sua discutibile sapienza: "Se bisognano negli Stati alterazioni, queste ritengano dell'antico il più che sia possibile, acciocché ai popoli non paia di aver mutato ordine, ancorché infatti gli ordini nuovi fossero al tutto alieni delli passati, giacché questi né per lunghezza di tempo, né per beneficii giammai si scordano".
Infatti egli, il Bismark, sembra aver abbandonato i liberali nazionali, ed aver fatto lega cogli antichi conservatori. Questi in Prussia rappresentano la parte dell'antica destra piemontese, la quale, come appare da una recentissima pubblicazione, era devota bensì alla politica del carciofo, ma dell'unità d'Italia non avea che un'idea monca. Su quello che qui diciamo si vegga la corrispondenza avvenuta tra Vincenzo Gioberti, il filosofo dell'ente che crea l'esistente, e un martire dello Spilbergo, Giorgio Pallavicino.
Ma i tempi sono mutati. Anche questo abbiamo notato in una delle precedenti riviste, e abbiamo paura del repetita seccant.
Il Machiavelli della Germania è uomo profondo benché rude. Siamo sicuri ad ogni modo che saprà stare al suo posto, e non abbandonerà i nobilissimi principii da lui espressi in una corrispondenza, ci pare, col ministro Schleinitz, quand'era ambasciatore a Pietroburgo.
"Il primo prete torni alla rete; vi sian preti, ma pochi e queti, dicea l'Astigiano"; e noi non ripeteremo le viete e classiche satire: però questa sentenza ci suona sempre all'orecchio virile ogni qualvolta osserviamo le faccende della politica.
La Camera dei Signori a Vienna, dove abbonda l'elemento aristocratico-feudale, approvò una legge sui conventi, che dieci anni sono sarebbe stato follia lo sperare.
Le corporazioni religiose hanno reso degli ottimi servigi in un tempo di ponti levatoi, di saracinesche, di parlatori, di martinelle, di scomuniche, di leghe lombarde, e via dicendo. Oggi non è più così: perché "le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo". E lo vanno comprendendo. I liberali, alla cui grande schiera apparteniamo, se ne consolino.
Victor Hugo, l'eccelso autore di Nôtre dame de Paris, dei Miserables, e anche, ce lo perdonino i suoi ammiratori, dell'Ode in morte di Luigi diciassettesimo, fu eletto da Parigi come delegato senatoriale. Questo evento è notevole, e colla sua luce tempera le ombrie delle elezioni avvenute sotto l'influenza dell'Amministrazione negli altri dipartimenti della Francia.
Noi siamo di quelli che adorano la libertà coll'ordine; amiamo il progresso, ligi alla sentenza di Aristotile: "Il demagogo e il cortigiano sono tutt'uno".
La Spagna, sul cui impero una volta non tramontava mai il sole, ci desta la solita pietà, e questo lo diciamo anche dopo le recenti elezioni alle Cortes. La maggioranza a favore del governo incarnato in Canovas del Castillo è immensa. Vittoria opprimente, che ogni fedele ignorante può capire. L'uomo può perire di piacer come d'affanno, cioè sotto un mucchio di fiori, come sotto un mucchio di ortiche. Ma lasciamo le figure, e diciamo con un oratore dei tempi della monarchia di Juillet: "Le maggioranze son buone quando rappresentano la nazione".
Vorremmo parlare della patria nostra: ma rivolgendo lo sguardo al continente e consultando la diversa canatterìa giornalistica non troviamo che logomachie e pettegolezzi.
Promettiamo però di occuparcene a dilungo un'altra volta.
A. Pandian

 


CORRISPONDENZE DELL'ISOLA
DA TIESI
(pag. 77)
Com'è dovere della stampa di far pubblici i mali che affliggono un paese, e di additarne i rimedi, così pure è santo dovere quello di render palesi le buone azioni, a esempio degli altri.
La tanca comunale di Tiesi Monte Frusciu era stata messa alla subasta per imposte arretrate di ottomila lire. La sua estensione era di circa 113 ettari chiusi a muro rustico e del valore di quaranta mila lire. E già alcuni speculatori si erano stretti in lega per presentarsi alla subasta e comprare la tanca per sole undicimila Lire, quando il bravo sindaco Raffaele Porcheddu e la Giunta scongiurarono il pericolo, e tanto si adoprarono presso i buoni del paese, che in pochi giorni raccolsero la somma di più che ottomila lire, e l'assuntore degli arretrati fu immediatamente pagato. Così la tanca non fu venduta a vilissimo prezzo e rimase proprietà del Comune di Tiesi.
L'atto generoso del Sindaco e della Giunta non ha bisogno di commenti. Ne imitino l'esempio coloro che sono preposti alle pubbliche amministrazioni!
26 gennaio 1876
G. C. Mansuino

Anno II Num. 6 Sassari, 6 febbraio 1876

CRONACA POLITICA
(pagg. 88-89)
Ci fu un giorno in cui Gambetta parlò di nuovi strati sociali, di quarto stato che chiedeva a cupa voce diritti che fino a qui gli erano cortesi.
Il linguaggio del tribuno provenzale da taluni fu compreso, da altri messo in caricatura. Non discutiamo in merito, giacché a noi non tocca che l'umile ufficio di cronisti. Ci sia lecito però notare che il così detto problema sociale s'impone terribilmente alle preoccupazioni degli uomini di Stato e dei legislatori di tutte le nazioni.
Un fatto singolarissimo avvenne in relazione a quanto osserviamo nel Reichstag germanico. Era in discussione il nuovo paragrafo del codice penale, che punisce gli attacchi scritti o verbali contro l'istituzione del matrimonio, della famiglia e della proprietà.
Il Governo, col mezzo dell'energica parola del ministro Eulemburg, sostenne l'adozione di quella novella, agitando fieramente lo spettro del socialismo. È forse vero, pel socialismo supremi ideali sono: nel campo politico la repubblica rossa, nel campo economico il comunismo, nel campo religioso l'ateismo.
Ma credete voi che il Reichstag se ne commovesse? Niente affatto. Anzi respinse all'unanimità la proposta del governo, ossia il paragrafo 128 appuntato contro i socialisti.
Il fatto doveva produrre, come infatti produsse, una vera commozione. Ognuno si domandò come mai le deleteriche dottrine di Lassalle, Bebel, Liebknecht... abbiano già tanta forza da soggiogare non solo i progressisti, i liberali nazionali, ma i puritani del protestantismo e gli ultramontani del Centro.
La cosa è grave assai così per la Germania, afflitta altresì da una penosissima crisi industriale, come anche pel resto d'Europa. Oltrecché è sempre vero che exempla trahunt e che il contaggio di certe dottrine è terribile, c'è pericolo che il miglior partito venga tratto per questa aberrazione dei liberali, dalla falange guidata dai Reichensperger e dai Vindthorst. Il principe di Bismark potrebbe forse colla possente sua voce far la parte del Nettuno virgiliano e intimando un quos ego a tutto questo abbaruffamento, ricondurre l'ordine e ricomporre la maggioranza.
Ciò è vero; ma non è certo che possa avvenire. Potrebbe accadere invece che egli chiedesse l'appoggio dei conservatori e reazionari, i quali sarebbero pronti ad accoglierlo, avendo essi così grandi braccia che, come la divina bontà, accolgono tutto ciò che si rivolve a loro.
Nel qual caso qual piega prenderebbe la lotta che dappertutto si combatte tra il progresso e l'immobilità, la società civile e la clerocrazia?
Ci scusino i lettori se ci siamo indugiati alquanto su questo incidente, che è certo il più importante fra quelli che sorsero in questi giorni nell'ardente campo della politica.
Le elezioni senatoriali in Francia erano attese con grande ansietà, e riuscirono tali da non sgomentare nessuna immaginazione, tranne quella dei legittimisti e degli orleanisti, reliquie fossili, oggetto di studi archeologici e nulla più. La prevalenza pare l'abbia avuta il partito costituzionale, vale a dire di coloro che sostengono la costituzione del 25 febbraio ed amano il Settennato muoia di consunzione.
È notevole però il fatto che i ministri Buffet e Dufaure, rappresentanti la parte più retriva e antiliberale nel ministero, non furono eletti, come deve recar meraviglia che Victor Hugo, il sommo pontefice del radicalismo parigino, e gli altri correligionari suoi, non sieno riusciti che a stento, cioè al secondo scrutinio. Che Parigi, dopo aver subito la diminutio capitis maxima, abbia rinunziato ad essere il cervello del mondo? Al divinizzatore di Gabroche l'ardua sentenza.
Rimangono a vedere le elezioni generali sulle quali poggiano tante speranze e tanti sgomenti. Dall'esito avuto da quelle del Senato non si può fare alcun sicuro pronostico. Il suffragio universale fonte di ogni sorpresa. In esso ripongono ogni fiducia così i repubblicani d'ogni tinta, come i vessilliferi dell'appello al popolo, che vogliono l'Impero. Questi, dobbiamo dirlo, vanno acquistando terreno, e la via ch'hanno percorsa dal 5 settembre 1870 fino ad oggi è lunga. Il famoso poeta del jamais si mostra instancabile nella propaganda a favore de' suoi imperiali padroni, ed è coadiuvato potentemente da uno stuolo devoto ed intrigante. Nel nuovo Senato i bonapartisti riuscirono ad introdurre parecchi dei loro, forse molti ne introdurranno nella Camera. Saranno una minoranza, ma minoranza vivace, fidente, compatta. Nel 1850 sorse l'Impero pei mille errori commessi dalla Repubblica. Perché non potrebbe verificarsi altrettanto nel 1880?
Vorremmo toccare e del tortuoso andamento diplomatico per gli affari d'Oriente, e della ridesta energia militare delle truppe alfonsiste contro le masnade del Pretendente; ma lo spazio ed il proto sono come il Fato della mitologia che la imponeva allo stesso egioco Giove.
Adunque alla ventura settimana.
A. Pandian

 


CRONACA DI CITTÀ
TASSA SULLE PIGIONI
(pagg. 93-94)
Illustre signor sindaco commendator Pasella!
Da qualche tempo in Sassari si è sparsa la novella,
Che voglia il Municipio, per giuste sue ragioni,
Proporre la magnifica tassa su le pigioni.
In fondo in fondo, invero, è una tassa morale,
Perché ci condurrebbe in breve... all'ospedale,
Ove si spira un'aria più balsamica e pura,
E di là tutto godesi il cielo e la natura.
Da parecchi anni in Sassari c'è la brutta mania
Di fabbricar figliuoli, con poca economia;
E sempre più che aumenta la gente benedetta,
E più si è ognor costretti far nuove case in fretta.
Ahimè, se si continua ancor di questo passo.
A furia di... straspendere sarem ridotti in asso!
Diventerà una Ninive questa città sì amena,
Né potrà convertirla neppure... una balena.
A riparar lo scandalo, ora che ancor si è buoni,
Presto un farmaco ad hoc: Tassa su le pigioni!
Così a quel padre povero, ma ricco di figliuoli,
Ben passerà la voglia d'aver stanze a poggioli;
E con un'equa imposta, in ragione dei figli,
Se lui vorrà star sano a altro mestier s'appigli:
Ché se ancora è cociuto, gli s'aumenti, per Dio!
E tornerà ben presto al suo buco natio,
In barba ai ricchi celibi, che hanno una stanza sola,
Ammobigliata e comoda, sì che piace e consola;
E dal Molino a vento, ove si è sparpagliato,
Tornerà in massa il popolo nel caro San Donato,
In Sant'Apolinari, e nelle amene strette
Che, a' giorni del colera, fur tutte benedette...
Ma, caro signor sindaco, se l'imposta è morale,
Non mi sembra del caso in questo carnevale.
Lasci che ancor divertasi, che aumenti la città,
C'è poi tempo in quaresima gridarle: "Chi va là"?
Perché però non restino vuote affatto le casse
Propongo al Municipio altra specie di tasse.
Dei cani più non parlo; eran cespite vano,
E fe' bene a mangiarseli Ferdinando il toscano.
Vorrei che s'imponesse la tassa sui briacconi
Che di notte si trovan per le strade a tentoni.
Or che il vino è a buon prezzo, sopra sbornie tremila,
A dieci lire ognuna, son lire trentamila.
Propongo la seconda tassa sopra coloro
Amici delle carte e del giuoco del moro.
Siccome sono a Sassari un mille sfaccendati,
Son diecimila franchi già belli e guadagnati.
Eccone un'altra bella: Tassa sulle campane
Che ci rompono il timpano fin dalle prime mane.
Alla povera cassa comunale assicuro,
Che avrà dalle campane un cespite sicuro.
Diecimila sonate, a dieci lire ognuna,
Son centomila lire che il Municipio aduna;
E ancor più, se aumenta la tassa a quelle fesse
Di San Donato, celebri pei vespri e per le messe.
Anzi le raccomando all'agente Bottino,
Che le sente, e in che modo, tutto quanto il mattino.
La vede, signor sindaco? Son queste o no cristiane?
Ma lasciam le pigioni, l'acqua, la carne, il pane!
Non faccio per vantarmi, ma, fossi alla finanza,
Ritroverei il pareggio senza alcuna esitanza.
Ci ho in testa tante tasse quanti son giorni all'anno,
E non sarebbe Italia in miseria ed affanno!
È tanto in me l'amore delle tasche al progresso,
Che in un momento lucido io tasserei me stesso!
Or senta una quarta: Tassa sopra i chignoni.
Son tante teste in Sassari di donne, a torrioni,
Che il Municipio avrebbe un'entrata sicura,
Senza contar la cipria, che usan fuor di misura.
Vorrei pur si tassassero i notturni cantanti,
Che a spese dei polmoni gonfian le loro amanti.
E poi le raccomando che sorvegli un tantino
I venditori pubblici che battezzano il vino;
E chi in teatro fischia senza capir un acca,
Sol per farsi gran merito presso la sua saracca...
Se poi s'entra al mercato ed alla pescheria,
C'è là d'oncie rubate una gran litania.
Sol che una lira paghisi per ogni oncia rubata,
Prometto al Municipio un milione d'entrata.
E c'è tante altre tasse: tassa sopra i monelli;
Tassa sopra i carnefici che batton gli asinelli;
Tassa sugli studenti che si prendon vacanza,
Su quei bimbi che fumano con assidua costanza;
Tassa sopra i cichetti,; tassa... Ma basta alfine,
Ché tasse, signor sindaco, troverei senza fine!
Ponga in pratica queste cui finora ho accennato,
E fia la cassa civica in ottimo stato.
Ma lasci le pigioni, almen di carnevale
Che i buoni Sassaresi passeranno men male
Di quel dell'anno scorso, in cui scadea la rata
Del pagamento, proprio nell'ultima giornata;
Sì che invece d'andare ai balli o ad altro giuoco,
Correvano i morosi dall'esattor Baloco!
Deh scusi, signor sindaco, se, senza tanti fiori,
Le ha parlato di tasse il suo...
Secchi Dettori.
Sassari, il giorno cinque del mese di febbraio,
Nell'ora in cui la fame risveglia... il campanaio.

Anno II Num. 7 Sassari, 13 febbraio 1876

CRONACA POLITICA
(pagg. 106-107)
Nell'ultima cronaca politica, scritta per questo periodico, impromettevamo di discorrere sull'andamento tortuoso della diplomazia occupantesi degli affari d'Oriente e su quella olla podrida che è la confusione spagnuola.
Quanto alla diplomazia non ci è possibile che raccogliere quanto vediamo scritto ne' giornali, illuminato da quel po' di criterio che natura ci ha fornito. Non siamo addentro alle segrete cose, laonde ci contenteremo di rimanere alla superficie. La nota Andrassy è il capo-saldo di ogni ragionamento, benché cosa vacillante, e che potrebbe sostituire la commedia di Pullè: Polvere negli occhi.
That is the question: la diplomazia dei tre imperi l'accettano senza riserve, l'accetta la Turchia, l'accettano gl'insorti? Il dubbio regna sovrano sopra tutti questi quesiti. In dubiis libertas, disse un giorno la Filosofia Scolastica e noi pigliamo a due mani il comodo aforisma.
Un'opinione ci sta fitta in capo, ed è che il demone della discordia abbia ficcato le corna tra il nido delle tre aquile. La Wiener Zeitung, la Kölnische Zeitung e il Journal de Saint- Petersbourg ci aiutano a persuadercene.
La Porta è fra due cibi distanti e moventi d'un modo, cibi amari però, e se non è come l'asino di Buridano, di cui parla il massimo poeta, è un miracolo. Accettare o no le proposte Andrassy: ecco il dilemma. Se accetta sinceramente l'impero va a catafascio, e lo dimostra l'ombra del Sultano Mahamud, se non accetta può dire come Luigi XV: Après moi le déluge.
La via che ha scelto il Sultano, ci sembra quella di tutti i disperati. I tirannucoli d'Italia nel 1848, minacciati dalla Rivoluzione, accettarono tutti il Patto Octroyé, salvo poi a spergiurarlo. Ma qual fu la fine?
L'Austria, che pensa alla prevalenza intelligente e guerriera degli Ungheresi e dei Tedeschi non sa risolversi a farsi slava, seguendo il consiglio di Talleyerand, di Balbo e di tutti gli statisti di buon senso. Fa della diplomazia e niente più. Dal dì che il Felix Austria nube perì, pel risorgere di altri concetti, l'impero tentenna e geme in continua agonia.
Alla Russia manca l'indole ardente, giacché questa non si affà alle tartarughe. Ha la passione del Panslavismo, ma questa idea non basta a determinarla a grandi cose. Dalla pace di Kainargi in cui prostrò la Turchia, coltivò una ambizione blandita e gonfiata di continuo da un'aristocrazia, che dista dall'inglese come le capanne degli Eschimali dalle Work-House.
Però la Russia ha uno zampino tormentatore nella quistione d'Oriente, e non si sa a qual fine abbia sottoscritto alla nota di Andrassy. Il Testamento di Pietro il Grande è impugnato dalla critica storica, ma dato che ciò non fosse, è impugnato dalla critica dei cannoni Krupp, e dalla moderna strategia.
L'Inghilterra, eterna rivale della Russia, mostra l'ira maestosa dello "annoverese impavido cavallo" e sembra voler mostrarsi, come ai giorni in cui votava mille milioni contro la Francia, allorché questa non aveva in cassa cento e sessanta mila franchi. Manda rinforzi alla flotta navigante nei mari della China, si pianta a Aden, a Perin, al Delta egizio, proclama per la bocca di Disraeli e Derby, grandi uomini di Stato, che predilige la pace.
Pax hominibus bonae voluntatis, telegrafò agli Stati Uniti un giorno la regina Vittoria, inaugurando il cordone transatlantico, e fu stupendo il pensiero. E ce ne siamo innamorati; ma quanto la realtà dista dal sogno! Vedi l'apostolato dell'umanitario Fischof, di cui abbiamo dato contezza nella Stella. Egli è berteggiato da non sappiamo quale Zeitung della Germania, e da quanti statisti da dozzina, o gretti materialisti.
La Spagna vollero assegnarla alle razze latine. Di questa teoria, proclamata con tanta enfasi da Napoleone III, nelle sue Idées Napoléonniennes non siamo gran fatto perduti. Crediamo che sia anch'esso uno di quei fuochi fatui di cui vediamo abbondanza ne' terreni fermentosi.
Se siamo amici e adoratori di Quiroga, di Riego, di Bendizabal, di Castelar, non lo possiamo essere di Zorilla, di Salmeron, di Figueras, e molto meno di Canovas del Castillo.
Questi è capo del Governo di don Alfonso, e riflette in uno specchio appannato il maresciallo Mac-Mahon. Merita però un certo riguardo, avendo sulle spalle la guerra carlista. Quesada, Moriones, Martinez Campos... sono generali valorosi, e in questi giorni parvero lanciare i bollettini della Grande Armata. Sarebbe cosa difficile lo stabilire i punti strategici delle Provincie Basche, e indovinare i risultamenti della guerra. E noi non ci cacceremo nell'inutile ginepraio. Esprimiamo soltanto la speranza che pace, ordine, libertà sieno ridonati alla Spagna.
Siamo debitori d'una mesta rimembranza a Gino Capponi. Avremmo dovuto, è vero, ricordare i dolori, le gioie e le virtù di lui in più largo spazio. Ma ciò non ne è concesso. Del resto poche parole bastano, quando queste sieno animate dall'affetto. Il discendente di chi intimò allo storpio e salace Carlo VIII: date fiato alle vostre trombe, e noi suoneremo le nostre campane, moriva a ottantatré anni.
Di lui ogni scolaretto potrebbe ragionare, e tessere panegirici. Tutti i giornali in questi giorni ne hanno parlato, e si sbizzarrirono in frasi fatte e di conio sentimentale.
Noi ci contenteremo di applicare al grande e venerato fiorentino e italiano i versi che applicava a sé stesso Delille, quando repudiava i cento scudi e le insistenze della moglie:
On ne put arracher un mot à ma candeur
Une mensonge à ma plume, une crainte à mon cœur.
A. Pandian

Anno II Num. 8 Sassari, 19 febbraio 1876

CRONACA POLITICA
(pagg. 122-123)
Dobbiamo far motto di due discorsi reali pronunciati l'uno all'apertura del Parlamento inglese, l'altro all'apertura delle Cortes spagnuole. È chiaro da un pezzo il valore intrinseco di questa sorta d'arringhe. Se ad esse non si può applicare con rigore il famoso detto di Amleto: parole, parole, non sono nemmeno documenti tali da cui traspaia sinceramente il pensiero del Governo.
Ad ogni modo giova tenerne conto. Il passo più notato e più importante del discorso della regina Vittoria fu quello che riguarda la questione d'Oriente, e l'acquisto delle azioni del canale di Suez. La politica inglese qui appare quale fu potuta intravvedere anche dal linguaggio de' più riputati giornali ne' dì passati. Se non che Disraeli che, come si sa, oltre essere insigne uomo di stato è anche eccellente letterato, diede al discorso reale una forma di particolare levigatezza ed eleganza.
Insomma ecco tutto: la regina commossa dagli eventi della Bosnia e dell'Erzegovina unì l'opera sua a quella delle altre potenze onde persuadere la Porta a concedere le riforme reputate necessarie per ricondurre la pace e la prosperità ove ora regna la desolazione e la guerra.
Quanto all'acquisto delle azioni del canale di Suez, la regina esprime la speranza che il Parlamento approverà la condotta del Governo.
L'approverà davvero? La discussione, che s'è accesa immediatamente dopo il discorso reale fra i ministri e i capi dell'Opposizione dimostra che il Governo dovrà dare le più ampie spiegazioni del grand'atto politico-finanziario da lui compiuto, ma non v'ha dubbio che riuscirà vincitore. Attendiamo questo dibattito che vuol'essere de' più gravi e solenni.
Anche re Alfonso ha fatto sentire per la prima volta la sua voce davanti alle assisie della nazione. Confessiamo che i periodi del suo dire erano bene aggiustati, la frase colorita, i concetti generosi. Ciò però non può meravigliare nella patria di Calderon e di Castelar: colà l'eloquenza e lo splendore della forma sono merce a buon mercato.
Ma quanto alla sostanza? Debbe aver destato compassione quel povero giovane costretto a dire che le relazioni della Spagna colle altre Potenze sono cordiali, ma che Cuba corre pericolo di essere strappata al dominio della patria. E qual cuore non dovette poi essere il suo allora che, accennando alle disastrate condizioni della finanza, dovette confessare che soltanto una prossima pace può fornire i mezzi atti a migliorarla, e porre fidanza nel patriottismo delle Cortes che "saprà equilibrare il bilancio e pagare tutti i creditori per quanto sarà possibile"?
Il telegrafo ci avverte ad ogni modo che parecchi punti del discorso furono applauditi e massime quello che parla della liberazione di 76000 schiavi, avvenuta durante il nuovo regno.
Il Governo e il giovine re, convien dirlo in omaggio del vero, fanno il possibile per rassodare gli ordini interni e distruggere il carlismo. Tanto è vero che alla vigilia dell'apertura delle Cortes furono fatti arrestare parecchi radicali, e il re si recò sul campo ove si arrischia di morire, e talvolta di raccomandarsi alla fuga. In verità che ove accada qualche sinistro, nessuno potrà dire né ad Alfonso XII né a Canovas del Castillo: Tu l'a voulu George Dandin.
Il Reichstag germanico fu chiuso e il Principe di Bismark pronunziò un discorso in cui ringraziò la rappresentanza nazionale dello aver votato il nuovo codice penale. Questo forma un nuovo e importantissimo passo fatto dalla Germania nella via della sua unificazione. Quale distanza dal giorno in cui quella poderosa nazione era sbocconcellata in trecento e cinquanta stati, divisa di studi, di aspirazioni, di glorie e di dolori?
Il Reichstag può inorgoglire di avere nel campo della scienza continuato l'opera di Sadowa e di Sedan, e potrebbe anche compiacersi d'essere lo scudo adamantino della libertà, se non avesse a fare con un sistema di Governo in cui il ministero può con successo mettere in pratica il consiglio che Paolo Luigi Courrier faceva dare da Luigi XVI di Francia al re di Spagna, relativamente ai deputati: quand leurs criailleries deviennent incommodes, on fait jeter quelques seaux d'eau dès que le budget est voté.
In Italia gran battagliare sui giornali pel romoroso fallimento della società la Trinacria. Il sussidio di 5 milioni che si ebbe questa dal Governo è argomento di graziose polemiche.
Il deputato Sambuy di Destra esclama: se quei milioni furono gettati è colpa della Sinistra. No, intuona l'on. Villa di Sinistra: la colpa ricade tutta sulla Destra. In somma sarebbe un peccato se in questi giorni apartenessimo alla schiera di chi non s'occupa di politica, perché saremmo privi di uno spasso assai divertente. La cosa però ha il suo lato serio, e come! Desideriamo che s'apra presto il Parlamento.
A. Pandian

Anno II Num. 9 Sassari, 27 febbraio 1876

CRONACA POLITICA
(pagg. 136-137)
Vorremmo quasi dire ab Jove principium, ma l'Italia non è Giove, bensì Enotria, terra del vino, alma parens, e tutti quelli altri titoli che l'epica grandezza dei dì che furono ci fece conoscere.
E tutto questo preambolo perché? Qui nous délivrera des Grecs et des Romains ? ‒ cantava un poeta francese. Ebbene a tal proposito diremo che l'on. Sella recatosi a Vienna per negoziare circa la convenzione delle ferrovie fu degnamente accolto e festeggiato dall'imperatore, dal ministro Andrassy e dal presidente del Reichsrath.
Finora s'ignora ciò che sia stato concretato benché un dispaccio ci ammanisca cose orgogliose, che noi desideriamo e speriamo sieno precise. Comunque la cosa stia è consolante il vedere l'Espressione geografica di Metternich prender corpo dopo soli sedici anni d'esistenza.
Ripassin l'alpe e tornerem fratelli ‒ diceva Nicolini e pare abbia imberciato nel segno. Fatto sta che gli esecrati ebbri di prepotenza quali erano un giorno i dominatori della nostra patria, oggi ci dimostrano quella stima che non è né ostentazione né offa, ma giusto e mediato apprezzamento.
L'esito delle elezioni generali in Francia è il fatto capitale del momento e anche il fenomeno storico di maggiore curiosità. Il gesta Dei per Francos, che con morboso anacronismo i Franclieu e i Larochefocauld evocarono dalla tomba quasi millenaria nella passata assemblea rurale, è repudiato dalla nazione. Qualche volta ci accadde di usare acerbe parole contro la Francia sorella, che va soggetta politicamente alle febbri intermittenti. Quasi quasi ce ne duole: non conosciamo perfettamente quanto sia accaduto nello scrutinio del 20. Però i telegrammi sono abbastanza eloquenti.
Gli onori del trionfo vanno a Thiers e a Gambetta, le due teste dell'attuale evoluzione repubblicana della Francia, come ottantaquattro anni sono lo erano il giovane Barnave e la voce più eloquente dei Girondini, Vergniaud.
Thiers repubblicano è una faccenda curiosa come la caduta di un bolide. È certo che il sostenitore e demolitore nel tempo stesso della Monarchia de Juillet è una specie di Proteo. Ma d'altra parte non diceva Carlo X che tutti dall'89 in poi avevano cambiato opinione tranne lui e Lafayette?
Torniamo a bomba. I giornali Bonapartisti diffondono lo sgomento pella riuscita delle elezioni. Ci sembra veder rediviva la tattica del 1850, così ben delineata da Lamartine nel suo opuscolo d'occasione: Au peuple.
Ma riusciranno? Tempora mutantur et nos mutamur in illis. La lotta, si dice e si ripete dai sori della politica, è rinchiusa fra la Repubblica e l'Impero. Ma noi crediamo che la Francia stanca dell'esperimento di sedici costituzioni in meno di un secolo, sia disposta ad adagiarsi nella serenità del regime repubblicano moderato.
Questo almeno è da vedere volendo ragionare sui fatti che ci colpiscono gli occhi.
Una bufera di voci e di notizie vengono sull'ale del telegrafo a dirci della quistione orientale. La primavera s'avvanza e gli eroi l'aspettano. Si ripete che se questi possono reggere fino a quella stagione, qualche aiuto decisivo verrà. Lo crediamo. I dervis che avvolti di eterea luce minacciano il riformatore Mahamoud oggi sono scaduti di credito, come la rendita turca. Però c'è la diplomazia, la vecchia sdentata, distributrice di popoli, come la chiama Garibaldi. Questa lavora, né si sa che cosa covi. Il Times in questa quistione fa la parte di talacimano, e qui ci scompiglia la fantasia con articoli apocalittici. Alla Germania attribuisce la foia di impadronirsi delle provincie tedesche-austriache, alla Russia della Polonia.
Ci rincresce di dover condurre i nostri lettori traverso il labirinto di ipotesi avventurate e d'opinioni che forse domani sfumeranno alla pubblicazione di qualche documento. Ma è forza sobbarcarvici.
Entrerebbe in scena la Spagna, secondo le esigenze della cronaca. Ma non c'è da pensarci. Nel 1821 i Carbonari, nobili spiriti e precursori quasi dimenticati dell'età presente, adottarono pel regno di Napoli la costituzione spagnuola del 1812. Hanno fatto male, perché le leggi che stanno bene ad un popolo, mal s'addicono ad un altro. Sono come i vestiti.
Ad ogni modo questa scimmiotteria prova la stima che si aveva della patria di Palafox, dell'Empecinado e di donna Burita.
Oggi tutto è mutato. Ci dicono che Estella, la cittadella del carlismo, sia presa dagli alfonsisti. È un impresa che ha la sua importanza, ma che non ci dà nessuna guarentigia.
Gli stati vassalli della Turchia s'armano. Serbia e Romania paiono tornare al sentimento del loro dovere, contro quell'orda che dal 1452 rimane accampata nelle più belle contrade di Europa. I parlamenti che così a Bukarest come a Belgrado imperano non sembrano fare buona prova. O noi intendiamo male gli eventi di quei paesi, oppure abbiamo ragione di dire che gli ordini costituzionali colà attechiscono penosamente. Gli antichi Romani ne' più gravi frangenti eleggevano un dittatore. E avevano ragione. Gli Stati semi-indipendenti di cui parliamo hanno bisogno di concentrare le loro forze. Ma non lo fanno. Una semplice domanda: non si troverebbe qui la ragione precipua di quella debolezza che spinge a domandare perché milioni di cristiani si rassegnano allo strazio immondo che di loro fanno un branco di turchi?
A. Pandian

Anno II Num. 10 Sassari, 5 marzo 1876

CRONACA POLITICA
(pagg. 154-155)
Disfatta solenne, completa, irreparabile, almeno per molto tempo, dei Carlisti: ecco la notizia più reboante della scorsa settimana. Il pretendente ha ripreso la via dell'esilio, e non si può dire nemmeno che magnis cecidit ausis, come Ovidio sentenziò di Icaro, se non in quanto proseguì per cinque anni una guerra scellerata straziando ferocemente la patria sua, e provocando le maledizioni del mondo civile.
Vuolsi che abbia riparato in Inghilterra, il paese ospitale per eccellenza, dove potrà divorare la rabbia di non essere riuscito, d'accordo con tutto il legittimismo europeo, a "formare la felicità de' suoi popoli" restaurando l'Inquisizione.
Il crollo del carlismo segna, insieme ad altri fatti manifestatici in questi giorni, un novello trionfo dell'idea liberale, e per conseguente un colpo tremendo alle speranze della reazione che ha il suo quartier generale in Vaticano, all'ombra delle "somme chiavi".
Già la cronaca può notare con gioia che se le gole leggendarie di Roncisvalle viddero la caduta di Don Carlos, a Vienna furono resi inani gli sforzi per sostituire al ministero Auersperg, un sistema clerico-feudale, di cui sarebbe stata l'anima il conte Taaffe, a Bruxelles un ministero reazionario è rimorchiato dalla forza irresistibile del progresso a concessioni aborrite, e in Francia trionfa splendidamente la Repubblica moderata.
Le notizie che ci pervennero di colà confermano pienamente quanto il telegrafo ci aveva fatto presentire fin dalle prime. Bonapartisti, legittimisti, orleanesi furono messi a sbaraglio.
Non conosciamo ancora l'esito dei ballottaggi, ma questi non possono alterare sensibilmente le proporzioni esibite dallo scrutinio del 20 febbraio.
Che cosa rimane ora ai vinti? Nemmeno il plauso di Catone, cui placuit causa victa. Gli organi del nero codazzo, e quelli degli esuli di Chislehurst si sveleniscono in recriminazioni ed evocano lo spauracchio della Comune. Ma è a sperare che ciò sia indarno. Anche in Francia le lezioni amare della storia devono portare i loro frutti. Si pone in dubbio, è vero, che il Maresciallo Mac-Mahon, il quale ha da governare fino al 1880, voglia acconciarsi a scegliere i suoi ministri dalla nuova maggioranza.
Ma ciò non è che una conghiettura basata sopra dati vacillanti.
Fatto sta per ora, che egli si è piegato alle voci della pubblica opinione accettando le dimissioni del retrogrado e sconfessato Buffet.
Gli sguardi dell'Europa rivolgonsi un'altra volta alla Francia nella speranza che questa saprà una buona volta rimettersi in carreggiata, e chiudere l'era delle sue rivoluzioni: il che potrà ottenere se per ciò che concerne i suoi ordinamenti interni non oblierà, come troppo ha fatto dall'89 in poi, la sentenza che il sommo nostro Romagnosi dettava nella Genesi del diritto penale: "Il ben essere dell'uomo non fu coordinato alla conservazione dello stato sociale, bensì lo stato sociale fu coordinato alla conservazione e al ben essere dell'uomo".
Uno de' maggiori sopraccapi della diplomazia europea e degli amici della pace è tuttavia la crisi orientale. Il Sultano è impotente a porre il piede sulle faville che coprono il suo impero. La nota Andrassy ha messo lo sgomento nel Divano, e le promesse piovvero rapide e lunghe più che nessuno sperava. Ma gl'insorti non le accettano, e non si sa se le tre potenze nordiche vorranno imporle loro colla forza.
La situazione è sempre buia. Però chi vuole scorgere qualche po' di luce deve ficcare lo viso a Belgrado e a Cettinje. È di là in certo modo che si possono intravvedere le intenzioni delle potenze. Queste, è facile il crederlo, esercitano la maggior influenza sull'animo del principe Nikita, e del principe Milano. Se que' due regoli, costretti dal fato ad essere eroi, o abdicare, vengono in soccorso degli insorti e traggono apertamente la spada, è segno che Russia, Austria e Germania si rassegnano alla trasformazione dell'Oriente. Tale almeno è la opinione de più, e la nostra.
In mezzo alle più ragionevoli trepidazioni di prossima e grossa guerra, le idee di un disarmo generale, proposto con risoluta eloquenza dal noto dottor Fischof vengono accolte dal Parlamento viennese che le raccomanda al Governo dell'imperatore. Abbiamo già detto quello che ne pensiamo intorno a questi nobili conati degli umanitari. Per ora essi rappresentano, quanto alla loro pratica attuazione, la Città del Sole di Campanella e l'Utopia di Tommaso Moro. Però meritano plauso.
È poi per noi argomento di orgoglioso contento il vedere che si scelse Roma a sede di un Congresso del disarmo, la cui presidenza venne offerta a Garibaldi che accettò, come appare da una sua lettera al professore Sbarbaro.
Si tratterebbe di una specie di Parlamento del Genere Umano raccolto nella Città di tutti i secoli, per proclamare le gioie ed il trionfo della fratellanza dei popoli e del fecondo lavoro sopra i caduti trofei della conquista, e accanto ad una tarlata Teocrazia che attizza le faci della discordia e ripete sfalsando il Vangelo: ignem veni mittere in terrram.
Il 6 marzo si riapre il Parlamento italiano, le cui sedute avranno una importanza speciale per molte ragioni. Il Re farà udire la sua voce, giacché s'inaugura una nuova sessione.
Speriamo che i deputati accorreranno ad adempiere il loro dovere.
A. Pandian

 


CRONACA DI CITTÀ
(pag. 158)
Onorificenza. Il nostro Sindaco Commendatore Nicolò Pasella venne nominato con Regio Decreto, Senatore del Regno. È l'unico nostro Cittadino finora innalzato a tanto onore e noi ce ne congratuliamo col Pasella, tanto più che tale nomina ridonda anche ad onore della nostra Città.
I singoli membri del Consiglio Comunale, mentre con una brillante serenata, a cui prese parte la popolazione, esternavano al Commendatore la propria soddisfazione, si recavano a complimentarlo nella di lui dimora.

Anno II Num. 11 Sassari, 12 marzo 1876

CRONACA POLITICA
(pagg. 170-171)
La parola di Vittorio Emanuele risuonò un'altra volta nell'aula di Montecitorio davanti a buon numero di rappresentanti della nazione. Gli applausi accompagnarono, come al solito, il re, cui la nazione onorò del titolo non già di conquistatore, vittorioso, ecc., ma bensì di quello più giusto e più nobile di galantuomo.
Ma nei discorsi della Corona si è solito vedere lo mano dei ministri, e qui il pubblico fa le sue riserve. Non diciamo per questo che quello pronunciato il 6 marzo abbia dispiaciuto e né tampoco lasciato freddi gli animi, no. Ma quell'accento pacato, quelle idee positive, quella frase lucida ma fredda, quel fare tutto all'inglese, non ridesta l'entusiasmo. Del resto non siamo più ai fieri giorni della preparazione, quando le grida di dolore d'un popolo facevano che il re lanciasse di quei verbi che mettono in sussulto il cuore di tutti.
L'Italia è nel periodo del suo ordinamento interno, quasi come si trovò la Prussia dal 1816 al 1866.
Armi e finanze: ecco i due obbiettivi massimi de' nostri uomini di Stato, e a quelli si deve intender lo sguardo. L'esercito, lo assicurò il re, è ricostituito, e ne diede prove luminose nelle recenti manovre. Ciò è argomento per noi d'orgoglio e di sicurezza ad un tempo, giacché possiamo credere che la nostra indipendenza sarà validamente tutelata e i diritti guarentiti. Rimane a rafforzare la marina, ma anche a questa si pensa e lavora con a capo un vero uomo di mare di energica intelligenza.
Quanto alla finanza la quistione, per ora, si riassume tutta nel così detto pareggio. Ma è desso una realtà che abbiamo in prospettiva, oppure è quella "fatua fiamma, che sfugge e irride allo smarrito in tenebrosa landa"?
Siamo del pari distanti dall'illusione, come dell'abbattimento. Tutto bene considerato è da credere che la verità stia ne' termini usati dal re: confidiamo che entro la presente sessione si potrà annunziare che le entrate copriranno le spese. Confidiamo, è poco al nostro patriottismo, lo sappiamo, ma sappiamo anche che se oggi ci manca una trentina di milioni, dieci anni fa ne mancavano settecento, eppure la fede e l'energia ci preservarono allora dall'abisso finanziario. Dispereremo oggi? Sarebbe follia.
L'Imperatore Francesco Giuseppe d'Austria a Venezia "bevette alla salute dell'Italia" e l'Imperatore Guglielmo di Germania a Milano brindò "all'unione dei popoli italiani e tedeschi". Ciò è veramente epico, e doveva essere ricordato da Vittorio Emanuele. Invero il passo del discorso che vi si riferisce è certo dei più eccitanti. I convegni di Milano e di Venezia attestano la grande stima che i più potenti Sovrani d'Europa hanno della nostra patria, e inoltre sono arra di pace e di fraterna convivenza a popoli che per tanti secoli pareva avesser giurato nella disumana sentenza: homo homini lupus!
Ora la sessione parlamentare è aperta: rimane che si dia opera sapiente e sollecita ai lavori legislativi. Si vuole che il riscatto e l'esercizio delle ferrovie per parte del Governo sia la questione che terrà occupate quasi esclusivamente le Camere. Che questo sia, è probabile; quello che è certo sì è che quella delle ferrovie è una bisogna di altissimo momento per tutti gl'italiani, cioè non esclusi gl'isolani. È d'uopo perciò che le assenze di Deputati e Senatori dalle sale del Parlamento sieno più rare del solito: le vorremo anzi rarissime. Prima di prendere una deliberazione sulla questione che ci sta innanzi v'è da pensare due volte. Post factum nullum consilium.
Lasciamo per questa volta da parte la repubblica francese, e la quistione d'oriente, e i discorsi delle Cortes, e i trionfi di Alfonso XII per accennare a un fatto che da alcuni giorni mena nel vecchio e nel nuovo mondo uno scalpore tristissimo
Il generale Belknap, ministro della guerra negli Stati Uniti d'America, ha dovuto dimettersi, ed ora è posto in stato d'accusa per aver nominato certo signor Marsh agente commerciale a Fort Schill verso un compenso di 25 mila dollari.
È uno di que' fatti d'insigne corruzione, di cui nessun popolo va immune, e meno forse degli altri l'Inglese e l'Americano.
Le forme di governo per sé stesse non valgono né provano nulla. La virtù e la felicità non sono il prodotto di una costituzione politica, ma bensì del vigor morale custodito e fecondato da una sana educazione.
Negli Stati Uniti poi, è da un pezzo che si vanno manifestando i sintomi di quel malore che un giorno trasformò la Repubblica di Silla e di Mario nell'impero di Cesare Augusto.
Del resto è legge confermata dalla storia e riconosciuta da pubblicisti insigni, fra quali Toqueville, Quinet e Renan, che al trionfo della democrazia debba succedere il despotismo. Non facciamo vaticini, ma semplici e fugaci osservazioni.
A. Pandian

Anno II Num. 12 Sassari, 19 marzo 1876

CRONACA POLITICA
(pag. 189)
Nuntio vobis gaudium magnum, dicono quando si elegge un nuovo Papa. E noi ripeteremo la stessa cosa, non già trattandosi del successore di Pio IX, che Dio conservi finché gli piace, ma pensando alla esposizione finanziaria dell'on. Minghetti.
Un recente telegramma ci avverte che il faticoso e sempre vaticinato pareggio fra le entrate e le spese dello Stato è un fatto compiuto. Il bilancio definitivo del 1876 offre un civanzo di 10 milioni, il preventivo del 77 un civanzo di 15.
La fede è sempre buona, e se la poesia redense l'Italia come disse giustamente un dì l'on. Bonghi, la costanza ci ha salvati da disastri che potevano varcare i confini della finanza.
I balzelli che pesano gravissimamente sul popolo italiano, fanno stridere, ma portano i loro frutti, frutti di prosperità e di gloria ventura.
Ricardo Cobden qualche anno prima del 1848 visitando l'Italia ci confortava colle dottrina economiche attinte alla scuola di Manchester a sperare nel risorgimento politico imminente. Altri uomini di Stato stranieri della forza di un Bismark ci ricantarono che l'unico e formidabile nemico che ci resta a combattere è il disavanzo.
L'Italia fe' tesoro di questi consigli amichevoli, come si giovò delle ingiurie di Lamartine e di Lamorcière, nonché delle dimenticanze ingiuriose del Consulat et l'Empire di Thiers. La buona politica fa la buona finanza, e vice versa. Rallegriamocene e pensiamo che come nazione abbiamo raggiunto una meta invidiabile.
La felicità non è di quaggiù: un libro immortale, che si chiama Biblos per autonomasia, disse che la vita dell'uomo è una battaglia; pretenderemo noi violare il sapientissimo dettato? Le nazioni sono immortali, e se la nostra generazione è condannata a soffrire, come la precedente era devota a morte, non abbiamo diritto di muoverne lamento. L'Italia volle esser grande, e lo sarà; ma la più nobile delle ambizioni deve essere pagata a dovere.
Insistiamo un momento sulle cose nostre. I giorni passati ci pesava la minaccia di una crisi di ministero, che poteva diventare crisi di Parlamento. Secondo noi era la minaccia di una sventura. Non già che ignoriamo l'elasticità del governo costituzionale essere il rimedio opportuno a certi e molti mali pubblici, ma eravamo convinti che la solidità e la robustezza nell'alta amministrazione fossero ora più che mai necessarie. Per dirne una: chi preparò l'esercito Piemontese che fece la Cernaia, Palestro, San Martino, e il Tedesco che operò i paurosi portenti di Sadowa e Sedan? Due ministri che rimasero al potere uno sette l'altro dieci anni, Lamarmora e Roon. Isolati come siamo ed elisi dai consorzi ove si elabora la vita politica non possiamo arrischiare certi giudizi. Che cosa sarà domani? Un greco famoso, di cui parla Cornelio Nepote, essendogli riferito, mentre stava cenando, che la banda eroica di Timoleone aveva invasa la città per liberarla dalla tirannide gettò via ogni cura dicendo: in crastinum differo res severas. Guai alla nazione che si ispirasse al motto dell'Epicureo, che "l'anima col corpo morta fa".
Fu detto che "Dio è paziente perché eterno" e la sentenza è giusta del pari che sublime. Teniamocene conto e come individui e come Nazione, ossia come complesso d'individui. Ricordiamoci anche d'un'altra cosa, ad onta degli arretrati e delle subaste, che Cavour predicava che per far l'Italia bisogna "pagare, pagare" e che la Francia odierna, per imprevidente albagia, dové compensare la Germania dello averla rovinata con cinque miliardi, e che Roma antica ‒ non dispiacciano le date più gloriose e imponenti della nostra storia ‒ mise all'asta i terreni occupati da Annibale.
Il Ministro Bonghi, altrettanto filosofo che letterato insigne sebbene tocco dell'acredine del giornalista, disse inaugurando la biblioteca Vittorio Emanuele che Roma "è predestinata all'imperio". È solenne verità. Ma per arrivare a tanto occorrono fatti non parole, costanza indomita e fede.
Si può appartenere a qualunque partito: professare qualunque opinione, quando si è sinceri e galantuomini. Noi rispettiamo tanto Giuseppe Mazzini che era eroicamente infatuato della formula Dio e il Popolo, quanto Giuseppe De Maistre che nelle Lettres et opuscoles inédits sentenziò fumosamente che la nazione c'est le souverain et l'aristoratie.
Ma la verità e il buon senso anzitutto, e la difficile pratica della vita. I popoli, disse un giorno il Re d'Italia, apprezzano le istituzioni in ragione dei vantaggi di cui sono feconde. E sebbene la voce del popolo non sia sempre la voce di Dio come pretende il sommo autore delle Parole di un credente, noi siamo col popolo.
A. Pandian

Anno II Num. 13 Sassari, 26 marzo 1876

CRONACA POLITICA
SUL MESSICO!
(pagg. 202-203)
È un paese di grande estensione e di molta fertilità. Galleggia nell'Oceano Atlantico e merita che altri se ne occupi.
È repubblica, sempre turbata dalle guerre civili. Chi sieno i capi di quelle fazioni lo potrà sapere chi attenda un pochino alla cronaca politica.
Juarez non è più. Quello fu un terribile indiano, terribile al punto da far fucilare un imperatore che si chiamò Massimiliano d'Austria.
Questo giovane, che abbiamo conosciuto, dalla statura svelta, marito nobile, dalle bionde basette, scrittore distinto, e abitatore del castello di Miramare sull'Adriatico, aveva ottime intenzioni. Sognava, come Gioacchino Murat, alla distanza di 44 anni, il regno d'Italia. Lo appoggiavano insigni uomini, fra i quali basta nominare Cesare Cantù.
Ma evanuerunt sicut fumus dies mei, come è scritto nei Salmi. E il povero Massimiliano subì la sorte. Non sappiamo di nessun poeta che l'abbia cantato. Certo è però che ha il suo merito.
Gli Stati Uniti è un pezzo che sono considerati come devoti alla lettera, alla dottrina del presidente Monroe, il quale amò l'assorbimento.
L'America è degli americani, dice colà il Chauvinisme americano. Avranno ragione? Noi, a dirla come la pensiamo, non lo crediamo. ‒ Il lettore ci perdoni della necessaria rima. ‒ Non è per anco un secolo, e da due milioni arrivarono ai trentotto. È produzione meravigliosa.
Cortes, Pizzarro, Colombo, Amerigo Vespucci sono uomini rispettabilissimi: spagnuoli ed italiani. Diciamo italiani parlando soltanto dei due ultimi, benché Canovas del Castillo, il presidente dell'attuale gabinetto spagnuolo, abbia pronunciato la solenne bestemmia: che Colombo è spagnuolo.
Il nostro infelice amico, conte Carlo Leoni di Padova, in una solenne epigrafe disse: Galileo disarcana il mondo, lo ingemma Raffaello, lo raddoppia Colombo.
Crediamo al nostro nobile compatriotta.
Ma come c'entra il Messico? Il Messico c'entra sì, come la ragazza nel Vaudeville dei fratelli Ricci: chi la dura la vince.
Siamo italiani, ci pare, quindi un messaggio di tremila miglia di mare perpetrato colla fantasia, come un delitto, non ci sembra cosa impossibile. Anzi la cosa è fatta. Che cosa troviamo qui? Uno scombussolamento amministrativo, cioè ministeriale e parlamentare.
È cosa dolorosa. Ma abbiamo il fondo del vaso di Pandora, cioè la speranza: la nostra dottrina di Monroe è l'unita e la liberta italiana, il nostro Messico qualche cosa che è stupendamente formulato in un notissimo verso di Dante.
A. Pandian

Anno II Num. 15 Sassari, 9 aprile 1876

CRONACA POLITICA
IL MINISTERO DI SINISTRA
(da pag. 25 a pag. 28, vol. II)
Dobbiamo due parole di spiegazione, per aver la scorsa settimana lasciata nella penna la cronaca politica.
Come tutti gli altri, dentro e fuori d'Italia, anche noi fummo sorpresi del mutamento ministeriale, e dovendo parlarne come di cosa che s'impone a preferenza d'ogni altra, abbiamo voluto indugiare.
La sosta non fu né inutile né dannosa: ci fu dato leggere e rileggere il programma ministeriale, e udire le chiose dei cento giornali d'ogni risma.
Che cosa ne abbiamo ricavato? Ecco qui: la Camera elettiva volle un esperimento della sapienza della Sinistra temperata, e l'Italia sta a vedere.
Abbiamo deplorato con miti parole che l'amministrazione Minghetti sia stata costretta interrompere l'opera sua, giacché l'instabilità nel Governo genera inquietudine, sfiducia, turbamento. Però dichiariamo che non c'è da sgomentarsene.
I nuovi Ministri saranno costretti ad acconciare le fosforoscenti loro idee al rude cimento della pratica se non vogliono fare un precoce capitombolo. Ci dispiacerebbe soltanto che ripetessero il motto onde andò famoso Adolfo Thiers quando riuscì ad abbattere il rivale Guizot: "Suoneremo la stessa aria, ma la suoneremo meglio". In questo modo non si farebbe che rendere il sistema rappresentativo una specie di trespolo destinato alle gare bizantine di portafoglio.
Il Depretis dopo 28 anni di pratica parlamentare è venuto innanzi con parecchie promesse, delle quali è molto se una soltanto sarà mantenuta. Non diciamo che a lui, patriotta antico e leale, manchi il volere, ma bensì il tempo. È risaputo che i ministeri in Italia durano, in media, un tre anni tutt'al più. Tempo troppo breve per condurre a termine qualche grande riforma, come sarebbe l'allargamento della legge elettorale, il decentramento amministrativo, e il riempire le lacuna indicata dell'articolo 18 della legge delle Guarentigie.
Arroge gli umori un po' guasti della Camera. Quel fatale battaglione volante, senza bandiera e senza grandi principî, ma che decide delle vittorie parlamentari, come fu propizio al nuovo ministero così potrà alla prima occasione essergli fatale.
Tra gli onorevoli Depretis, Nicotera, Zanardelli, e gli onorevoli Ricasoli, Peruzzi, Puccioni, non ci può essere che momentanea e parzialissima comunanza di vedute. Laonde una nuova crisi non si farà aspettare molto tempo.
Dicesi però che in ogni caso si tenterà la prova delle nuove elezioni. E sia, ma il cimento sarà duro oltre ogni dire.
Del resto vorremmo che fosse dato il bando ad ogni illusione come ad ogni scoraggiamento. Abbiamo udito di plausi, di processioni, sbandierate e luminarie che si sono fatte perché un ministero di Opposizione si è finalmente costituito.
Ce ne è dispiaciuto, ed ha fatto egregiamente lo spiritoso ministro dell'interno a far udire una specie di quos ego. L'età della fanciullezza dev'essere tramontata insieme ai rosei giorni del 1848. Qual cosa più bella del compimento delle ferrovie, e quale occasione più opportuna pel Ministero ad accattare popolarità che il prometterlo pronto, sollecito, istantaneo? Eppure il capo del nuovo Gabinetto fu, in questo argomento, anche più cauto del Minghetti, perché affermò riciso ed asciutto che la "quistione dei lavori pubblici dipende dalla condizione delle finanze". Ed è vero.
L'Italia è tranquilla, perché sa che qualunque cosa avvenga alla superficie il fondo è incrollabile. L'unità e l'indipendenza non sono più in pericolo, come potevano esserlo prima del 1871. Le angoscie e i lutti di Sarnico, Aspromonte, Mentana sono, ne siamo sicuri, passati per sempre. Chi ne dubitasse mostrerebbe di aver dormito un settennio.
L'Italia risorta dev'essere un elemento di pace nel mondo. Questo fu sempre predicato dai nostri uomini di Stato, in parte perché è vero, in parte per farci perdonare la distruzione di sette troni. E fu politica moderata.
Ora il Ministero di Sinistra non dice altrimenti, sebbene la formola adottata per la politica estera sia questa: "Procurare coll'amicizia dei governi quella dei popoli".
Del resto le relazioni internazionali ora non possono essere difficili per l'Italia. Dovunque spira un'aura nuova di liberalismo, di cui ci possiamo giovare per le quistioni colla Chiesa.
In Francia la resipiscenza è quasi completa, e sta la Repubblica temperata; la Germania obbedisce al Principe Bismark; l'Austria rivolge tutta la sua attenzione all'Oriente; l'Inghilterra s'accampa a Suez e trema per le sue Indie; perfino la Spagna col suo articolo 11 della Costituzione pone fra i ricordi più tristi della sua storia la stolta spedizione di Fiumicino.
Insomma c'è da potersi muovere senza pericoli, anche senza avere per guida un Walpole, un Fox, un Pitt, un Cavour, o ricorrere sì frequente come in passato all'armamentario politico di Machiavelli.
La Sinistra Italiana è ora a gran punto, perché è costretta a riuscire se vuole mantenersi compatta e degna di governare la nazione. Se fallisce la prova e il vestigio che lascierà sul suo passaggio varrà, per dirla con Dante, "qual fumo in aere od in acqua la spuma", dovrà cedere per anni molti il campo ai suoi avversari, con danno grandissimo delle istituzioni rappresentative, le quali esigono l'alternarsi dei partiti al potere.
Noi speriamo che ciò non sia per accadere.
La costituzione inglese, derivante dalla Magna Charta del 1215, penò secoli e secoli prima di funzionare regolarmente; noi pretendiamo e auguriamo molto di meglio al Patto del 4 marzo 1848.
A. Pandian

Anno II Num. 17 Sassari, 23 aprile 1876

CRONACA POLITICA
LA CRISI ORIENTALE
(da pag. 59 a pag.61)
Anche la scorsa domenica la Stella uscì senza la cronaca politica, e i leggitori, se pure ne abbiamo, avranno per avventura chiesto il perché. Il perché fu una indisposizione di chi la scrive, il quale implora venia dello aver mancato all'ufficio suo, allegro però nella coscienza che il pubblico se ne sarà passato di leggieri. De minimis... con quel che segue.
Or bene, seguitando nell'intrapreso cammino, rivolgiamo lo sguardo all'Oriente. Una volta Voltaire scriveva a Caterina di Russia, la coronata filosofante: "Ebbene, madama, io l'ho sempre detto, la luce deve venire dal Nord". Al presente ognuno sa quanto e come il vaticinio peccasse d'adulazione anziché inspirarsi alla serena coscienza del vero.
Altrettanto temiamo accada per quanto concerne le osservazioni di taluni, i quali s'impromettono un equo scioglimento della quistione orientale, dal quale possa venirne lieto e glorioso avvenire ai popoli oppressi e scemi dei loro diritti.
Quindici anni sono, come troviamo ricordato in un recente lavoro intitolato Un mot sur la Turquie et ses réformes, si formulavano i seguenti voti e consigli : "Les temps sont venus où la Turquie se doit à elle-même et à l'Europe de marcher résolument vers un avenir meilleur ; Elle en a pris solennellement l'engagement en insérant dans le Traité de Paris le Hatt-Humayoun de 1856.
Ella aura pour l'aider dans cette noble tâche les sympathies et les encouragements du monde civilisé, la fertilité de ses vastes provinces, où vivent dans le découragement et souvent dans l'oubli des populations sobres, intelligents et économes.
Mais il est nécessaire que tous les sujets de la Porte à quelque religion qu'ils appartiennent, trouvent dans une administration intelligente et désintéressée toutes les garanties de sécurité indispensables au développement de la prospérité d'un pays.
Alors la Turquie prendra parmi les nations le rang que son importance territoriale et politique lui assigné, et elle pourra, sans crainte, envisager l'avenir".
Abbiamo riferito questo lungo brano di discorso per far conoscere come le speranze di veder la Turchia trasformarsi pacificamente secondo esigerebbero i bisogni della moderna civiltà, sieno da lunga pezza più diplomatiche che sincere.
Ora che cosa veggiamo? Il Sultano ha mostrato bensì di esser ricco di buone intenzioni promettendo mari e monti, cioè radicali riforme politiche, economiche, amministrative... Però non si tratta che di parole che saranno dolcesonanti come alcuni versetti del Corano, ma sempre e soltanto parole. Ad ogni modo nessuno crede che possano tradursi in fatti reali. Già le pratiche e pressioni diplomatiche intese a conciliare gli animi non valsero tampoco ad ottenere una seria e prolungata sospensione d'armi. I pacieri sono in preda alla disperazione, mentre il cannone ed il moschetto infallibile degli insorti fanno rimbombare le valli dell'Erzegovina e della Bosnia, facendo presentire come tra breve tutte le provincie ottomane saranno in fiamme.
Si potrebbe sperare che la sorte delle armi ed il Dio dei cristiani invocato dai prodi che, a prezzo della vita non chiedono che una patria e maggior rispetto ai diritti d'uomo farebbero quella giustizia che invano s'attende dal pacifico arbitrato e dalla ragione diplomatica?
Senza dubbio, purché il principio del non intervento fosse un dogma rispettato in Oriente come lo fu, per un istante all'Italia propizio, in Occidente.
E qui non possiamo fare a meno di notare che le rivalità e gli interessi diversi e contrari sono troppo possenti e numerosi sul Bosforo per non temere che qualche elemento estraneo, essenzialmente perturbatore, venga ad intralciare la naturale, più giusta e desiderata soluzione della quistione orientale.
Non siamo più all'epoca in cui l'Europa faceva la guerra per mantenere l'integrità della Turchia. Oggi se il conflitto ha luogo non può avere altro scopo che lo smembramento del crollante impero e una soluzione violenta e definitiva.
La diplomazia del resto lo comprende e cerca con ogni mezzo di allontanare la terribile evenienza. Tale tendenza s'impone e diventa comune, perocché sia facile vedere come, aperta la successione, l'eredità non potrebbe profittare a tutti. Il più atto ad impadronirsene è, senza dubbio, il colosso del nord.
La Russia, potente e tenace, è non solo la più vicina, ma eziando possiede titoli che seppe di lunga mano far valere agli occhi delle popolazioni della Turchia europea, titoli consistenti in una specie di protettorato e in una certa comunanza di religione e affinità di stirpe.
Da due secoli questa potenza è in marcia sopra Costantinopoli. Fu arrestata qualche volta ma non ha mai retrocesso, tranne un momento nel 1856.
Essa aveva fatto del Mar Nero un lago russo impadronendosi a poco a poco della Bessarabia, del Chersoneso taurico, del Caucaso, e fino a un certo punto della Rumenia.
La spedizione in Crimea ha paralizzato queste invasioni. Il Mar Nero fu reso libero, ma rimase sempre la strada più breve per Costantinopoli. Il gabinetto russo non ha disimparato l'arte di conquistare e proteggere le provincie dell'impero ottomano, non ha dimenticato che i preti russi sono i figli degli apostoli greci venuti dal Basso Impero per convertire i Sarmati, e non preterì occasione di far sapere in modo abbastanza spiccato che i russi erano là, pronti a soccorrere i loro fratelli orientali.
Basta; a buon intenditor poche parole.
Per conto nostro abbiamo finito perché non vogliamo, anche ci giovasse, entrare in maggior dettagli.
Ogni uno si pigli quello che crede. Però è giusto e logico il ripetere essere gran dubbio che la luce o la felicità ci venga dall'Oriente.
Questo concetto non istà qui a caso, perché è in nostra mente il Sommario della Storia di Italia e Le speranze d'Italia di Cesare Balbo.
Allora si diceva, forse dietro un consiglio di Tayllrand dato nel 1805 a Napoleone I, che l'Austria poteva rifarsi delle perdite in Italia colle provincie Slave.
Quel tempo sparì. Che oggi possa tornare, non è possibile sapere.
Di qui l'angoscia che la luce non possa venire dall'Oriente come non poté venire dal Nord! Del resto: Voce dal sen fuggita, più richiamar non vale... E Nescit vox missa reverti. Sono sentenze insigni di due italiani, (parliamo dell'ultima) alla distanza di 18 secoli.
A. Pandian

Anno II Num. 18 Sassari, 30 aprile 1876

CRONACA POLITICA
BIS IN IDEM
(da pag. 75 a pag. 77)
Nel numero precedente di questa efemeride abbiamo toccato della crisi orientale, esponendo l'opinione, o meglio la tema, che dalla presente levata di scudi dei cristiani non possa venire la vera redenzione dei popoli oppressi, perché nel movimento s'immischiano troppo le potenze e massime la Russia, che guarda più avidamente che mai verso Costantinopoli.
Credevamo che il detto da noi brevemente ci dispensasse, per qualche tempo almeno, dal tornare su questo argomento, ma ci siamo ingannati. Fu detto, e a ragione, che oggi gli eventi si svolgono con tale rapidità che ogni anno equivale a un secolo. Quindi in una settimana ben possono sorgere incidenti di tal natura da mutar faccia, almeno in apparenza, alla situazione.
E così ci pare sia avvenuto. Non già che i termini della quistione sieno spostati, non che l'odio che nutre l'oppresso per l'oppressore siesi convertito in amore, non che il Malato abbia ricuperato la salute, non che sieno tornati i tempi di Metternich, o dell'infame mercato di Suli, così propizi all'Ottomano, ma oggi mentre scriviamo è cresciuto il numero di coloro che sostengono essere possibile una transazione, sulla base, ben inteso, dell'integrità della Turchia e delle riforme già inculcate dalla nota Andrassy. Ci sembrano tornate di moda le erudite sottigliezze, che l'Ubicini sciorinava 25 anni sono nelle sue lettere famose per dimostrare la possibilità di un risorgimento della Turchia.
L'abbiamo già detto: sull'esito d'una sollevazione di tutti i greco-slavi, fossero anche coadiuvati dal Montenegro e dalla Serbia, non c'è da farsi molta illusione perché le potenze non lascierebbero fare. Troppi interessi, troppe influenze s'urtano, s'intrecciano dalla Drava ai Balcani, da Trebinjie al Bosforo. Il problema è più aggrovigliato che mai ed è un portento se non racchiude in sé le ragioni inevitabili d'una guerra generale.
Ma d'altra parte che cosa sperare della società ottomana, come si può credere di evitare una soluzione radicale del problema, vale a dire la completa distruzione dell'impero turco?
Questo non ha nulla di vitale. La razza turca, una volta conquistatrice e terribile, che seppe innalzarsi sulle rovine di due imperi, quello degli Arabi in Asia e quello dei Greci in Europa, non può né poté mai produrre il progresso, atta soltanto a ingenerare la morte.
La civiltà greca ed araba cadde nelle sue mani, e che cosa fece dello splendidissimo retaggio?
L'inferiorità degli Ottomani, come razza conquistatrice e produttrice, è oramai fuori di discussione. Nulla produssero mai perché nulla potevano produrre, né civiltà, né arti, né scienze, né lettere. Gli Ottomani non furono altro che feroci conquistatori, e dopo aver colla forza sottomessi gli Arabi d'Asia e i Greci d'Europa, gli Arabi, malgrado la comunanza di religione, rimasero fino ad oggi sempre Arabi, gli Slavi restarono Slavi.
Quando leggiamo sui giornali l'esposizione dei pomposi Iradè, e le esortazioni insinuanti del governatore Rodic ai capi degli insorti per indurli a deporre le armi, e le promesse velate di minaccia dei ministri Gortschakoff e Andrassy, e le egoistiche sentenze di Disraeli, tutti predicanti più o meno sinceramente che possono tornare a vivere in pace Turchi e Cristiani, noi allora ricorriamo con somma compiacenza alla lettura di queste linee vergate dal celebre Giuseppe de Maistre, a proposito della Grecia: "I Turchi sono oggi quello che erano alla metà del XV secolo, cioè dei Tartari accampati in Europa. Nulla può avvicinarli ai popoli soggiogati, come nulla può avvicinare questi a quelli. Colà due leggi nemiche si contemplano ruggendo: potrebbero toccarsi durante l'eternità senza potersi unir mai. Fra loro, nessun trattato, nessun accomodamento, nessuna transazione è possibile. L'una niente può concedere all'altra, e questo stesso sentimento che tutto avvicina, nulla può sovra di esse. D'ambe le parti i due sessi non osano guardarsi. Fra loro sta l'estremo supplizio. Si direbbe che Maometto II è entrato pur ieri nella Grecia e che il diritto di conquista sussista tuttavia nella sua ferrea pienezza".
Ci sembra superfluo aggiungere nulla al quadro, abbastanza vivo e parlante. Sulla risolutezza dei Cristiani a scuotere il giogo non vi è punto da dubitare. Con quale eroismo e fermezza siensi levati in arme, combattendo quasi senza speranza di aiuto, con pochi mezzi, privi di tutto quello che costituisce il nerbo della guerra, "forti armati dei proprii dolori", come diceva Manzoni degl'Italiani del 21, ognuno l'ha potuto vedere. Ora a chi s'intromette fra essi e i Turchi non rispondono se non: "Piuttosto la morte che il Turco".
È probabile che la forza alleata coll'astuzia soffochi un'altra volta la giustizia e la ragione; può darsi che qualche ibrida combinazione venga imposta ai due mortali nemici, giacché il sic volo sic iubeo risuona in questi giorni più chiaro che mai nelle note ufficiali anche della Russia. Invano però si potrà credere di aver ottenuto in Oriente pace vera e duratura. Una esplosione più terribile assai della presente non si farebbe aspettare di molto, poiché l'esistenza della Turchia in Europa è un immane anacronismo.
A. Pandian

 


SULLA MODERNA TEORIA DELLO STATO
(CICALATA PRIMA)
(pagg. 77-78)
Una volta il soffio vivificatore della civiltà ci veniva da Parigi. La famosa dichiarazione dei diritti dell'uomo, i codici di Napoleone I, la carta costituzionale di Luigi Filippo, servirono di modello alle legislazioni di mezza Europa; le note diplomatiche ed i trattati di Napoleone III costituirono il giure internazionale moderno: i suoi sibillini responsi ai ricevimenti di capo d'anno, eran pretesto al rialzo ed al ribasso in tutte le borse, termometro della fiducia pubblica. Dal classico stivale che copriva l'aristocratico piedino delle eleganti del bel mondo, al volume irto di cifre statistiche cui si ispiravano i politicanti di moda, tutto dovea aver la marca di fabbrica della Senna sotto pena della scomunica sociale.
Ora tutti gli occhi sono rivolti a Berlino. È vero a Parigi rimane ancora il monopolio della moda, perché i tedeschi, paghi della sostanza, non badan gran fatto alla forma. Su tutto il resto, il principe di Bismark coi suoi giuochi diplomatici a carte scoperte, ed il maresciallo Moltke colle sue terribili scacchiere dei campi di battaglia, intedescarono il servum pecus di tutte le nazioni. Cosicché, smarrita la traccia dell'antica via, ferve l'opera per trasformare le più riposte basi della nuova società secondo il motto d'ordine che ci viene dalle rive della Sprea.
Ciò in quanto alla superficie: perché volendo alquanto sviscerare la questione politico-sociale che agita l'epoca nostra, le si rintracceranno più profonde e più rimote cagioni.
Convien riportarsi al ciclo storico anteriore al 1789. Le grandi monarchie moderne sorsero sulle rive della feudalità; ma a questa feudalità fatta cortigiana si appoggiavano e ne faceano puntello dei troni. Oppressa dalla doppia signoria aristocratica e sacerdotale, la borghesia affinò le sue armi in silenzio; e venne il momento in cui i troni, battuti in breccia dai filosofi, si sfasciarono in faccia alla marea montante l'ira popolare. Qui convien fermarsi e meditare varie cose:
1. Gli effetti della rivoluzione francese devono restringersi alla razza latina. La razza Anglo-Sassone compì la sua guerra del trono contro l'aristocrazia, colla vittoria di quest'ultima. Conseguenza ne fu il riconoscimento e sanzione di quei preziosi diritti individuali che rendono più lento ma più sicuro lo sviluppo di tutte le pubbliche libertà; e che fanno delle caste, non semplici strati geologici di cui i superiori comprimano e soffochino gli inferiori, ma forze vive di varia tempra cospiranti all'unico scopo di progressività indefinita secondo il posto che natura ha a ciascuno assegnato. La razza teutonica poi, liberatasi colla riforma da ogni pastoia che ne legava lo slancio, trasportando nella scienza il principio del libero esame conquistato nei campi della coscienza, arrivò lentamente, ma ancor vergine, a quell'apogeo di vitalità, da cui bastò una piccola spinta per slanciarsi a conquistar l'egemonia della civiltà.
2. La rivoluzione francese esordì con un commovimento essenzialmente politico, ma si converse ben presto in una trasformazione sociale in cui le varie classi del popolo ebbero il loro quarto d'ora di reazione sul passato che si sfasciava. Al 1789 la borghesia, al 1792 il proletariato. Se frammezzo ai moti varii di questa passeggera altalena, i sacri principii che iniziarono il movimento avessero avuto tempo di radicarsi nella coscienza popolare come lo ebbero per conquistar lo spirito dei pensatori e degli statisti, il mondo si sarebbe rassettato molto tempo prima di quel che fu secondo le eterne norme della libertà. Più che l'opposizione delle due razze Teutonica ed Anglo-Sassone, e dei campioni sorpresi ma non vinti d'un troppo recente passato, valse a comprimerne il cammino un uomo solo che li soffocò, pur mostrando di dirigerli. Napoleone I fu una salvezza od una iattura per l'umanità? La risposta del Manzoni all'arduo quesito è quella che scivola per la prima dalle labbra.
Ciò premesso, e continuando nel rapido esame storico, al 1815 ci trovammo allo stesso punto in cui eravamo nel 1789, salvo una piccola cosa di più: i ricordi del recente passato che si celavano in seno a pochi come fiaccola dell'avvenire. Il Sanfedismo da una parte e le società segrete dall'altra iniziarono l'epica lotta, che per parte di queste ultime fu combattuta col rialzare il prestigio dell'individualismo onde poter abbattere il Dio-Stato e la ierocrazia politica che ne era il puntello. Con questi mezzi si conquistò nella nostra Italia la nazionalità, e tutto quel complesso di politiche istituzioni che attualmente formano il nostro pubblico diritto.
Arrivati al conseguimento del primario scopo di tutti i nostri sforzi, l'indipendenza; la questione politica non fu più per noi italiani così urgente. Venne ad imporsi, come in tutti gli altri Stati d'Europa, la questione sociale. Basate le nostre libertà sulla responsabilità individuale, non ne tirammo però tutte le conseguenze più estreme come in Inghilterra, sia perché forse la diversità di razza, di clima, di suolo, di temperamento, di tradizioni storiche ce lo vietava; sia per l'esempio della vicina Francia da cui copiammo la massima parte delle istituzioni e degli ordinamenti. Sorta però dappertutto la paura del socialismo invadente, vuoi che si conservi puro, vuoi che prenda la forma più acre e, direi, più militante dell'internazionale; si pensò che, rallentando le fila che annodano il centro alla periferia, invece della libertà necessaria al nostro razionale sviluppo, si potea correre alla licenza; e le menti di molti pensatori si rivolsero alla Germania, ove si sviluppano in pratica le teorie d'Hegel e della sua scuola intorno allo Stato.
In altro articolo entreremo direttamente nell'argomento.
Firenze, aprile 1876.
(Continua)
Giovanni Solinas Cossu

Anno II Num. 19 Sassari, 7 maggio 1876

SULLA MODERNA TEORIA DELLO STATO
(CICALATA SECONDA)
(pagg. 93-94)
I principii finora fra noi accettati quasi senza discussione intorno allo Stato, possono riassumersi nel seguente modo:
La società civile non è altro che un'agglomerazione d'uomini che la natura stessa rese simili fra loro per indole, costumi, abitudini e tradizioni, ed abitanti un territorio fisicamente delimitato e specializzato, sia dalla sua giacitura geografica e topografica, sia dal suo clima, dai suoi prodotti e da tutti quegli altri elementi su cui si basa il principio di nazionalità.
La coesione di questo corpo si mantiene, mercé l'applicazione della legge morale, alle relazioni dei soci fra loro. Così si costituisce la sovranità nazionale che concretizza ed applica ai bisogni comuni l'imperativo giuridico, il quale alla sua volta è una delle facce dell'imperativo morale. La maggioranza delle singole volontà dei soci elegge i delegati al supremo mandato di ridurre in atto questa sovranità, e di dare, dirò così, fisonomia umana ad una legge astratta della natura.
La Germania ebbe comune coll'Italia la mancanza d'un governo centrale che riunisse le sparse membra della nazione e ne formasse un solo Stato, come nel resto d'Europa. In Italia ciò avvenne per le vicende dei Comuni e per le invasioni straniere che le susseguirono. In Germania invece, perché il governo centrale, ossia l'impero, col metodo elettivo era in balia d'una potentissima feudalità. La quale, sovrana ed ereditaria negli aviti castelli, fu il semenzaio di tutte quelle innumerevoli case principesche che, salvo poche mutazioni più dinastiche che di territorio, esistono anche al presente, e che al mancante principio dello stato unico sostituirono quello della federazione. Il primato di una tal alleanza fino al 1866 fu tenuta dall'Austria, la quale, se per una parte, per tradizione storica della famiglia regnante, era succeduta all'antico Sacro Impero d'Occidente di sinistra memoria per l'Italia; dall'altra era però un'accozzaglia di nazionalità tedesche, magiare, slave e latine, cagione della sua debolezza. Già da tempo gli occhi dei filosofi e dei patriotti erano rivolti alla Prussia, potenza più omogenea e più tedesca, sorta da umili condizioni mercé il genio di Federico il grande. Le due famose guerre coll'Austria e colla Francia ricostituirono l'impero di Germania basato sopra una novella confederazione, della quale la Prussia è il centro direttivo ed un pochino anche il nucleo d'un futuro colosso allorché sarà al suo apogeo la iniziata opera d'assorbimento degli Stati minori.
Feci questa digressione per dimostrare che se la statolatria nacque in Germania prima delle elucubrazioni della scuola Hegeliana, e si traduce ora sotto il patrocinio del principe di Bismark nelle leggi dell'impero, ciò ha la sua ragione storica e politica nella posizione speciale a quella nazione, fatta dal suo movimento verso l'unità, contraddetto dai mille interessi esistenti attorno agli Stati minori in epoca non lontana destinati a scomparire.
Ciò premesso, la teoria germanica sullo Stato, in poche parole è la seguente:
La società civile, vuoi Nazione nel senso geografico della parola, vuoi agglomeramento politico, è qualche cosa di distinto dallo Stato. La prima è la riunione dei cittadini che formano un nucleo naturale allo scopo di conseguire i fini del proprio sviluppo e perfezionamento. Il secondo è quell'organismo, non meno naturale, risultante dal complesso di tutte le grandi istituzioni, le quali partitamente considerate hanno funzioni proprie ed orbita propria, e tutte unite hanno l'unico compito di sovraintendere allo sviluppo ed al progresso della società civile verso il conseguimento dei suoi fini. Cosicché, se i singoli cittadini concorrono coi loro suffragi a designare i loro rappresentanti nell'esercizio del potere legislativo, questo non essendo che un solo ramo dell'organismo, l'elezione non è che strumento, causa eccezionale, ed il potere sovrano non riconosce da essa, ma dalla stessa natura, i motivi della sua nascita e delle sue funzioni.
Niuno v'ha che neghi che questa teoria ha un'immensa forza d'assorbimento nella periferia in cui si applica, perché basandosi su quello stesso diritto divino diniegato ai re, e su quella stessa infallibilità diniegata ai papi, può proceder oltre senza ostacoli, e sostituirsi, non solo alle società minori, vuoi naturali, vuoi fattizie, ma allo stesso individuo, base e scopo d'ogni società, il quale si trova colle mani ed i piedi legati in balia di questo nuovo Briareo. Presa però in astratto, la nuova teoria potendo giustificare tutti i governi, anche irragionali; filosofi e statisti si affrettarono a tracciare i limiti entro cui deve svilupparsi lo Stato, limiti che sono tutti tolti di peso dai fini supremi della società civile, e che dovranno essere per mezzo conseguiti.
E qui cadrebbe in acconcio un parallelo storico. Due nazioni si affermarono quasi contemporaneamente per pervenire alla desiderata unità: la Germania e l'Italia. Quest'ultima fu dotata di una costituzione stereotipata alla francese. Il conte di Cavour seppe servirsene per svilupparne i principii in una legislazione basata sulla libertà e risponsabilità individuale, sebbene il suo lavoro sia rimasto incompiuto e direi quasi non continuato. Tuttavia l'Italia si riunì sotto quel vessillo, e la nostra vita politica, sebbene ancor lungi dalla stabilità inglese, è ancor più lontana dalle francesi convulsioni; col suo accentramento di governo, il principe di Bismark tende a fondere in uno i piccoli Stati che formano la gran confederazione. Conseguirà il suo scopo? Ed ancorché lo raggiunga, quale dei due sistemi darà più duraturo? La storia lo deciderà, tenendo conto del diverso campo d'azione assegnato a due dei più grandi genii che abbiano onorato il nostro secolo.
Sorvolando su tutte le infinite applicazioni del nuovo teorema nei varii rami dell'umana attività, daremo soltanto brevissimi cenni dei suoi effetti in rapporto a due questioni essenziali che più davvicino toccano l'Italia nostra: la politico-religiosa e l'economica.
Ciò in successivi articoli.
Giovanni Solinas Cossu

Anno II Num. 20 Sassari, 14 maggio 1876

SULLA MODERNA TEORIA DELLO STATO
(CICALATA TERZA)
(pagg. 107-108)
Cominciamo dalla questione politico-religiosa.
L'argomento mi porterebbe a tessere una lunghissima storia cominciando dall'origine dei culti. Per non spaventare i lettori della Stella, salto di piè pari sessanta secoli e vengo difilato all'anno di grazia 1876.
Due società coesistono contemporaneamente in uno stesso territorio, composte degli stessi individui, tendenti a due scopi che sono due facce della medesima idea, egualmente sovrane nel loro cerchio d'azione. Dissi due società in senso strettamente relativo, perché se la società civile è una sola, le società religiose sono tante quanti sono i culti che hanno proseliti in una nazione.
Le società religiose hanno però due caratteri speciali che formano la condizione essenziale della loro esistenza: l'apostolato e l'intolleranza. A differenza del vero scientifico che, sebbene assoluto, può tuttavia essere partitamente considerato dai singoli suoi cultori, per modo che si possono freddamente esaminare anche la teoria più disparata onde sceverarne la parte vera dalla falsa; il vero religioso non può essere che uno. I credenti in un culto devono accettarlo tutto, e ritenere che quelli che ne rigettano una sola parte, siano ciechi da illuminare cui la fratellanza consigli di condurre alla retta via.
Questi due caratteri, nella loro naturale e quasi selvaggia esplicazione, impediscono la coesione dei cittadini fra loro a scopo civile e quindi rendono impossibile ogni società se non teocratica; la quale per altra parte considerando una sola faccia del complesso problema umanitario, sarebbe per sé sola impari allo scopo, sacrificando al quietismo d'una civiltà chinese la lotta d'un progresso indefinito.
Il pericolo di questo stato di cose si allarga, se una di queste società, costituita in potentissima gerarchia mondiale, riconosce il proprio capo indipendente e sovrano fuori dalla cerchia dello Stato. Se la civiltà dei tempi impedisce i roghi di Giovanni Huss e di Giordano Bruno, o le stragi degli Albigesi; si hanno le non meno pericolose manifestazioni del Sillabo e di quelle altre velleità di dominio mondiale che tutta Europa in vario senso, ma con unico scopo, combatte a tutta oltranza.
Il rimedio a tanta jattura, se non lo si riscontra affatto applicando la teoria Germanica dello Stato organismo, la quale conduce per logica necessità alle leggi di Maggio ed a tutte quelle repressioni che feriscono il sentimento individuale e toccano le basi della società; è facile invece trovarlo nello stato che funzioni secondo i concetti esposti nel precedente articolo.
Preso difatti per punto di partenza che lo Stato, o meglio il potere sociale, sia costituito dalla sovranità della legge giuridica applicata a regolare le azioni esterne dei socii in relazione fra loro; da queste semplicissime idee si deducono le tre seguenti conseguenze fondamentali:
1. In materia d'organamento interno delle varie società religiose, lo Stato non è né credente, né ateo; è incompetente.
2. Le società religiose sono tutte eguali in faccia allo Stato, ed hanno tutte pienissima libertà di esplicamento in relazione al loro scopo e dai mezzi per conseguirlo.
3. Lo Stato è competente a regolare le azioni giuridiche dei socii fra loro, e dei socii e della società coi dissidenti.
Ciascuno vede che, nella ipotesi da noi propugnata, il nodo della questione sta nel giudicare se un atto isolato od un complesso di atti d'una società religiosa sia o non sia giuridico; trascenda cioè da quella cerchia d'ordine interno, oltre la quale vi è la violazione del diritto dei terzi, siano queste persone fisiche o morali. Questione delicatissima che praticamente può avere le sue difficoltà, ma che concretata in una serie di leggi basate sulla più larga interpretazione della libertà individuale, possono risolvere ogni controversia. Qualcuno dirà che con questo sistema si distruggono i due caratteri delle società religiose: l'apostolato e l'intolleranza. Io invece credo il contrario, perché il primo si può esercitare nel libero esercizio della parola e della discussione, e la seconda se si riduce a quelle spirituali sanzioni, che sono vera pena a chi fermamente ci crede e nel campo giuridico non violano il diritto d'alcuno, diventa più forte, più nobile e con minor pericolo sociale conseguisce il suo scopo. Altri poi dirà che si abdica a' diritti dello Stato. Io nego anche questo, perché la loro integrità è salva coll'intervento riserbatogli nei casi di collisione.
Allorché però si ritiene che lo Stato sia un ente ideale non solo distinto dalla nazione ma a lei sovrapposta per sovraintendere al suo regolare sviluppo, assetto e progresso; niun dubbio che egli abbia il diritto di sindacare l'organamento interno delle varie società religiose, ed in base a questo diritto compilare quell'anomale legislazione oramai famosa sotto il titolo di Leggi di maggio, le quali hanno tanta attrattiva nella nostra Italia da costituire il sogno dorato di molti fra i nostri più chiari pubblicisti.
Qui giova notare che stante la nostra secolare indifferenza alle speculazioni ascetiche acutamente notata dal Machiavelli, questo problema in Italia ha fisonomia esclusivamente politica, mentre in Germania vi prepondera il carattere religioso. Né potea essere altrimenti. Colà il culto evangelico, che è il dominante, riconosce per suo capo il capo stesso dello Stato. La legislazione tutta risente quindi di questa intima unione, perché in Germania manca lo spirito pratico inglese e le secolari abitudini di libertà in quell'isola radicate. Non si potrebbe quindi fare un coscienzioso paragone fra gli ordinamenti tedeschi ed i nostri, i quali formano forse l'unica parte schiettamente paesana del nostro diritto pubblico, ed una delle più belle glorie della nostra epica rivoluzione.
A completamento di questo rapido esame giova in ultimo avvertire che in Italia, oltre la questione preaccennata, che è puramente nazionale perché ha il suo soggetto ed il suo obbietto entro il perimetro territoriale dello Stato, abbiamo anche la questione internazionale costituita dalle relazioni del capo del cattolicesimo fra noi residente coi duecento milioni di cattolici sparsi in ogni angolo della terra. La legge delle guarentigie passata oramai nel dominio diplomatico mercé il tacito consenso di tutto il mondo civile, e la coesistenza di questo potere internazionale col potere civile entro la cerchia della città di Roma, dimostrano chiaramente, checché si dica, che questa questione è felicemente risolta.
Giovanni Solinas Cossu

 

 

CRONACA POLITICA
VITTORIE DEL LIBERALISMO
(pagg. 108-109)

Ci fu un momento ben triste, in cui la fede nel progresso in molti parve vacillare mentre imbaldanzivano più che mai le potenze delle tenebre.
La Francia dopo i disastri del 70-71 affatto disorientata, dimenticando le sue gloriose tradizioni e le dottrine de' suoi migliori intelletti, porgeva docile orecchio a quegli epilettici fuorviati che si chiamano Du Temple, Dupanloup, Belcastel. Pareva quasi che fossero passati invano ottant'anni di costosissimi esperimenti, e che quel grande ed infelice popolo dovesse ripiombare ai tempi in cui la Pompadour o l'immondo abate Dubois ne giocavano le sorti.
Altro esempio di desolante regresso era esibito dalla Spagna. Passata anche essa nel breve giro di sei anni traverso le prove del sistema costituzionale con tutte le sue varianti, e del sistema repubblicano fino ad assaggiare le delizie della Comune, si temeva dovesse piegare il collo al carlismo, che lungi dall'essere la nobile monarchia costituzionale di Amedeo di Savoia, e né tampoco il despotismo illuminato di Zea Bermudes, significava il regno del privilegio e dell'inquisizione.
Un colpo di mano dei fautori del figlio di Isabella atterra la repubblica dittatoriale, e l'esercito solleva sugli scudi questo ragazzo in cui alcuni ravvisavano una specie di Eliogabalo, altri un fantoccio dietro al quale si nascondeva la restaurazione pura e semplice del Governo di Marfori e di Suor Patrocinio. Passano i giorni lenti e plumbei fra sgomenti e dubbi d'ogni maniera. L'esercito ripiglia lena: nelle provincie del nord s'alternano le vittorie e le sconfitte; alla fine i carlisti sono vinti e dispersi, e il Pretendente è costretto divorare un'altra volta nell'esilio il sogno di un trono. Ma la Spagna è sempre in mano di un Borbone, esso pure in mano di un branco di avidi ambiziosi. E la Curia vaticana esulta, si drappeggia in frasi che suonano vittoria, e per poco non rammenta al nuovo re, e ai suoi consiglieri la bolla In cæna Domini. Il nunzio va a Madrid, e intima che per lo meno riprenda vigore il concordato del 1851, il quale nel suo concetto vero è la negazione della libertà di coscienza, e perciò che la religione cattolica sia proclamata nella Costituzione come religione nazionale, che le sia riconosciuto il dritto delle manifestazioni esterne: la tolleranza sarebbe ammessa, non per gli altri culti ma per le credenze personali, le cui manifestazioni esterne fossero interdette.
Non c'è male. E Ferdinando Alvarez poté mostrarsi devoto alla più irreprensibile ortodossia quando a nome della minoranza ultramontana delle Cortes rispondendo a Romero Ortiz, disse che i suoi avrebbero chiuso le 39 chiese protestanti. Ma la gazzarra non doveva durare più a lungo.
Il progresso, ha detto un giorno in suo linguaggio pittoresco Vittorio Hugo, è come la locomotiva, che se talvolta è costretta passare un tunnel e nascondersi alla vista degli uomini, non ha per questo men fulmineo il corso, e non tarderà molto ad uscire alla luce e colpire di raddoppiata meraviglia l'occhio dei riguardanti.
Ed ecco che le cose mutano d'aspetto anche in Francia. L'assemblea che per ischerno fu chiamata dei rurali, chiaritasi alla fine impropriamente così al bene, come a fare tutto il male che vagheggiava è costretta sciogliersi. Allora la nazione mise un potente anelito di vita come fosse stata liberata dall'incubo. Chiamata un'altra volta ad eleggere i suoi rappresentanti sorge con occhio penetrante e sereno, espressione di animo calmo e mente assestata. Abbandona tutti coloro che volevano ricomporre i ruderi del passato, per affidarsi agli uomini del presente e dell'avvenire. D'un tratto la Francia è di nuovo in piedi compagna ai popoli liberi, non più stella o gendarme della reazione.
Il passo fu davvero gigantesco, perché mentre un tre o quattro anni sono si discuteva sul serio nell'assemblea e nella stampa di rialzare il trono temporale del pontefice, rinnovando le gesta gloriose del 49, ora si è sul punto di sopprimere l'ambasciata presso il Vaticano.
La Spagna non ha tanto elaterio, ma alla fine ha pur mostrato che Ferdinando il cattolico e Torquemada non possono più alzare il capo dal loro avello. Le Cortes hanno detto la loro parola sulla quistione. L'art. 11 della Costituzione che consente il libero esercizio di tutti i culti in opposizione al concordato del 51, e alle superbe intime del Vaticano fu accettato a maggioranza grandissima.
Con ciò non si è mica raggiunta quella meta che la ragione, l'opportunità politica, gl'impulsi della civiltà additano. Non è però poco, giacché se nelle attuali condizioni della Spagna si poté giungere a proclamare solennemente la libertà di coscienza e di culto, vuol dire che anche nel paese più schiavo dei pregiudizi e delle tradizioni cattolico-legittimiste, non si torna più in dietro e lo spirito liberale invade trasformando ogni cosa.
E noi intanto dinnanzi allo spettacolo di questi trionfi della civiltà sopra le barbarie, della luce sopra la tenebra non cesseremo coll'animo in letizia di rammentare che l'Excelsior del Vate americano, e l'Immer zu dell'autore del Guglielmo Meister non sono impotenza mascherata di vanità, ma dovere di nostra natura e precetto di Dio.
A. Pandian

Anno II Num. 21 Sassari 21 maggio 1876

CRONACA POLITICA
La parola del Presidente Grant.
(pagg. 124-125)
Il giorno 10 del mese corrente a Filadelfia, oltre l'Atlantico, sulla terra di Washington e di Lincoln si è inaugurata l'Esposizione universale con un discorso del Presidente Grant. Questi volle porre in evidenza il concetto, e tutto quanto l'immenso valore di un avvenimento pel quale si trovano riuniti sul suolo della libera America, nella nobile gara delle arti della pace, i rappresentati di ogni popolo della terra. Non bisogna dimenticare che l'apertura dell'Esposizione coincide appunto col centenario della nascita della grande Repubblica, della quale è appunto la glorificazione.
Disse Grant davanti a una moltitudine di 50 mila spettatori, e salutato dai concenti degli inni di tutte le nazioni: "L'America invitò le nazioni straniere per dare una testimonianza del suo ardente desiderio di coltivare la loro amicizia".
Ecco una parola che risuonerà per tutti gli angoli della terra, come una santa promessa e l'augurio non fallace di un avvenire di fraternità e di pace universale. Ma questa parola ci rammenta quelle che lo stesso Grant ebbe a pronunciare in un suo Messaggio: "È necessario, egli disse, che l'America faccia conoscere il grado di forza e di progresso che può raggiungere in pochi anni una nazione, nella quale ogni cittadino lavora senza posa per la libertà, la fortuna, l'onore".
È questo il vero segreto della potenza, della grandezza, e della gloria delle nazioni. Noi cotanto smaniosi di segnare con un lampo dell'antica gloria italica la nuova epoca oramai cominciata, dobbiamo incessantemente ricordarlo. Meminisse juvat.
Gli Stati Uniti, verbi gratia, si trovarono in men d'un secolo decuplicata la popolazione, triplicato il territorio, decuplicata la potenza produttiva, e senza esercito; e nonché dichiarare che non tollereranno che alcuna potenza si mescoli negli affari americani, talora accennano voler intervenire nelle vicende d'Europa. E tutto questo fu tutt'altro che distrutto dalla spaventevole guerra di secessione, dove tutta la potenza e il genio della civiltà furono adoperati alla reciproca distruzione. Quanta potenza! Vi si provarono le armi corazzate (Merrimac, Monitor), gli arieti marini che queste foravano, e le torpedini che le facevano saltare in aria: i soli federali armarono 437 vascelli di 840086 tonnellate con 8026 cannoni; sparsero 2250 milioni di dollari e innumerevoli vite, e alfine gli Stati del Sud furono vinti e eggregati.
Ciò per altro non è sicura guarentigia per l'esistenza e il crescente splendore della Repubblica. Sotto la brillante superficie gemono piaghe profonde. Tarli roditori e fatali sembrano andar distruggendo il meraviglioso colosso.
All'aurora del risorgimento le 13 colonie scuotevano il mondo sopito con quella famosa dichiarazione dei diritti, in cui era detto fra le altre cose: "Che eguali creati furono gli uomini tutti; che loro fe' dono il creatore di certi inalienabili diritti; che è primo fra questi vita, libertà e desio di felicità; che a guarentirne il godimento creò l'uomo i Governi, la cui giusta autorità dal consenso emana dei governati; che ogni volta che una forma di Governo divien distruggitrice di questi fini, il popolo ha il diritto di commutarla e di abolirla, o di istituire un nuovo governo su tali principii fondato che meglio a lui paja procurare la sua sicurezza e felicità...
Noi rappresentanti degli Stati Uniti d'America, in general Congresso riuniti, invocando il supremo giudice dell'Universo, che vede le rette nostri intenzioni, pubblichiamo e solennemente dichiariamo, in nome e per autorità del buon popolo, di queste colonie, che esse sono ed hanno il diritto di essere Stati Liberi e Indipendenti, che svincolate sono da ogni soggezione verso la corona britannica, e impegniamo unanimi, in sostegno di questa dichiarazione, le nostre vite e sostanze, e ciò che ci è più sacro di tutto, l'onor nostro".
Non sembra inutile questa citazione, giacché serve a concatenare il presente col passato e coll'avvenire. Non bisogna illudersi, o perdere di vista i principii, base di ogni organamento sociale, per badare soltanto agli esperimenti o ai fenomeni del materialismo. Machiavelli disse che per rigenerare le istituzioni bisogna tirarle verso i loro principii. La sentenza è vera in gran parte, sebbene contraddetta, ma forse sotto un diverso punto di vista, da Giuseppe Mazzini. Ora a noi mette non lieve scoraggiamento il pensare alla differenza profonda che passa fra i costumi semplici, puritani, dei giorni di Washington e di Franklin a quelli del tempo presente, cioè degli amministratori del comune di New York, e del ministro Belknap.
Un egregio pubblicista in un suo recente scritto parlando degli Stati Uniti scrive: "La corruzione, la violenza, il furto, non presero mai sì vaste proporzioni in nessuna amministrazione pubblica di altri paesi. Operai faziosi, commercianti falliti e malfattori evasi dalle prigioni in Europa, si trovano nelle legislature di parecchi Stati. Si fa mercato dell'onore, e si vende il voto al maggiore offerente. Alle maggioranze tiranniche e brutali, alle assemblee legislative, scese tanto basso, resistono ancora il Senato, non eletto dal suffragio universale, e il potere giudiziario, che temperano le violenze e rendono meno infrequenti le ingiustizie". E mentre Tocqueville, la cui autorità si vorrebbe ora contestare, e Chevalier e Laboulaye mostrano aver fede almeno nella sapienza, e virtù del Senato, v'ha chi, come Macaulay, seconda il tristo vaticinio che la libera e possente Repubblica d'oltre Atlantico non sarà fra breve dissimile dal Messico e dalle altre repubbliche spagnuole del nuovo mondo.
Forse non bene conosciamo quella società tanto differente dalla nostra, e molti anche di quelli che pretendono veder più addentro degli altri pigliano de' grossi granchi. Ma fatto è che le condizioni morali degli anglo-americani, qualunque ne sieno le cause, hanno troppa somiglianza con quella della Repubblica romana ai tempi in cui Cicerone fulminava dai rostri colli Verrine.
Comunque sia, per tornare donde pigliammo le mosse, noi salutiamo con trasporto di gioia e di gratitudine le parole del Presidente Grant; esse almeno ci fanno balenare un lampo di quei giorni pieni di orgogliose e così giustificate speranze, quando, al dire di Labindo, il ricco quanto modesto piantatore di Montvernon, proteggeva dai materni sdegni l'Americana libertà nascente.
A. Pandian

Anno II Num. 23 Sassari, 4 giugno 1876

CRONACA POLITICA
AL BOSFORO
(pagg. 154-155)
La cronaca politica, se non vuole mentire al proprio nome, deve oggi occuparsi di quello che avviene in Oriente. Colà si svolgono fatti tali da attrarre l'attenzione, colpire l'immaginazione dell'universale e creare i maggiori pericoli alla pace d'Europa.
Non vogliamo ridire cose che ognuno sa, e delle quali noi stessi abbiamo scritto amplamente in queste colonne. Accenniamo soltanto al fatto che la inattesa detronizzazione del Sultano ha cresciuto il subbuglio dei gabinetti e riaccese in parte le speranze di veder la Turchia rigenerata col flogistico delle istituzioni moderne. Il partito, che con un colpo di mano si è impadronito della somma delle cose è quello così detto dei softas e degli ulemi, che vorrebbero tenere in piedi l'impero degli Osmanli, a costo di conciliare Cristo con Maometto, il Vangelo col Corano, la famiglia colla poligamia, la libertà col fatalismo. Ma è egli ciò possibile!
La risposta a tale quesito ci sembra facile, e si trova in taluno dei precedenti nostri articoli.
I programmi sono cose belle e buone e si possono comporre e lanciare colla maggiore agevolezza del mondo, ma sono bolle di sapone, folium quod vento rapitur, ove non abbiano per base i bisogni, i sentimenti, le idee del popolo.
Ben si può inarcare le ciglia dello stupore quando udiamo un Sultano ‒ anche a questo l'età nostra era serbata! ‒ proclamarsi imperatore per la grazia di Dio e la volontà della nazione, ma che perciò? Sono mutate le condizioni della società ottomana e conciliabili al dominio di Stambul le stirpi cristiane? Anche Selim III tentò alcune riforme civili, ma i giannizzeri sdegnati insorsero e l'uccisero, e mandarono tutto a incendi e stragi. I giannizzeri furono massacrati da Mahmud come i Mamelucchi da Mehemet Alì, ma il fondo delle cose rimase sempre lo stesso.
La verità è che il mondo orientale deve subire la sua trasformazione, e che l'ultim'ora pel regno del Bosforo è suonata.
Che cosa sorgerà dalle sue rovine? Ecco il sopracapo universale. Mentre scriviamo un telegramma ci fa sapere che un'alleanza offensiva e difensiva è stretta fra la Rumenia, la Grecia, la Serbia e il Montenegro. Se ciò fosse, e avrebbe dovuto essere da un pezzo, sarebbe da gioirne. Il retaggio degli ottomani è probabile che cadrebbe nelle mani dei legittimi successori.
Ma l'incertezza regna sovrana in questo momento, e la situazione è avvolta nel buio più fitto. Si teme sempre della Russia, la quale, al dire di uno scrittore, ha il suo obbiettivo stabilito, il predominio in terra, come l'Inghilterra intende a sovraneggiare le acque, e l'Austria-Ungheria è destinata a comporre la federazione dei popoli danubiani, e la Germania ad attrarre tutti i popoli sul cui labbro suona il linguaggio di Schiller.
Costantinopoli! Ecco il punto culminante, come comprese benissimo con quel suo intuito sicuro e profondo Napoleone I, dell'Europa politica e commerciale.
Assisa sulle rive del Bosforo, questa città è il centro delle tre divisioni dell'antico mondo. Ella vede stendersi a' suoi piedi il più bel porto e le più belle spiaggie della terra. Pel Mediterraneo, Costantinopoli comunica direttamente colle piagge dell'Asia Minore, dell'Africa settentrionale e col magnifico svolgimento del litorale meriggiano d'Europa; pel mar Nero, il mar d'Azof e i loro affluenti, Danubio, Dniester, Bug, Dnieper, Don, ecc. penetra nel cuore di Europa; le grandi comunicazioni stabilite fra il mar Nero, il Caspio e il lago d'Aral le collegano il corso del Volga e de' suoi affluenti, vale a dire la grande frontiera dell'Europa orientale, e le schiudono l'occidente dell'Asia. D'altra parte il Tigri e l'Eufrate scaturendo poco lontano dal mar Nero la congiungono al golfo Persico, come l'aperto istmo di Suez la congiunge al mar Rosso.
Per tal modo l'antica città del vincitore di Massenzio tiene un piede in Europa e un altro in Asia, si solleva al centro di quel mare istesso che occupa, nel bel mezzo delle grandi terre e penetra, mercé i grandi fiumi, nell'interno delle tre parti del mondo antico.
Questa è la preda che più di un potentato guarda con occhio cupido, e bisogna confessare che è bella e vale la pena che ci si pensi. La sede dell'imperio universale è forse a Costantinopoli, la Russia almeno non ne dubita e tutti lo pensano. Si può dire che la politca dei grandi gabinetti s'aggira tutta intorno a questa questione.
A. Pandian

Anno II Num. 24 Sassari, 11 giugno 1876

CRONACA POLITICA
LEGNANO
(pagg. 170-171)
L'han giurato, gli ho visti in Pontida
Convenuti dal monte, dal piano:
L'han giurato, e si strinser la mano
Cittadini di venti città.
Verremmo meno ad un dovere se non tenessimo parola della commemorazione della battaglia di Legnano, celebrata il 29 maggio con tanta pompa ed effusione di patriottismo da tutta l'Italia.
Orbene, diciamo adunque che settecento anni or sono i padri nostri, stanchi di diuturna oppressione, scarsi di numero, ma forti di concordia e di fede ottennero una di quelle vittorie che danno il nome ad un'epoca, fissano per lunghi anni il destino di una nazione, affrettano di secoli il passo della civiltà.
Chi non conosce fin da fanciullo i solenni episodi del giuro di Pontida, della difesa del carroccio, dell'eroismo di Alberto da Giussano, del manipolo devoto alla morte, dello smarrimento e della fuga errabonda del Barbarossa?
Quindi non ripeteremo cose note a tutti, benché gioverebbe a formare il cuore delle nuove generazioni il ripetuto racconto delle gesta gloriose degli avi.
La commemorazione della battaglia di Legnano è stata inspirata da un concetto giustissimo, da fervido e santo amor di patria.
Ben ci fu non ha guari qualche scrittore italiano che sorse a impugnare l'importanza di quel fatto, perché, dice egli, la Lega lombarda si strinse sotto gli auspici di un Papa da cui fu poi abbandonata, perché non portò seco la indipendenza e la libertà della patria quale oggi le intendiamo, e finalmente perché le forze materiali dei vincitori soverchiavano di gran lunga quelle dei vinti.
Ma queste asserzioni furono confutate a dovere da altri scrittori, e più che mai dal sentimento nazionale, poiché non vi fu quasi città d'Italia che non concorresse a render più solenne la festa commemorativa di Legnano.
Tutti i partiti tributarono omaggio alla memoria dei prodi che vincendo su quelle pianure rassodarono la libertà dei nostri Comuni preludendo alla distanza di sette secoli al recente risorgimento e all'attuale grandezza della Patria. Non mancarono nemmeno le bandiere abbrunate di Nizza, Trento e Trieste, le tre sorelle ancora escluse dal seno della Madre comune.
Dicemmo tutti i partiti, comprendendo il clericale, ché anch'esso festeggiò l'avvenimento per glorificare la Chiesa ed il Papa. Ciò fe' arricciare il naso a molti patriotti che non vogliono aver nulla di comune coi nemici della Patria.
Ma noi diremo con Giuseppe Ferrari: che la Chiesa onori pure i combattenti di Legnano, che fedele ai riti del XII secolo ne rinnovi pure la festa annua secondo il consiglio di San Carlo, che le dodici città lombarde mandino le dodici statue dei loro santi patroni alla Chiesa maggiore di Alessandria, il 29 maggio si giudica guardando allo svolgimento storico ulteriore, ad un lavoro di sette secoli e alla libertà del risorgimento, della riforma, della rivoluzione, e rivolgendosi indistintamente a tutti i cittadini del mondo senza distinzione di setta e di religione.
Il centenario porse argomento in questi giorni a parecchie pubblicazioni, fra le quali primeggia naturalmente una del sommo, ma non sempre spassionato re della storia, Cesare Cantù. Ora questi dopo aver narrato della Lega lombarda e toccato del centenario chiede a sé stesso che cosa festeggieranno gli italiani da qui a cent'anni, e non sa trovare la risposta. Ma la risposta sta nel cuore degli italiani, i quali sono convintissimi che il 29 maggio 1976 celebreranno l'epopea del risorgimento nazionale, e il coronamento della unità patria in Campidoglio.
Senza che, per citare un'altra volta l'illustre filosofo lombardo, allora la nostra festa sarà meglio concordata con quelle di ogni nazione. Allora saranno numerati gli anni colle idee e colle invenzioni, allora le comunicazioni centuplicate daranno luogo ai miracoli della scienza e dell'industria e gli eroi della ragione assegneranno il loro posto a quei della patria e della religione, e gli attuali anatemi inspireranno quella compassione che sentiamo per le nimicizie di Fiesole e di Firenze, di Pisa e di Lucca, ed intravediamo una luce più lontana sotto i cui raggi i giorni stessi delle nostre più solenni vittorie non saranno che giorni di lutto dedicati a piangere sulle necessità della guerra.
A. Pandian

Anno II Num. 26 Sassari, 25 giugno 1876

CRONACA POLITICA
Le riforme ‒ Il giuramento
(pagg. 200-201)
Dal 18 marzo ad oggi sono trascorsi poco più di tre mesi, breve periodo davvero, ma in esso quante discussioni, quante ipotesi lanciate all'aria, quante promesse iridescenti!
Sembrò il periodo delle riforme politiche, amministrative, economiche, morali. Per poco non ci parvero resuscitati i celebri e romorosi giorni del biennio passato dall'assunzione di Pio IX al Pontificato, alla guerra d'Indipendenza combattuta gloriosamente ma infelicemente in Lombardia.
Anche nel 1830 fu era di grandi riforme, ma effettuabili ed effettuate, e in Inghilterra, ove si emanciparono i cattolici, si allargò notevolmente il diritto elettorale e si proclamò libero il commercio de' grani.
Ma che cosa ci avevamo a far noi con tutto questo?
Ecco qui. Il 18 marzo dell'anno 1876 segna una data memorabile, perché in quel dì cadde il Ministero dei moderati, e con esso il sistema di governare durato 15 anni, e si innalzò la Sinistra fino ai gradini del Governo.
Questa, naturalmente, afferrata la cuccagna del Potere, aveva molto da innovare: se non era proprio la baconiana instauratio ab imis fundamentis, era però qualche cosa di riparatore e di solenne.
Errori da correggere, abusi da togliere, svecchiare le istituzioni, infondendo in tutto l'ambiente della vita civile e politica italiana uno spirito fecondatore di fede, potenza e gloria.
A dire il vero non erano i ministri nuovi che ci facessero scintillare così fatto caleidoscopio di promesse; essi, uomini di Stato provetti,o almeno conoscenti del quantum distent aera lupinis non si spingevano tanto innanzi. Ma erano i loro adepti, la turba dei discepoli, le trombe della loro fama, che credevano interpretare e magnificare le conseguenze dell'avvenimento della Sinistra al potere.
Il paese però, ossia il gran numero di coloro che amano lasciarsi abbagliare, ne rimase non diremo disilluso, ma un po' sconfortato. Gli è quasi accaduto come a chi passa nell'ombra dopo aver avvezza la pupilla all'abbondante fulgore del sole.
Né poteva esser altrimenti. "Che giova nelle fata dar di cozzo"? L'idea spesso non regge al cimento della pratica; sommovere abitudini, offendere principî, ferire interessi molteplici non è possibile d'un tratto; Roma non fu fabbricata in un giorno. Aggiungiamo, per essere giusti, che la Sinistra è da troppo breve tempo al potere, che non ebbe agio sufficiente di estendere la sua azione: poté appena creare un'odissea, meno avventurosa di quella dell'Itacense, ma pur piena di chissà quanti affannosi episodi, di prefetti, magistrati e Travetti alti e bassi; poté nominare una miriade di commissioni, alle quali è soltanto da augurare maggior operosità di quella che spiegò l'altra venuta a studiare le condizioni della Sardegna, presieduta dall'onorevole Depretis, di cui si attende ancora una elaborata relazione.
Uno dei punti più luminosi del programma ministeriale era la riforma della legge lettorale. Parve per molti giorni che il progetto dallo studio della Commissione dovesse, ancora prima delle ferie estive, passare al vaglio della discussione pubblica in parlamento. Ma si dovette rinunziare anche a questa speranza.
Qui sarebbe il caso di studiare il quesito se il paese sente davvero il bisogno di una tale riforma, e se nel caso che lo senta quale forma e misura di suffragio convenga adottare. Ma il tempo sfugge a noi come al ministero, e dobbiamo differire ad altro numero questo lavoro. Quod differtur non aufertur, già si sa.
E il giuramento? Ecco qui una reale vittoria della Sinistra, diciamo Sinistra perché il progetto di modificare i codici di procedura riguardanti la formula del giurare, come era prima stabilita, offendeva davvero la libertà di coscienza e l'uguaglianza, e ne nascevano gravissimi inconvenienti, mentre i vantaggi erano pochi o illusori.
Questi due santi principî sono la gloria del nostro tempo, il conquisto più faticoso delle generazioni che ci precedettero, la base delle nostre istituzioni. Dopo la breccia di Porta Pia, e la proclamata separazione della religione dalla politica, della Chiesa dallo stato, non si poteva certo imporre a chicchessia di giurare in nome di una credenza che non ha, di un Dio che non riconosce. A nessuno è lecito imporre una fede religiosa né strappare altrui i segreti della coscienza.
La Camera dei Deputati comprese l'altezza di questi principî e votò la proposta Macchi, che spoglia il giuramento dei testimoni da ogni vestigio di religione, com'è appunto quello per esempio, che è domandato ai presidenti delle due Camere e ai giurati.
Ma la nuova formula escludeva il nome di Dio, in cui si racchiude quanto ha di più nobile il sentimento, di più energico la volontà, di più eccelso l'intelligenza, e in cui, come ben disse l'on. Mauri, sta il concetto fondamentale dell'ordine morale, onde ha vita la società che stabilisce ed assicura i diritti e gl'interessi di tutti. Quindi viva opposizione in Senato, ove ruppero valide e nobili lancie un Lampertico, un Torelli, un Errante. Ma la dottrina luminosa e multiforme, e la parola eloquente di Mancini, abilmente echeggiata da uomini come Canizzaro, Borsani, Cadorna, espugnò la resistenza dell'ufficio centrale, e in sostanza trionfò anche in Senato la dottrina più liberale e più giusta, accolta prima dalla Camera dei Deputati.
Salutiamo con gioia questo novello trionfo dei principii di civiltà, accomiatandoci con ciò dal benigno e paziente lettore.
A. Pandian

Anno II Num. 28 Sassari, 9 luglio 1876

CRONACA POLITICA
LA GUERRA
(pagg. 234-235)
Dunque ancora si snudan le spade,
Squilla a festa la tromba di guerra
Per ritorvi le belle contrade,
O progenie...
Questa settimana andrà segnalata nella storia per avere la Serbia e il Montenegro sguainata un'altra volta la spada contro il Turco. Il grido di guerra risuona sulle rive della Drina, della Morava, del Danubio, e risveglia tutti gli echi del Balkan. Il sangue scorre a rivi, e i bollettini telegrafici si affrettano a raccontare
... Le migliaia de' morti
E la pieta dell'arse città.
La diplomazia, bisogna riconoscerlo, ha fatto ogni sforzo per impedire la guerra, e strappare in pari tempo alla signoria ottomana delle concessioni che avrebbero alleggerita la soma dei guai onde sono oppressi bosniaci ed erzegovinesi. Ma sembra che il fatale "troppo tardi" sia stato segnato nella clessidra della Provvidenza, anche per ciò che riguarda il dominio ottomano.
Questo nel tremendo cimento sembra acquistare inatteso vigore. Si adunano armi ed armati; si ridesta l'antico fanatismo musulmano bandendo una specie di crociata contro i giaurri. Fra poco, se occorre, si esporrà anche la veste del Profeta, come fu fatto nei fieri giorni della rivoluzione greca.
Ma i giorni di Maometto II, di Solimano, di Amurat, sono tramontati per sempre. La vita che ora si manifesta nel crollante impero non è che guizzo galvanico. Quello che uscirà dalla nuova guerra non è dato prevedere. Ben abbiamo detto altra volta che se le potenze non si immischiano nel conflitto, e lasciano di fronte oppressi ed oppressori, i primi la vinceranno. Non abbiamo mutato parere; ad un patto però, che la concordia e la costanza regni fino all'estremo nel campo cristiano.
Il principe Milano partendo per la guerra santa, pieno di serena e marziale fiducia proclamò che a fianco dei serbi avrebbero combattuto montenegrini, bosniaci, erzegovinesi, bulgari e greci. Ma fino ad ora non sentiamo che la Grecia sia scesa in campo, o sia sul punto di trarre la spada. La popolazione sente la solennità di questo momento, e vorrebbe rompere gli indugi, ma il suo re è lontano; viaggia la Francia e l'Inghilterra.
Le potenze hanno proclamato di astenersi assolutamente dal prender parte per alcuno dei contendenti, di rimanere spettatori impassibili della gran lotta. Tentano anzi, come suol dirsi, di localizzarla. Ma è dubbio se questa astensione possa durare usque ad finem. Quel certo sgomento da cui sembrano agitati i gabinetti, e che li fa radunare con ansia febbrile i più formidabili mezzi di difesa non è cosa di buon augurio.
Già si vocifera,e non senza ragione, che il proclamato non intervento patisca delle eccezioni per qualche potenza. Si dice che l'Inghilterra, fedele alla sua vecchia politica, aiuti sottomano la Turchia fornendo i suoi pascià di armi, pane e sterline. La Russia invece manderebbe soccorsi d'ogni maniera agli insorti. Già uffiziali russi guidano questi alla battaglia e buone migliaia di rubli si mescono alle monete slave.
Ma non precorriamo gli eventi, i quali si vanno maturando con fulminea rapidità sempre avvolti nel buio. Solo notiamo che questo nuovo grido di guerra, questa nuova sfida, lanciata da popoli gementi sotto un'oppressione cinque volte secolare, ha scosso tutti gli animi e rallegrato ogni anima nobile e generosa. D'ogni parte provengono soccorsi ai prodi che muoiono per la patria, la gioventù vorrebbe accorrere a frotte per combattere sotto i risollevati vessilli della croce contro la mezzaluna. I più caldi voti si fanno perché la giustizia e la civiltà trionfi contro la barbarie, la vita contro la morte!
La morte! E benché composto da un cinquanta anni suona ancora all'orecchio il mestissimo treno di Ognestan Ostrozinski, l'Eco del Balkan.
"O lagrime dei cristiani della Bulgaria, della Erzegovina e della Bosnia.
L'aurora sfavilla pel mondo intero: solo il Balkan non ha giorno. In un pelago di amare lagrime arde, arde la profonda piaga della schiavitù. Schiavitù vile, schiavitù disastrosa quando arriverai tu al termine? Quando leverassi il sole sacro e fortunato che dee rischiarar questa fitta notte?
Nelle regioni più remote già splende il sole della libertà e della verità. Fino i popoli selvaggi protegge l'aureo scudo dei diritti sacri.
Sole le foreste del Balkan risuonano di grida di dolore. Ivi la libertà non ha tempio, ivi risuonano le catene della schiavitù portate da cristiani. Udite, o popoli figli della gloria, nati da una madre d'eroi; il cuor vostro non è un muro, non fia che goda alle sventure dei fratelli! Destatevi o popoli dal sonno, udite i pianti di Mostar.
Alessandro, domator della Persia, Castrivotto le cui gesta vanta il Turco, e voi Craglievic occhio di Prizerna, voi stelle de' tempi migliori, cui nessuna nube appanna, scuotetevi nelle vostre tombe! Vedete! Quest'è la vostra patria gravata di catene"!...
A. Pandian

Anno II Num. 30 Sassari, 23 luglio 1876

CURIOSITÀ E RICERCHE STORICHE DI STORIA SUBALPINA
Pubblicate da una società di studiosi di patrie memorie
Roma, Torino, Firenze
FRATELLI BOCCA 1874
(da pag. 260 a pag. 262)
(Continuazione)
Sotto il titolo di Note autobiografiche di un veterano dell'esercito piemontese troviamo nella prima puntata altra scrittura non meno interessante per noi, avvegnacché ci riveli alcuni notevoli episodî della vita di un illustre patrizio isolano, del quale se già si conosceva la politica avvedutezza ed il militare valore, poco si sapea della sua letteraria coltura e della sua abilità nello scrivere. Gli uomini che hanno dovuto operar molto, o da sé o colla cooperazione di altri, ch'ebbero occasione di trattare rilevanti negozî, e che per l'altezza degli uffici tenuti hanno dovuto portare il peso di straordinarie responsabilità quando l'ingegno naturale non faccia difetto, anche senza studi speciali, e senza lenocinj retorici, giungono spesso ad essere pregevoli osservatori, scrittori efficaci, narratori pronti e meravigliosi. Abbiamo di ciò splendidissimi esempi fra gli antichi, ne troviamo non pochi nell'età di mezzo, sovrabbondano nei tempi moderni, cui possiamo aggiungere anche quest'altro, fatto abbastanza illustre da recenti rivelazioni che si connettono con quelle che chiameremo le prime speranze del grande rivolgimento che ci ha condotti all'unità nazionale. Il marchese Emanuele Pes di Villamarina, uscito, com'è noto, da nobile famiglia tempiese, dopo aver percorso una brillante carriera militare, divenne l'amico e confidente del re Carlo Alberto, che nominatolo ministro della guerra, e degli affari di Sardegna, puossi considerare come il vero depositario della volontà sovrana lungo tutto il tempo del suo governo assoluto. Cresciuto in tempi procellosi, a fianco di un principe che le esigenze della politica obbligavano a comparire diverso da quello ch'era, come documenti incontrastabili lo dimostrano, già spettatore non volgare del chiudersi della gigantesca epoca napoleonica, e della succeduta ristorazione, pettegola non meno che intollerante, attore nei fatti dolorosi del 21 e del 31, ministro onnipossente finché la rivoluzione del 48 non lo obbligava a lasciare le vette del potere, si può facilmente concepire quanto interesse possano suscitare le note autobiografiche di questo veterano dell'esercito piemontese. È solo una parte di queste, la meno importante senza dubbio, che venne fatta sinora di ragion pubblica, ma cionondimeno crediamo far cosa gradita ai nostri lettori, specialmente isolani, dando loro sulla scorta delle sue stesse rivelazioni, un qualche ragguaglio dei casi, onde fu intessuta la vita di uno dei sardi ch'ebbe più agio e più volontà di salire.
Il marchese di Villamarina entrava assai giovine nell'esercito subalpino, e precisamente ai 18 di marzo del 1794 nel quinto battaglione del reggimento granatieri! Il suo corpo, che era uno dei più belli dell'armata del re, disteso lungo la linea militare della Roja, combatté valorosamente ad Authion, stando sempre di fronte ai francesi insino alla pace di Cherasco. Indi continuò a prestar servizio in quei battaglioni che una convenzione particolare metteva a disposizione del Re di Sardegna per soffocare le rivolte popolari che suscitavano nel Piemonte or qua or là, le mene occulte ed aperte degli agenti della repubblica cisalpina. Finalmente essendosi il Direttorio nel 7 ed 8 dicembre 1798 impadronito del regno, costringendo la Corte a riparare in Sardegna, l'armata piemontese venne mandata in Lombardia, ed il Villamarina col reggimento di Aosta, cui allora apparteneva, rimase sotto gli ordini del generale Victor, che gli diede incarico di sistemare l'amministrazione alla francese, ciò che egli seppe fare con tale rapidità ed accortezza da riportarne elogi particolari.
In mezzo alle rapide alternative di vittorie e di sconfitte, che l'esercito francese dovette provare in quel torno di fronte a quello degli austro-russi, la sorte lo condusse a restar compreso fra i 2800 uomini con cui il generale Gardanne avea missione di difendere fino agli estremi la chiave dell'alta valle del Po, la fortezza di Alessandria. Chiusi là dentro senza quasi speranza alcuna di soccorsi, vennero per ventitré giorni cannoneggiati all'indiavolata dagli austriaci, e poi loro intimata la resa colla perentoria minaccia di duro trattamento qualora si volesse ostinare nella inutile difesa. Ricordo che era un sabato sera, scrive il Villamarina, la risposta del bravo generale Gardanne che aveva un braccio al collo fu recisamente negativa. È un bravo soldato, dissi io a un mio camerata, e dobbiamo bere a cena facendoli un evviva di cuore.
Ridotta la guarnigione a soli 1500, validi al servizio, a sei bocche di trentadue libbre in stato di far fuoco, rasi al suolo tutti i fabbricati della cittadella, salvo la caserma e la polveriera, con tre faccie dei bastioni in aperta breccia, il generale Gardanne mandò un parlamentario a trattare con Souwarow per la resa. Avendo però questi rifiutate le condizioni proposte, convenne a malincuore subire quelle che imponeva il nemico, e che si riassumevano nel consegnare immediatamente la porta della fortezza, nell'uscire durante il giorno con tutti gli onori di guerra, sebbene coll'obbligo di deporre le armi appié degli spaldi e nel costituirsi prigionieri per essere avviati subito in Ungheria.
In conformità a queste condizioni la consegna della piazza fu eseguita difatti all'indomani per tempissimo, e la guarnigione ne usciva alle tre del pomeriggio. In tale momento si presentava al Villamarina il cav. Gabet, commissario del re Carlo Emanuele, il quale recavagli una lettera del vecchio padre, ove esprimeva il desiderio di averlo in Cagliari, onde servirgli di aiuto e conforto nella vecchiezza. Soggiungeva, che avendo egli servito sotto i francesi, siccome questa circostanza potea dispiacere alla Corte, prima di rimpatriare cercasse di lavarsi da questa, che allora si riputava una macchia, col fare una o due campagne nell'esercito delle truppe alleate. E per metterlo in condizione di secondare questo desiderio, il, Gabet, avea già trovato un posto al Villamarina nel corpo che dipendeva dagli ordini del generale russo Bragation.
Questa proposta andò tutt'altro che a sangue del Villamarina, per cui, non ostante le paterne raccomandazioni, credette opportuno rispondere al cavaliere Gabet: Se io fossi un povero diavolo senza pane e senza tetto, tira là, bisognerebbe rassegnarsi a vivere anche in Russia: ma il caso mio è ben diverso. Ho un nome onorato, ho una discreta fortuna domestica, una famiglia che mi ama, ed il mio avvenire è tutt'altro che fosco. Una tale opinione venne anche ribadita nell'animo suo da una circostanza che amiamo meglio lasciar raccontare a lui stesso:
Nel secondo dì, essendo andato a vedere un reggimento russo a manovrare nella piazza d'armi, con somma mia sorpresa vidi piovere sulle spalle di un tenente un poderoso colpo di canna. A una tal vista mi sentii rimescolare tutto il sangue nelle vene, e nella stessa sera mi recai da Gabet e tosto gli dissi: Amico mio, non pensiamo più ai russi, giacché se succedesse mai a me di ricevere una sola bastonata sulle spalle, chiunque fosse che me la somministrasse avrebbe la mia spada nel ventre fino al manico. Le bastonate si danno ai cani, Gabet caro, non mai ad un uffiziale d'onore!
(Continua)
F. Vivanet

 


CRONACA POLITICA
L'ITALIA E LE PRESENTI COMMOZIONI
(pagg. 266-267)
Si afferma e si ripete fino alla sazietà, che nel convegno di Reichstadt i siri d'Austria e di Moscovia abbiano stabilito nuovamente di non intervenire negl'imbrogli orientali, scongiurando per tal guisa il pericolo d'una guerra generale.
Laonde le speranze di pace sono rinverdite questi giorni e le fantasie di parecchi si cullano in beato ottimismo che è un piacere il vederle. Le rive della Drina e della Morava, per usare la frase dell'onorevole Melegari, sono, a dir vero, insanguinate; il cannone tuona da Klek a Sofia, da Belgrado alle vette balcaniche; i Turchi rinnovano gli eccidi delle età più barbare, Murad V ora è invaso da cupo terrore, ora ride sgangheratamente; ma tutto ciò non è che effimero. Nel 1876 avverrà quello che è avvenuto tante altre volte nei quattrocento anni da che dura la lotta fra turchi e cristiani. Serbia e Montenegro, ben presto esausti rientreranno nei loro confini, gl'insorti deporranno le armi con una lezione di più e molto sangue di meno nelle vene. La panacea di un nuovo e più lusinghiero Hati-Houmayoun sanerà ogni piaga; se l'attuale sultano è proprio matto, come si assicura, verrà spacciato come il suo antecessore... ed eccoti di nuovo scomparsa ogni più sottile nuvoletta dal limpido cielo della politica.
Così si discorre da parecchi, in perfettissimo accordo col rosco dottore Pangloss.
Ma il fondo della situazione è ben diverso. Non è ammissibile che la Serbia e il Montenegro abbiano preso le armi senza la morale certezza d'essere sorretti all'ora opportuna da un braccio più possente del loro. La guerra, che sembra condotta a badalucchi per manco di energia ne' combattenti, è per avventura fatta a bello studio per guadagnar tempo. Già la Rumenia, malgrado le proteste ufficiali, s'arma e sta alle vedette: ha cominciato anche a sollevare delle pretese d'ingrandimento a danno della Turchia. La Grecia, che sembrava aver dimenticato e Scio e Missolungi, e i giuri di Botzaris, di Zavella, di Canaris, si ridesta e invita il viaggiante suo re a tornare ove il dovere verso la patria lo chiama. Chi assicura che fra poco la Turchia non venga assalita da tutti i lati e non crolli da capo a fondo?
E in questo caso quale sarebbe il contegno delle potenze, massime dell'Austria e della Russia? È probabile che interverrebbero. La Russia, non è un mistero per nessuno, lavora alla distruzione della Turchia e medita qualche gran colpo. Posto che gl'insorti e gli altri che ora combattono le orde ottomane, dovessero soccombere, è più probabile che essa stenderebbe loro la mano malgrado ogni promessa di non intervento. Ed è forse nell'aiuto della Russia che confidano Francia i cristiani. La guerra europea tanto temuta e deprecata non è adunque un'eventualità tanto remota, perché non è credibile che uscita una potenza qualunque dalla neutralità gli altri vogliano stare a vedere, mentre sono in gioco supremi interessi d'ogni natura.
Né gli uomini di Stato più avveduti e i gabinetti si fanno illusione; essi sentono nella calma attuale il presagio della tempesta. L'Austria moltiplica i reggimenti che stanno di guardia ai confini di mezzodì. La Russia fa altrettanto sul Pruth e ai confini della Polonia, l'Inghilterra munisce formidabilmente Malta e schiera una selva di corazzate dinanzi a Tenedo, pronte all'azione; le altre potenze nel silenzio e nel raccoglimento si preparano anch'esse ad un grande cimento.
È una condizione di cose assai dolorosa codesta, che nei giorni della più avanzata civiltà le guerre sieno più frequenti e sterminatrici. L'Europa ogni quinquennio è desolata dalle furie di Bellona.
Ma le declamazioni, le elegie umanitarie, i voti della pace perpetua nulla valgono di fronte alla realtà delle cose. Bisogna pigliare le cose come stanno, e a norma del vero conformare la propria condotta.
Chi più dell'Italia avrebbe bisogno di pace? Essa ha la finanza da restaurare, le sue energie economiche da svolgere, da semplificare i vari rami dell'amministrazione, da completare i necessari armamenti di terra e di mare, da rendere più istruiti i suoi figli, eppure conviene che pieghi alla dura necessità.
Arme gridan le genti, arme sospira
L'orto, l'occaso, l'austro, l'aquilone,
E tutta quanta Europa arme delira.
Dobbiamo anche noi prepararci agli eventi. Nel caso probabilissimo d'una guerra generale non potremmo esimerci dal prendervi parte; altrimenti sarebbe come il rinunziare a quella parte di giusta influenza che ci spetta nel consorzio delle nazioni.
Per ora le grandi potenze s'attengono al non intervento, quale fragile ma unica ancora di salvezza. E noi seguitiamo volentieri l'esempio fino a tanto che il farlo non torna a disdoro od a colpa. Ma giunto il momento dell'azione anche l'Italia dovrà scendere in campo.
Contro chi?
La risposta è semplice, solo che si considerino le basi del nostro diritto pubblico, i principii che ci fecero sorgere per la terza volta a dignità di nazione, e che sono fulgidamente simboleggiati nei colori della nostra bandiera. L'Italia non potrebbe mai combattere contro il diritto dei popoli, a favore del despotismo e della tirannia.
La patria nostra che segnò sulle spiagge del levante orme grandiose, non deve aver dimenticate le proprie tradizioni. Ella deve ricomporre il suo prestigio in quelle regioni, dove vi sono popoli infelici, come essa fu infelice, e che ricordano ancora con rispettoso affetto il leone di San Marco, e il cavallo di San Giorgio.
E non dubitiamo del nostro valore e della nostra fortuna. Esercito prode e numeroso abbiamo; l'interno assestamento è, se non ottimo, abbastanza buono; la libertà, anima delle nostre istituzioni fondamentali, ci accompagnerà nei nuovi rischi, in nome di una nazione la cui esistenza è oramai necessaria alla civiltà, e sotto gli auspici di un principe, a cui non si poté mai applicare il famoso detto che si legge nel Bruto di Voltaire:
Il nous rend nos serments dès qu'il trahit les siens.
Il resto farà il proverbiale stellone.
A. Pandian

Anno II Num. 31 Sassari, 30 luglio 1876

CURIOSITÀ E RICERCHE STORICHE DI STORIA SUBALPINA
Pubblicate da una società di studiosi di patrie memorie
ROMA, TORINO, FIRENZE
FRATELLI BOCCA 1874
(pagg. 280-281)
(Continuazione)
Il padre di Villamarina informato della sua ripugnanza ad entrare nell'esercito russo, consigliò il servizio austriaco, e si fu in omaggio al suo volere ch'ei si acconciò nel reggimento Arciduca Giuseppe, formato in massima parte di fiamminghi appartenenti alle già Fiandre Austriache. In tale condizione rimase il Villamarina fino alla pace di Luneville (1801) cioché gli fornì occasione di persuadersi che la vera forza militare dell'Austria consisteva nella stretta e severa disciplina.
Durante l'armistizio che precedette la pace di Luneville, mentre stanziava a Sirnis nella Carniola, ebbe annunzio che suo padre lo aspettava a Torino, ove erasi portato a precedervi il re Carlo Emanuele IV, cullato dalla speranza di poter ritornare nei proprii Stati. Dopo tredici anni di lontananza, ardeva dal desiderio di rivedere il vecchio genitore, ma le condizioni di un semplice armistizio glielo vietavano. Il suo colonnello Soudain propose di mandarlo in missione al quartier generale per veder di ottenere un congedo di quaranta giorni. Presentatosi infatti al generale Bellegarde da cui era personalmente conosciuto, per l'avvedutezza con cui si era sbrigato da commissioni difficilissime, e per la facilità di apprendere lingue e dialetti, vi fu amorevolmente accolto, né si ebbe difficoltà a rilasciargli un passaporto, in cui veniva qualificato come un ufficiale piemontese che dimessosi dal servizio austriaco faceva ritorno in patria. È da notare che siffatto espediente non era scevro di pericoli per il Villamarina, dacché, se preso in sospetto dai francesi andava incontro a serî guai, e se scaduta la tregua non rientrava nel suo reggimento, dovea essere considerato quale disertore.
Ciononostante, venduto alla lesta il proprio cavallo onde farsi un po' di peculio, smesso il costume militare, acquistata una carrettella, si pose senz'altro in viaggio. Entrato nella linea francese ad Udine, poté attraversarla senza grandi ostacoli. Giunto però a Verona, scrive lo stesso Villamarina, mi si presentò un nuovo intoppo. La mia povera borsa conteneva appena trenta lire. Non mi scoraggiai, vendetti la carrettella, la quale era in così cattivo stato da doverla lasciare per quaranta lire. Con 70 lire in tasca per viaggiare da Verona a Torino v'era da spaventare chi non fosse abituato, come io l'era, a viaggiare colla posta di San Francesco. Ma mentre mi disponeva ad usarla, fortuna volle che incontrassi sulla piazza un vetturale piemontese, il quale si accordò meco di condurmi a Torino dove l'avrei pagato.
Abbracciato il padre a Torino, prima che trascorressero i due mesi assegnati alla tregua, dovette rientrare nel reggimento, ciò che gli riuscì di fare superando alla sfuggita gli avamposti francesi. Stipulata però poco dopo la pace tra la Francia e l'Austria egli restò libero, e nonostante le insistenze del principe di Rohan, che lo volea condurre a Vienna come suo aiutante di campo, ottenne il suo congedo regolare, per recarsi a Genova ove suo padre lo attendeva per sciogliere di conserva per l'isola.
Ritornato in Sardegna, continua l'autobiografo, assunsi gli affari della famiglia, e, per fare il piacere del padre mio, presi moglie. Fui felicissimo nella scelta della sposa, sorella della moglie del mio fratello primogenito, egregia e virtuosa donna che mi ha dato costantemente le più care e desiderate consolazioni domestiche e figli e figlie ottimi.
Il Villamarina passò così, circa tredici anni a Cagliari, tutto dedito al disimpegno degli affari del vasto censo domestico. Nel 1814 il Re Vittorio Emanuele, che già si disponeva a lasciare l'isola di Sardegna, gli fece dire dal conte di Roburent, sovraintendente generale della real casa, che desiderava condurlo seco nella qualità di primo aiutante di campo. Egli esitava per non lasciare solo il padre ormai vecchione di ottantadue anni, ma il re essendosi rivolto a lui stesso, questi non si oppose, sulla promessa che lo avrebbe lasciato ripartire appena ristabilito sul trono. Alla dimanda del re, il vecchio Villamarina rispose difatti che la sua antica famiglia non si era mai rifiutata, né si rifiuterebbe ora di far sagrifizi di ogni maniera a servizio dei suoi sovrani. Egli aveva ben diritto di parlare in questo modo, soggiunge non senza alterazione il marchese Emanuele, riepilogando così alcuni servigi resi alla Casa di Savoia in diverse circostanze, dai suoi congiunti. Il cavaliere Don Giacomo Pes di Villamarina, mio zio, con eroica intrepidezza aveva fatto la guerra contro i repubblicani francesi sulle Alpi, s'era coperto di gloria nella difesa dell'Auttiron, ed aveva reso segnalati servizi alla reale Casa di Savoia. La regia finanza ci era debitrice di sessantamila scudi, imprestatile gratuitamente nel 1793, e mio padre quando si trattò della partenza dalla Sardegna del re Carlo Emanuele IV, dopo le vittorie di Souwarow, richiesto da lui di un imprestito personale, gli aveva subito rimesso tremila seicento doppie antiche di Savoia in oro.
Se lo spazio ce lo consentisse, ameremmo riprodurre per intiero le pagine in cui si descrivono i primi momenti del nuovo governo succeduto al francese. Il Villamarina aveva allora trentasette anni, aveva acquistato molta esperienza del mondo, ed era in grado di apprezzare con esattezza la situazione ch'egli riproduce di fatto con alcune pennellate assai vive. Si può immaginare quanto fosse grande l'imbarazzo del re nel succedere ad una brillante dominazione, che in mezzo alle affrettate e spesso anche inconsulte demolizioni aveva gittato a piene mani i germi del bene. Lungo il viaggio da Cagliari a Genova, il re aveva dimostrato di conferire con piacere col giovine suo aiutante, che pure aveva servito sotto i francesi. Bastò questo perché il conte di Roburent, modello di vecchio e brioso cortigiano, secondo il giudizio del Martini, non buono che a vegetare nell'anticamera del re, per quanto ne pensava il ministro Chialamberto, galantuomo perfetto, ma perfetto reazionario secondo il Villamarina, se ne ingelosisse al punto che appena arrivato a Torino credé necessario di ricordargli che l'aiutante di campo del re non apparteneva alla Corte dove nulla avea da vedere se non nei giorni di pubblico corteggio.
Nonostante queste avverse influenze, premendo assai al re di avere un esercito instrutto e disciplinato, diede l'incarico al Villamarina di rivedere alcuni schizzi di evoluzioni militari, affine di compilare sovra di essi una teoria che cominciando dalle prime mosse del soldato andasse a finire nelle grandi manovre della linea.
A quel tempo, scrive il nostro autobiografo, per i più il Piemonte si considerava come non appartenesse all'Italia. Nell'esercito, comandi, amministrazione e relazioni erano in francese. Quando a Corte e nelle alte società non si parlava francese si parlava il dialetto piemontese. Mi fece quindi grata sorpresa il re quando mi disse che intendeva che la lingua italiana si dovesse sola usare nell'esercito regio, sia nei comandi, sia nelle scritture di contabilità e di amministrazione.
In questo volere del re entrava, è ben vero, il desiderio di cancellare le memorie del passato governo, il quale mostrava di sopravvivere nel linguaggio e nelle istituzioni, ma era anche impossibile il non riconoscersi l'effetto dei bisogni del tempo e le necessità inesorabili della storia. Si era parlato tanto in quelle provincie di un forte regno d'Italia, l'esperienza fatta era durata abbastanza a lungo, si erano ripetute siffattamente le parole di eguaglianza, di nazionalità, di progresso, perché a dispetto di quelli che avrebbero voluto restare nell'immobilità di una volta, non soprannotasse qualche cosa di tutto questo anche dopo il violento mareggio degli avvenimenti.
(Continua)
F. Vivanet

 


CRONACA DI CITTÀ
Nomina. ‒ Annunziamo con piacere che il nostro amico e collaboratore Avv. Gio. Solinas Cossu, è stato promosso a Segretario nel Ministero di Finanze (Segretariato Generale) a Roma.

Anno II Num. 32 Sassari, 6 agosto 1876

CURIOSITÀ E RICERCHE STORICHE DI STORIA SUBALPINA
Pubblicate da una società di studiosi di patrie memorie
ROMA, TORINO, FIRENZE
FRATELLI BOCCA 1874
(da pag. 291 a pag. 293)
(Continuazione)
In questo fratempo il gigante rilegato fra le rupi della piccola Elba passa fulmineo il poco mare che lo divideva dalla Francia; breve tratto invero per l'ala poderosa dell'aquila! Il principe di Napoli Murat fissa il suo quartier generale a Bologna e minaccia occupare i ducati. Si può appena immaginare quale impressione producessero alla Corte di Torino queste nuove, più inaspettate che straordinarie. Nella fretta non si trovò a far di meglio che spedire il Villamarina a Milano per sentirvi che intendessero fare i generali austriaci, ma poi richiamato andò a trovare il re che, con quindicimila soldati, si era già chiuso nella cittadella di Alessandria. Si chiama frattanto il conte di Pratolongo a prendere il comando di quelle truppe, ma una grave infermità sopravvenutagli in sul più bello, glielo impedisce, per cui il conte della Torre, generale al soldo inglese, passato in quel torno in Alessandria, fu vivamente pregato a succedergli. Questi accetta, ma a condizione che il Villamarina fosse il suo capo di Stato maggiore, e di più anche suo segretario privato.
Trascorsi alcuni giorni il conte della Torre si recò, in compagnia del Villamarina, a conferire col generale Frimont, comandante in capo dell'esercito austriaco in Italia. Il corpo piemontese che dovea agire con esso, essendo formato in gran parte di soldati e ufficiali che avevano servito sotto le bandiere francesi, pare lasciassero luogo a dubitare della sua fede. Il Villamarina racconta con quale dignità il conte della Torre dissipò le diffidenze surte nell'animo dei generali austriaci, sulla lealtà delle truppe piemontesi, e come pur mantenendo la propria indipendenza, ottenesse di essere chiamato ad agire colla divisione comandata dal generale Bubna.
"Eravamo tutti vogliosi di combattere, scrive egli, e di fare onore alla bandiera del nostro re, quando, varcato appena il Mocenisio, il generale della Torre, ricevette per mezzo di un'ufficiale austriaco una lettera del generale Bubna che lo preveniva che qualche grande fatto doveva essere successo alle grandi armate, essendoché il generale che comandava l'esercito francese sulle Alpi, aveva chiesto un armistizio".
Il grande fatto sospettato dal generale Bubna era nientemeno che la disfatta di Waterloo, la quale poteasi dire davvero l'ultimo canto dell'epopea napoleonica. Questo avvenimento veniva assai a proposito per le truppe del re di Sardegna, poiché il Villamarina, avendo durante la tregua esaminate le condizioni del corpo cui apparteneva, trovò ch'esso era privo dei servizî più indispensabili, che alla vigilia di appiccar battaglia si mancava di filacce, di barelle, e fino di ferri chirurgici, e che tutto il corpo sanitario non contava che un solo medico e chirurgo in capo. Menomale che la caduta di Napoleone li toglieva dai mali passi in buon punto, per cui il capo di uno Stato maggiore così male ordinato aveva tutto il diritto di esclamare: Ben si vede che Dio aiuta i disperati, quando non lo sono per colpa loro!
I piemontesi, dopo pochi giorni di armistizio, fecero una mossa in aventi per bloccar Brianzone e dar l'assalto a Grenoble. La legione reale ed i cacciatori di Nizza si impossessarono ben presto di due sobborghi, ma la città tenne duro e non fu che dopo il terzo giorno che si arrese, ritirandosi la guarnigione sopra Valenza sul Rodano. In questa circostanza ebbe luogo un aneddoto il quale basta a dimostrare quanto l'occhio del Villamarina fosse già abituato a giudicare drittamente uomini e cose. Esso è il seguente: il duca di Polignac, quello che portò più tardi a rovina i Borboni, accompagnatosi alle truppe piemontesi, aveva fatto capire che il solo suo nome sarebbe bastato a far spalancare le porte a Grenoble. Egli non lo celava a nessuno, e mostrava di esserne pienamente convinto. Il Villamarina, all'udire tante badiali smancerie non poté trattenersi dal mormorare all'orecchio del suo generale: se quest'uomo prenderà le redini del governo sarà la rovina del suo sovrano. I nostri lettori sanno bene che queste parole furono pur troppo profetiche!
Appena il corpo d'operazione rientrava in Piemonte, egli venne nominato tenente colonnello. Nella seguente primavera portossi a Cagliari per ritirare la propria famiglia che condusse a Torino. La sua carriera militare progredì sempre d'allora in poi in mezzo alla profonda pace succeduta a tanti anni di continue agitazioni e pericoli. Capo di Stato maggiore della divisione di Torino, ottenne al suo turno il grado di colonnello. Nel 1820 fu spedito dal re Vittorio Emanuele due volte in missione a Milano; poi nominato ispettore della fanteria. Sopravvennero indi i fatti del 21, ed è questo l'interessante argomento ch'egli riserba ad un'altra nota.
Abbiamo riassunto con qualche larghezza questa prima parte dell'autobiografia del Villamarina, sì per la importanza personale dello scrittore, avendo egli avuto per tanto tempo in mano le sorti della sua isola nativa, sì per la condizione in cui era di osservare da vicino le cause dei grandi avvenimenti della sua epoca. E tanto più diviene utile per noi il conoscerne le intime idee ed opinioni, attesoché l'importante periodo al quale egli ha sovrastato e che abbraccia nientemeno che tutto il regno assoluto di Carlo Alberto, non fu ancora trattato da alcun storico locale, (il Martini essendosi fermato al giugno del 1816, al momento cioè in cui il re Carlo Felice partiva dalla Sardegna per i suoi Stati di terraferma). La confidenza fatta da lui medesimo alla posterità possono senza dubbio gittar qualche luce sull'andamento spesso recondito di molti eventi che ci riguardano, e spiegare, meglio che non facciamo, le carte cancelleresche, di ordinario fredde e concise, anche gli oscuri avvolgimenti della politica interna.
Il nome del Villamarina, in mezzo a non poche recriminazioni, va associato in Sardegna ad alcune riforme cardinali ch'è d'uopo considerare come il principio di tutti i progressi dell'età nostra. Tale, a tacer d'altri, devesi ritenere l'abolizione del feudalesimo, senza di cui per quest'isola avrebbe continuato il medio evo in pieno secolo decimonono. Parrà quasi strano che un uomo nato fra i privilegi del patriziato, cresciuto all'ombra del potere assoluto, abbia dato il colpo decisivo sulla radice di questa pianta che aduggiava ogni speranza di meglio nell'isola. Ma a chi guardi un po' addentro nelle pagine precedenti, vedrà come fosse logico e naturale questo desiderio in una testa retta, ch'aveva avuto agio di studiare messe all'opera, le idee lanciate dalla rivoluzione francese, e che pure essendosi posto fra le schiere dei suoi avversari, al momento della vittoria avea il coraggio di consigliare si conservasse quello che vi era di buono negli ordini stabiliti dal governo dell'usurpatore. I racconti ulteriori appartenendo a tempo più difficili, allorquando egli cominciava ad avere una qualche influenza, ci spiegheranno senza dubbio molte cose ignorate della storia del Piemonte e metteranno anche noi isolani in grado di vedere quali fossero le linee più riposte del suo carattere morale, dei suoi convincimenti politici. La storia ha il dovere di essere giusta ed imparziale con tutti. Essa deve esaminar ogni documento che la possa guidare alla verità. Dopo questo esame, intrapreso con tutta la serenità necessaria, si potrà mettere in sodo, quanto vi fosse di vero in quell'opinione d'uomo inclinato a strapotere, che di esso si è sradicata in Sardegna, o se le basse arti del governo assoluto, fossero da lui messe in giuoco per giungere al nobile intento di introdurre costì i germi combattuti del meglio. Esso ci dirà Francia se, addattandosi alla condizione disparata dei luoghi, avesse due modi di governare, e se nella stessa uniforme si chiudessero due uomini quasi diversi fra loro, uno per il Piemonte e l'altro per la Sardegna.
F. Vivanet

Anno II Num. 35 Sassari, 27 agosto 1876

IL SUFFRAGIO UNIVERSALE
(da pag. 337 a pag. 340)
Chi ha potuto seguire le vicende delle ardenti discussioni teoriche in ordine alle franchigie elettorali e segnatamente da Stuart-Mill fino a noi, non ha certo dubitato un istante della vivissima necessità di una soluzione pronta ed opportuna di questo grande quesito della nostra legislazione.
Già da tempo gli Stati Uniti, la Svizzera, l'Inghilterra, la Germania, la Francia, la Spagna hanno accolto le più ampie riforme in favore del voto popolare; mentre in Italia si è press'a poco mantenuta ferma la classica divisa del radicale inglese: Nolumus leges Angliae mutare.
Nelle sanzioni che oggi governano fra noi questa materia si sentono ancora i principii direttivi del 1848, malgrado le innumerevoli petizioni che si venne continuamente presentando alle Camere e la progressiva insistenza con cui le popolari associazioni hanno frequentemente invocato questo dritto che potrebbe dirsi caratteristico dei governi rappresentativi. Sicché della pienezza di vitalità politica, nella quale si agita il continente europeo, mirabilmente discorda questo sistema di restrizione che implica la più dannosa apatia.
Noi non ci dissimuliamo per certo come qui, forse più che altrove, sia necessario andar cauti, perché, scansati i danni nascenti dalle retrive preoccupazioni e dalle tendenze oligarchiche, non si abbiano ad incontrare i pericoli, cui va soggetta la scuola della demagogia assoluta. È mestieri, senza dubbio, avviarsi risolutamente al suffragio popolare, come disse il Depretis, ma è pur mestieri non dimenticare le condizioni in cui versa attualmente il paese affinché la instituzione di cui parliamo non riesca prematura. Il tempo, disse il filosofo, cancella quanto si fa senza il suo consenso.
I due criterii supremi in tema di elettorato si sono finora espressi con la formula: interesse e capacità. Lo interesse si argomenta dal censo, il quale è alla sua volta misurato dalla quota d'imposta che il cittadino corrisponde. Nei diversi paesi in cui questo principio è riconosciuto, una tale misura non solo è disuguale, ma non può neppure dirsi proporzionata alle varie condizioni di essi. Non si saprebbe dire invero a quale fondamento logico s'inspiri questa diversa e molteplice ripartizione, che per giunta ha il difetto di non dimostrare quello che appunto dovrebbe. Si tien conto dell'imposta diretta, e si mette fuori causa quella legale ruberia, che i pubblicisti convennero nel chiamare tributo indiretto. Se quello che si eroga dai contribuenti a pro dell'erario è un sicuro indizio che i medesimi spiegheranno interesse alla pubblica cosa, per qual ragione si insiste a mantenere un così diverso trattamento fra il ricco possidente e l'operaio, al quale, come disse il deputato Toscanelli, si concede il pane al prezzo di ventuna tassa? Noi crediamo che, indipendentemente da ogni argomento di censo, l'interesse in tutti e singoli i membri di un qualunque aggregato sociale, alla pubblica prosperità non possa ragionevolmente rivocarsi in dubbio, perché, senza tanti sforzi di dialettica, s'intende benissimo che nel danno di tutti si comprende il danno di ciascuno.
Il censo adunque, così come lo s'impone, non può ritenersi quale condizione del diritto di suffragio, perché illogico, incerto ed ingiusto. Ogni cittadino che abbia coscienza dei proprii diritti e dei proprii doveri non può essere escluso dall'esercitare questo supremo atto politico per ciò solo che il manco di fortuna non gli concede il vantaggio di versare a mani dell'esattore le sue 20 o 40 lire d'imposta.
L'altro criterio cui si disse essere quello subordinato il dritto di voto è quello della capacità. Su questo punto non crediamo possibile alcuna contestazione. Per il retto esercizio di un diritto non può dirsi sufficiente il fatto materiale dell'azione che lo rivela, è altresì richiesto il concorso dell'intelligenza e della volontà, senza di che l'opera dell'uomo è affatto automatica. Noi abbiamo bisogno di cittadini che sempre e senza riserve sappiano quello che fanno quando prendono parte agli ufficii della comunanza sociale, che ne intendano tutta l'importanza e ne accettino intiera la responsabilità. A questo modo soltanto il cittadino è degno del nome che porta; e chiamarlo ad entrare nell'arringo delle pubbliche lotte, con la compartecipazione alle funzioni della sovranità, mentre risveglia e solleva in lui il senso morale, mentre dà certezza ai più della comune dignità, assicura allo Stato un avvenire di tanto migliore quanto questo concorso è più serio, ragionato e virile.
Ma vi hanno pure delle altre condizioni, relative all'età, al sesso ed alla diversa posizione sociale, che inducono un freno all'esercizio del diritto di voto.
Finché si parla della minore età, le ragioni che rispondono in favore di codesto divieto della legge sono così generalmente ammesse e giustificate dalla esperienza che non si ha motivo a recarle qui in discussione. Quello che non si sa facilmente spiegare si è la eccezionale esclusione imposta ai minori d'anni 25 dall'elettorato politico, quando per altro si ritengono capaci a compiere validamente tutti gli atti della vita civile.
Della questione che si riferisce alla ammessibilità delle donne al benefizio delle franchigie elettorali, non accade di ragionare. La serietà dell'argomento è forse incompatibile col soverchio di sentimentalismo che agevolmente vi s'insinua. "Per la donna non vi sono che due uscite nella società attuale: cortigiane o madri". Così scrive uno dei fautori delle più estese libertà, l'onorevole Petruccelli della Gattina. Facciamo grazia al lettore delle ragioni che ne adduce l'insigne pubblicista.
Vengono ultimi nel novero degli esclusi dal voto i falliti e quelli che vivono d'accatto. Sarà ragionevole, se vuolsi, e degno di lode ogni studio diretto ad allontanare dal mezzo della floridezza sociale queste deplorevoli piaghe, ma non è meno ragionevole l'allontanare dal voto costoro che avendo mandati a rovina i proprii interessi, o vivendo di pubblica carità, non danno garanzia di capacità sufficiente a tutelare l'interesse di tutti.
In seguito a questa rapidissima rassegna dei principii che dominano la soggetta materia, ci affrettiamo a dichiarare la nostra opinione intorno alla dottrina del suffragio universale. E a questo proposito niuna formula meglio la esprime e la rappresenta di quella con la quale l'onorevole Cairoli per ben due volte si faceva a chiederne l'attuazione dinanzi alla rappresentanza nazionale: " Dovranno essere riconosciuti i diritti politici a tutti gl'italiani di 21 anni compiuti, che sanno leggere e scrivere".
Come si vede, il criterio del censo è pienamente disatteso; si propugna la riduzione dell'età e si attribuisce il carattere di condizione unica ed essenziale alla capacità.
Posta in questi termini la questione, non è chi non veda come possa ottenersi un ampliamento del voto, siffattamente considerevole, che, se si voglia dare una interpretazione logica alle parole, importerebbe quello che la più severa democrazia ci domanda: il suffragio universale; perché allora un tal diritto verrebbe esercitato dalla universalità dei capaci. Ed abbiamo detto interpretazione logica, perché non possiamo ad alcun patto accettare la proposta che ci viene da taluni, i quali, sopprimendo almeno pro interim anche il requisito della idoneità, amano impetuosamente affrettare la più illimitata applicazione del motto. Noi siamo convinti, e si è già detto, che su questo terreno non si possa scendere a transazione di sorta. La giustizia prima di ogni opportunità. Ed è atto di giustizia che si nieghi l'esercizio di un diritto a chi non lo intende né può convenientemente apprezzarlo. Ond'è superfluo osservare che quando qui si parla di capacità dell'elettore, s'intende richiesto e provato in lui un tal grado d'istruzione, da non lasciar luogo a temere che con un geroglifico macchinalmente delineato, o con un ritornello per continua ripetizione accolto dalla mente, si faccia venir meno la causa che è il solo fondamento razionale del dritto in discorso. Se non che, (e da molti è notato) questo stesso principio trae seco non pochi né lievi inconvenienti nella pratica; ma una savia ed oculata riforma della procedura elettorale riuscirà, per quanto è dato, a renderli meno sensibili, se non a toglierli affatto. Quel che ora Francia interessa si è il riconoscimento del principio da cui speriamo siano per risultare vantaggi immensi nell'ordine pubblico e nel privato. Già troppo ci siamo dilungati per potere a questo punto toccare del modo con cui si può assicurare la maggiore veridicità possibile alla elezione.
In presenza intanto alla legittimità dei principii finora accennati, è lecito augurarsi che la Camera legislativa accolga, entro i limiti razionali, la desiderata riforma, cui non sarà per nuocere il ricordo di Richelieu ai re nel suo Testamento Politico: essere sommamente pericoloso il lasciar di troppo aumentare il benessere del popolo.
Francesco Salis

Anno II Num. 39 Sassari, 24 settembre 1876

NOTE ROMANE
(pagg. 60-61, vol. III)
‒ ...E non la voglion far finita con questa guerra maledetta! Eccessi ed atrocità di tal fatta sono onta ed esecrazione pe' popoli civili. Ritorniamo ad un vero medio-evo.
‒ Farla finita... Ma vi pare! Lo dissi fin da quando ebbe principio l'insurrezione: si vede dove comincia, ma non già dove andrà a riuscire. Del resto la guerra è il diritto del più forte, e tutto si giustifica quando questioni supreme come quelle che si agitano, dividono il campo della politica, e tengono in trepidante e faticosa aspettazione gli stati e le potenze.
Oh affé di Dio! Ma gli stati e le nazioni dovrebbero essere solidali in una questione di tanto interesse: la nazionalità d'un popolo non può, non deve essere sacrificata all'abbietta immorale dottrina del non intervento ed è necessario affermare e proclamare solennemente il diritto di questo popolo, che combatte per la libertà e per la propria indipendenza.
‒ Belle parole... Sentimenti che vi fanno onore, giovanotto mio! Ma, da senno, credete voi che basti questa crociata di parole per risolvere il conflitto? Ci vuol ben altro! E anzi tutto è d'uopo riflettere che le guerre si fanno o non si fanno, ma se si fanno... Domine aiutaci! Tutto sta a intendersi, e ogni Governo la intende a suo modo. V'ha una questione per tutti: la Russia ha Costantinopoli, l'Inghilterra le Indie, la Francia la Prussia, ecc. Benedetto equilibrio delle potenze che non potrà mai sussistere in pratica!
‒ Sopra ogni altra questione politica, sta la questione umanitaria, la questione morale: l'umanità e la civiltà hanno pur esse, e sanno risolverlo, un problema: il problema dell'avvenire. L'avvenire è tutto ed è tempo che si intimi a questi barbari che non si vada più oltre!
‒ E pare, bambino, che t'abbi studiato a memoria il famoso appello di Vittor Hugo, che termina colle parole: L'avvenire è un Dio trascinato dai tigri. Brutto quel Dio! L'avvenire! Illusioni, mio caro. Ci vuol ben altro a risolvere certi attriti della diplomazia, che una crociata di parole!
Questo frammento di dialogo tra un giovine che ho preso per un dottore in leggi uscito di fresco dalla Sapienza ed un signore attempatello anzi che no, ho raccolto, così alla sfuggita, in Piazza Colonna, la sera prima di quel giorno in cui si è radunato al Teatro Apollo il Comizio popolare a pro' degli Slavi, mentre a trar profitto d'un'ora di ricreazione, me ne stava colà godendomi le armonie d'una buona musica.
Debbo dire che i giornali non sono il mio pasto quotidiano: quelle colonne rimpinzate a furia di notizie di guerra, di atrocità musulmane, e di noiosa politica mi sanno d'epitaffio, o d'una iscrizione funebre. Benedetti fogli, non vi fanno grazia un giorno di tali miserie! Ma quelle parole raccolte per caso quando meno me l'aspettavo, mi richiamarono il tema della giornata, e, mal mio grado, fui costretto meditarvi sopra.
Chi dei due ha ragione, il giovine dottore o il vecchio borghese? Nol so dire: per saperlo bisognerebbe avere in testa una esatta definizione di quella terribile parola che nel dialogo sopra riferito, c'è entrata per qualche cosa: diplomazia!
Questo è un vocabolo che mi sa d'arabo, e a volerne ricercare anche l'etimologia, ed il senso mi sembrerebbe di fare un buco nell'acqua.
Convengo che è una parola forte, molto forte come lo scoppio d'un cannone, od un massacro di migliaia di vittime, a cui nella relazione di causa ad effetto, si assimila facilmente e che se dalla medesima può farsi una sciarada od un logogrifo, come meglio vi piace, staccandola nelle sue parti, gli è certo che vi trovate sempre il mistero ad intenderla unita.
Quanto a me, per dirne una, capisco che la Sublime Porta da quella cosa sublime che è, abbia i suoi diritti, e forza sufficiente per farli valere, sebbene il Governo che rappresenta lasci molto a desiderare per certe riforme che si attendono (fra le quali non ultima quella finanziaria ‒ sel sanno i creditori e possessori di titoli turchi... E per loro vi è molto a desiderare!) capisco che quell'Impero, sebbene da qualche tempo a questa parte mi abbia la figura di un impero da burla, ove i sultani o capi dello Stato, vivono, crescono e passano, come tante figure fantasmagoriche, ora sotto l'aspetto d'un suicidio più o meno volontario, ora sotto l'influsso d'una monomania od esaltazione nervosa; quell'Impero che muta la comodità od il paradiso d'un serraglio, ove tante vittime umane grazie alla benefica religione dell'islamismo, servono alla libidine d'una... quasi diceva bestia coronata... abbia dico la sua ragione di guerra, e per lui, come per tutti gli altri, anzi meglio, stia gli diritto del più forte: ma non capisco veramente come si possano comportare in pace tutti gli eccessi, atrocità e barbarie, che si commettono alla luce del giorno:
Vincer fu sempre mai laudabil cosa
Vincasi per prodezza o per inganne...
ma abusar della vittoria... Qui sta il debole!
La guerra, passi, è una mostruosa necessità fra Stato e Stato, che ogni tanto han d'uopo di tali vicendevoli dimostrazioni d'affetto, per alte ragioni, che si confondono nel mistero, e che a noi, poveri mortali, non è dato spiegare od intravedere; ma il modo antiumanitario, col quale la Turchia, o le sue autorità, o le sue orde, più o meno barbare vollero soffocare le insurrezioni e far la guerra, no, questo non può essere certo giustificato, ed in questo senso è sublime slancio dell'umanità offesa, necessaria protesta de' popoli civili lo splendido appello fatto alla pubblica opinione, e ripetuto in seno a' Comizi italiani e stranieri.
Ciò che è vero è questo: che imponente, solenne, forse non meno del meeting, tenutosi a Londra nel giorno 30 passato agosto, riuscì il Comizio popolare a Roma nel 3 del mese corrente. Esso rimarrà per gli italiani una splendida pagina della storia di questi tempi, e una severa protesta, che segna un marchio d'infamia sopra i fatti che accadono.
Quanto alle notizie del giorno mi limito a qualcuno dei molti si dice. Si dice e si ritiene ormai come un fatto certo che il Ministero abbia risoluto di sciogliere la Camera, e che anzi sia già stato firmato il relativo decreto, che questo decreto sarà accompagnato da un manifesto dello stesso Ministero al paese, col quale verrà esposto un programma delle leggi più importanti che verranno sottoposte al Parlamento, e de' criterii generali della politica che il Gabinetto intende seguire all'interno e all'estero.
Si crede che le elezioni avranno luogo tra gli ultimi di ottobre e i primi di novembre.
Chiudo queste note col fare un cenno della magnifica e grandiosa costruzione del Palazzo delle Finanze. Lo merita per davvero. Non si esagera se si dice che esso è uno dei più grandi palazzi che si sono fabbricati in Italia in questi ultimi tempi. Dicesi che il recinto delle fondamenta è di 36000 metri quadrati: per fare de' saldi fondamenti fu necessaria una escavazione di 267000 metri cubi di terra, a causa delle sottoposte gallerie.
Pare che alla fine di novembre, o a tutto dicembre quell'imponente locale potrà aprire le sue porte, ed accogliere la grossa falange d'impiegati che certo non vi staranno a disagio.
Roma 12 settembre 1876.
G. Musio


Anno II Num. 40 Sassari, 1 ottobre 1876

DEL GOVERNO RAPPRESENTATIVO
(da pag. 73 a pag. 76)
L'idea di un governo monarchico misto vagheggiarono Platone, Aristotile, Cicerone, Tacito, Dionigi d'Alicarnasso, Polibio; e più autorevoli scrittori, ammaestrati dall'ampio fardello di esempi, esempi di colpe miserande e di abbominevoli cadute, di eroiche imprese e di sublimi riscosse, fornito dal M. E., appena cessato, si fecero pur loro a propugnare quelle antiche dottrine colla fervida fede dell'Apostolo. A ciò li consigliava la torbida instabilità della democrazia da un canto, le infami e stolte perversità delle monarchie dispotiche dall'altro; e dedussero, ottimo de' governi quello in cui avrebbero trovato armonia i vantaggi di una stabile democrazia e ordinata, a quelli di una monarchia temperata.
"Talché avendo quelli, che precedentemente ordinano leggi, conosciuto questo difetto (la degenerazione dei governi semplici) fuggendo ciascuno di questi modi per sé stesso, ne elessero uno che participasse di tutti giudicandolo più fermo, più stabile, perché l'uno guarda l'altro, sendo in una medesima città il principato, li ottimati ed il governo popolare" .
Il sistema preconizzato dagli antichi, fondato sul contrappeso, sull'opposizione equilibrata delle diverse classi sociali, ossia nel bilanciare le forze del principe, del patriziato e del popolo, va lontano di lunga tratta dal tipo moderno.
Il fondamento della libertà costituzionale su cui sorge il diritto pubblico interno dell'età nostra vuole una costituzione politica ordinata a proteggere il diritto comune di tutta la cittadinanza, ossia della nazione, anziché il privilegio di una persona, o di una dinastia, o di una classe di persone.
Fermato ciò si fa evidente la necessità indeclinabile dello istituto di assemblee deliberanti, le quali esprimano con verità il liberalissimo concetto racchiuso nelle parole: self government. E però non si saprebbe lodare abbastanza lo spirito eminentemente pratico di Cornewal Lewis, il quale smesse le antiche e viete questioni sui pregi dell'una o dell'altra forma di governo, esortò i politici a procacciare una specie qualsiasi di governo parlamentare.
Libero è l'uomo che governa sé stesso colla ragione e colla volontà. Suarum actiorum dominus per rationem et voluntatem .
Dagli atti delle singole persone risulta la storia delle nazioni e dell'umanità, che apparisce nel suo progresso come una sola persona (l'osservazione è di Pascal) in quantoché le azioni di tutti gli uomini sono governate da quelle forze invisibili che sono la legge morale e gli affetti intimi. Onde, allargando l'espresso concetto di libertà alle nazioni, diremo libere quelle che vorranno, potranno o sapranno governare sé stesse colla ragione e colla volontà. Ed una nazione può governarsi da sé con la discussione onesta e leale, ugualmente tollerante la libertà dell'obbiezione e dell'affermazione, e col suffragio male necessarium a fine di riuscire a pratici risultamenti. Dico male giacché l'idea di suffragio è intimamente collegata a quella maggioranza, la quale non sempre, anzi assai di rado, si ottiene per la giustizia della causa, ma è frutto il più spesso della inettitudine e della seduzione: dico necessarium poiché se lo squittinio rappresenta il diritto del più forte ridotto all'espressione più semplice, "avendo la maggior parte degli affari un lato oscuro ed equivoco, la società umana, privata del mezzo sicuro di conoscere il valore di ogni opinione individuale, sarebbe stata condannata all'incertezza nei suoi interessi più vitali e più cari, se non fosse ricorsa al partito di contare le opinioni in luogo di giudicarle" . Comunque ei siasi, col suffragio il cittadino coopera più direttamente al governo dello stato; ma sarebbe errore attribuire ad esso maggiore importanza che alla discussione, la quale, per sé sola, quando sia proprio libera, manifesta veramente il pensiero spontaneo della nazione.
La libera e pacifica discussione non si radica in uno Stato, senza introdurvi una mutazione sostanziale nelle idee e nelle consuetudini: all'opposto, tutte le sue istituzioni potrebbero fondarsi sul suffragio popolare, rimanendo le idee e le consuetudini quali furono create dalle Signorie assolute. Prova i plebisciti francesi che preparati da una serie di fatti illiberali, accennavano ad un regresso verso la monarchia assoluta, mentre gli italiani, preparati da una serie d'atti liberalissimi, accennavano ad una grande rivendicazione di indipendenza e di libertà. Quelli ammazzarono la libertà costituzionale, mentre questi la fecero rivivere.
In Francia il plebiscito fu introdotto a risolvere le più gravi questioni di politica interna, in Italia fu ammesso come uno spediente necessario a risolvere una questione internazionale. E, fatalità degli eventi, vi fu ammesso suggerito da Napoleone III, che facendone il perno della sua politica, voleva tenesse luogo ai popoli di ogni libertà. Soprafatto dall'idea dei pericoli e dei danni, che potevano sorgere dal prolungarsi della guerra, egli vi aveva cercato il modo di distruggere l'effetto dei preliminari di Villafranca, consentiti da lui, allenandosi l'animo dei patrioti italiani .
Ora quella discussione, in cui consiste il carattere più essenziale del reggimento libero non può, come nelle antiche democrazie, farsi da tutto il popolo raccolto nel foro: sarebbe impossibile, insensato ed illiberale.
Tornerebbe affidare ai più inetti ed ai più tristi il governo dei migliori?
Quando tutto il popolo direttamente partecipasse al governo di sé stesso, si otterrebbe una maggioranza, la quale per verità legale, quasi sempre, darebbe una trista ed affliggente verità.
Ci furon sempre degli adulatori che dissero agli ignoranti bastare il senso comune per addentrarsi negli argomenti, che richiedono uno studio paziente ed una lunga esperienza... Queste adulazioni si odono principalmente quando si tratta di politica. Come i cortigiani ebbero detto ai giovani principi non occorrere loro né dottrina, né studio, i demagoghi dissero ai popoli il senso comune bastare ad ogni bisogno . Ma queste adulazioni non gioveranno gran fatto: i cortigiani non salvarono le vecchie monarchie, né salvarono meglio la giovine democrazia.
I popoli più civili però, e pur quelli che hanno vanto di ultra democratici, hanno, chi più chi meno, respinto quest'invasione di barbari dai pubblici negozi.
Nella Confederazione Svizzera stessa a che cosa si riduce l'ufficio del popolo nel Lansgeseide? Riunito una volta all'anno, per poche ore, non discute, ma solo ha un diritto di veto, piuttosto che un ufficio legislativo.
Ma benché così limitata, l'ingerenza "a quali termini può ridursi il diritto legislativo attribuito ad una cittadinanza i cui nove decimi sono dedicati ad un lavoro manuale, incessante di cui campano le loro famiglie"?
Partendo da queste premesse possiamo fermarci a più pratiche conclusioni.
Due sono i meriti che può avere ogni sistema di istituzioni politiche. L'uno consiste nel favore che le istituzioni concedono al progresso morale della comunanza rispetto all'intelligenza, alla virtù, all'operosità ed alla potenza effettiva; l'altro consiste nella perfezione colla quale le istituzioni organizzano il valore morale, intellettuale e operativo che già esiste, per farlo entrare più che si può nei pubblici affari.
Ciò posto, riesce evidente come, astrattamente parlando, possa rispondersi alla grave questione: qual sia la miglior forma di governo. E però, a togliere qualunque equivoco, giova osservare che, miglior forma di governo non vuol già dire quella che è applicabile e accettabile in tutti i gradi di civiltà e presso tutti i popoli, ma bensì quella cui appartiene, nei casi in cui è praticabile e accettabile, la maggior somma di conseguenze salutari immediate e future, perocché mi sappia come le funzioni di un governo non sieno sempre le stesse, ma variino secondo i diversi gradi di civiltà, e in tutte le istituzioni debba farsi ragione all'indole, ai costumi, alle tradizioni del popolo cui si danno. Sotto tale condizione si può senza precipitare le poste, aderire alla formula dello S. Mill: L'ideale della miglior forma di governo si è il compiutamente popolare, il quale poiché non tutti possono personalmente partecipare ai pubblici affari, deve inoltre essere rappresentativo.
La superiorità di questo sistema su tutti gli altri, poggia su due principii universalmente indiscutibili: il primo, che gli interessi di chicchessia, si è sicuri, saranno sempre trascurati, tranne il solo caso in cui gli interessati medesimi sieno disposti a difenderli; il secondo, che la prosperità generale si innalza e si spande in un grado e in una quantità altrettanto maggiore quanto le facoltà personali alle quali incombe esplicarla, sono più intense e più svariate. E come più precisamente riflette lo S. Mill: "L'uomo non ha contro il maleficio dei suoi simili che una sicurezza, la protezione di sé medesimo esercitata da sé medesimo; non ha contro la natura che combatte che un mezzo di riuscita, la fiducia in sé medesimo contando su ciò che egli può fare, sia isolato, sia in società, anziché su quello che gli altri possono fare per lui.
Tuttavia vi furono di molti, in specie fra' moderni, i quali tolsero ad oppugnare la necessità delle assemblee deliberanti. A lasciare del Machiavelli, assai strenuamente le combatte il Gioberti nel Rinnovamento civile d'Italia, e quasi gli stessi argomenti avevano prodotto prima di lui Lammennais, il Girardin ed il Comte, e prima di tutti le aveva amaramente irrise Carlo Botta.
Le loro obbiezioni però non valgono ad inforzare sulla necessità di esse. Proposero eglino altro da sostituire a questo istituto, che, giudicato pernicioso, volevano abolire? Che cosa sostituire al Parlamento, qual mezzo di sostituire la libertà dei cittadini di fronte allo Stato, e quale organo mercé del quale lo Stato deve attingere la sua vita continua dalla coscienza nazionale? Che cosa s'avrebbe a sostituire al Parlamento per organizzare il diritto della legittima sindacazione degli atti del potere esecutivo? Badiamo, lo Stato esiste per i cittadini: è un mezzo indispensabile ad ottenere che l'uomo sia veramente uomo, ma pur sempre un mezzo. L'esagerazione delle sue attribuzioni ci rimenerebbe alle dottrine autoritarie del passato e lo spirito liberale moderno le rinnega in tutte le manifestazioni della vita sociale.
Anche ai giorni nostri si professano dottrine che inceppano lo svolgimento dell'attività individuale, ma quelle professioni di fede suscitarono un commovimento nazionale, ed il Governo che se ne diceva caldeggiatore cadde con pieno plauso di tutti coloro che vedevano scongiurato un grave pericolo per le politiche libertà. Non mi dichiaro fautore del principio: laissez faire, laissez passer, perché non vorrei di troppo s'avesse a menomare il diritto dello Stato; ma sarebbe desiderabile lo si rappresentasse nella sua giusta misura . Riferendomi alla questione, la quale mi suggerisce questi riflessi, cade assai opportuno un pensiero del sommo degli scrittori politici, e mi gode l'animo poterlo citare in cotanto grave argomento: "Un governo buono dovrà favorire e sovvenire ogni principio di operosità, che accenni a volersi far vivo. Sarà sollecito di agevolare le imprese col consiglio e coll'aiuto: spenderà piuttosto a sussidiare l'opera privata che a farsene competitore, stimolandola anche all'uopo colle ricompense e cogli onori. I sussidii del governo dovrebbero educare i popoli all'arte di compiere le grandi imprese coll'operosità cittadina e coll'associazione spontanea" .
(Continua)
Pasquale Prunas Tola


Anno II Num. 41 Sassari, 8 ottobre 1876

DEL GOVERNO RAPPRESENTATIVO
(Continuazione)
(da pag. 89 a pag. 91)
Torniamo al nostro proposito.
Il dottissimo Manno nel suo libro Della Fortuna delle frasi afferma che nelle istituzioni che si chiamano rappresentative si cela una illusione ed un inganno, perché esse in realtà non rappresentano nulla. Ecco l'anomalia che egli dice osservare nel mandato politico. "È il mandante d'ordinario quello che dispone e manda e comanda. Qui per l'opposto è il mandatario... La rappresentanza nazionale è una finzione innestata su quella della maggioranza. Può egli credersi da senno che poche migliaia di persone che sole scelgono poche centinaia di legislatori rappresentino in realtà parecchi milioni di rappresentati?... Sempre quando si vorrà affermare che pochi elettori ed eletti rappresentano il gran numero degli esclusi, io dirò che la parola di rappresentanza è, non solo fittizia, ma ancora accagionabile di tanta illusione".
Rispondendo alla prima obbiezione si può osservare come, a parlare con rigore scientifico, il mandato politico non può dirsi un vero e proprio mandato, e d'altro è ad esuberanza esplicita la massima statuita nello Statuto all'art.41:
"I deputati rappresentano la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori".
Accetta la prima parte dell'articolo, ove si esprime un alto concetto, prodotto delle più sane dottrine costituzionali; era inesorabile la conseguenza della seconda, la quale peraltro ha fondamento in altre inconcutibili ragioni. "Il mandato imperativo fa sì che la volontà decisiva, la risoluzione terminativa preceda alla discussione ed all'esame: impedisce la libera azione di coloro che hanno da discutere e da esaminare la questione; attribuisce la potestà assoluta e la decisione sovrana a coloro che non sono in grado né di esaminare, né di discutere. Effetto del mandato imperativo, sarebbe l'abolizione del governo libero" .
Per quanto concerne il numero degli eletti si ha, ben è vero, nel sistema rappresentativo una difficoltà insormontabile, inerente al sistema stesso; il correttivo però conviene cercarlo nelle garanzie posteriori.
È chiaro: le assemblee numerose inclinano sempre verso gli eccessi; ivi le passioni di ciascuno sono concitate da quelle di tutti, poiché ivi ognuno si senta più irresponsabile che non sarebbe quando deliberasse da solo; perciò la democrazia, che è il regno assoluto delle maggioranze, è il più tirannico di tutti i reggimenti.
Non discuto la deduzione dell'illustre storico, dal quale tolgo il riflesso , che ciò non torna all'assunto, ma il ragionamento di lui può limitarsi ad affermare: il numero dei deputati deve essere idoneo all'ufficio che deve compiere, a discutere e deliberare. Pellegrino Rossi concretizzava questo pensiero stabilendo, che un'assemblea legislativa male fornisse al compito suo se inferiore a 200 o superiore a 700 membri, del resto questo punto non è troppo controverso per richiedere ampia dimostrazione.
Più seria e complessa si presenta l'ultima obbiezione circa il minimo degli elettori. Però l'argomento è tanto vasto, che male si risolverebbe parlandone per incidente: esso solo meriterebbe una trattazione speciale. Questo fu fatto dall'amico Salis in un numero della Stella. Io non posso convenire pienamente nei suoi giudizii: io penso che nel nostro sistema elettorale non tutte le presunzioni di capacità sieno da eliminarsi siccome erronee assolutamente, e spero non tutte vengano cancellate nella riforma da discutersi alla riapertura delle Camere. Dividendo l'opinione di illustri pubblicisti, credo, si rovinerebbe in fatalissimi errori.
Tutte le obbiezioni del resto si fondano su di un vizio inerente ad ogni sistema elettorale, anzi a tutte le leggi, che, invece di partire dalla verità evidente, procedano da presunzioni. In queste è sempre un'ipotesi che può qualche volta fallire.
Non bisogna esagerare le speranze fondate sulle leggi; bisogna tener conto di quanto possano le idee ed i costumi: ed in Itala sovratutto, occorre por mente ad una completa trasformazione nel sistema di vita politica. Le istituzioni libere sono benefiche ai popoli in proporzione della loro virtù d'animo e di mente. Onde possiamo affermare che, è necessario la legge chiami alle elezioni tutti coloro che hanno un'opinione propria, che hanno interesse al buon andamento della cosa pubblica, che conoscono l'importanza dell'atto che compiono; ma che, ove di costoro sieno pochi in uno Stato, il chiamare gli altri non migliorerebbe di certo l'elezione. E però è chiaro come il numero non sia il miglior criterio per giudicare di una legge elettorale.
Alle obbiezioni del Manno non mi parve fuor di luogo fare qualche osservazione giacché nelle parole dell'illustre magistrato e scrittore sia compendiata la dottrina degli anti-rappresentativi (mi si passi la parola). Il Manno non mirava certamente a scalzare le nostre libere istituzioni, egli voleva solamente porre in vista il vizio su cui poggiava l'organismo, a fine di correggerlo con savio consiglio. Egli stesso fu membro non solo, ma presidente reputato di un'assemblea.
Quando considero come i più grandi oppositori riconoscano dal lato pratico l'utilità del sistema, che in teoria tentano menomare, mi persuado della stabilità di esso e inneggio alla fede di C. Balbo. "La libertà rappresentativa può, sì, lasciarsi cadere, sospendersi, applicarsi con impostura; ma essa non può più retrocedere dal terreno ove ha il piede definitivamente, né dai limiti dove è giunta".
Intanto non è senza peso la considerazione, che la storia dei nostri tempi palesa un indirizzo verso le costituzioni rappresentative quasi universale fra gli ingegni più elevati e gli Stati più civili; e però bene ebbe scritto il Balbo: "Il nome, il quale sarà dato nelle Storie Universali future alla rivoluzione francese, quando altre passioni, altri interessi saranno succeduti a quelli che pur rimangono pro e contro essa in Europa, sarà probabilmente quello di restaurazione del governo deliberativo o rappresentativo nel governo europeo".
La vocazione del secolo è la rappresentanza, è la metà cui tutti, quasi, gli Stati di Europa e d'America hanno mirato con fede sicura, con invitta costanza, con sagrifizi infiniti. Essa è la forma per cui le monarchie costituzionali e le repubbliche dell'età nostra si distinguono da molte altre, che figurano nella Storia dei tempi andati; merita il nome di aristocrazia secondo il valore etimologico, governo dei migliori, né risponderebbe al suo fine quando non raccogliesse i migliori e più degni.
Può attuarsi tanto nella monarchia che nella repubblica, e, purché stia a salvaguardia dei diritti dell'universale, partorisce ugualmente buoni frutti. Tanto coll'una che coll'altra forma si può ottenere sufficiente guarentigia di uguaglianza e di libertà per tutti: entrambe sono esteriorità, forma; nella quale parola è racchiusa la reale differenza. Se si sollevasse questione di preferanza la si riduce a questione di opportunità e fors'anco di necessità storica.
(Continua)
Pasquale Prunas Tola

 


CRONACA DI CITTÀ
Al nuovo Prefetto
(pagg. 92-93)
Onorevol signore Prefetto Maccaferri,
Permetta che un momento per l'abito l'afferri,
E, senza alcun preambolo, le dica in suon cortese
Quanto de' suoi colleghi omai dice il paese.
Sassari è diventata la tappa dei prefetti;
Vengono, e da ragioni di famiglia costretti,
Quattro e quattr'otto, piantano i cari amministrati
Che in essi avean riposto i sogni lor beati.
Viene un prefetto, e subito una gran circolare,
Ove si annunzia a tutti il dì del benestare
"Saran tolti gli abusi nei singoli consigli,
Né su la cosa pubblica pianteranno gli artigli
Mai più, mai più i famelici uccelli di rapina,
E non saran gli onesti esposti alla berlina.
Sarò imparzial con tutti; i destri ed i mancini
Non varranno a commovermi con simulati inchini.".
Passa un mese, tre, quattro e i municipi vanno
Più sempre a gambe in aria, sol dei balordi a danno.
I birbanti doventano... più di prima birbanti,
Ed in barba al prefetto riccattan da briganti.
Treman gli onesti, al povero mancan lavoro e pane
E le birbe s'infischiano di circolari vane.
Intanto da una parte già pencola il prefetto,
E i partiti si svegliano al suon del suo cornetto.
Ecco i nuovo accendersi la guerra fraticida,
E solo ha più ragione chi più degli altri grida.
Rapporti allor si scrivono di trame immaginate,
Di sognate congiure, d'infami mascherate...
Creda, signor prefetto, qui le rivoluzioni
Solo avvengon... nel ventre di poveri minchioni.
Da noi l'alta politica si fa sol nei giornali,
E la fan gli strozzini, armati... di cambiali.
Via dunque, di politica non s'occupi che il tanto;
Visiti i municipi e li rassetti alquanto.
La sicurezza pubblica diventi sicurezza
Dei veri galantuomini, e sia la lor salvezza.
Protegga l'istruzione; faccia che gl'insegnanti
Siano pagati a tempo da' comuni ignoranti.
Ci dia le strade, i ponti, le eterne ferrovie,
E sotto un altro cielo mandi le ascose arpie...
È questo il mio parere, l'opinion generale:
Se lei pensa tutt'altro, creda, non fia gran male
Che faccia la valigia e torni al continente,
Perché, come i colleghi, lei qui farà un bel niente.
A dire con franchezza mi move un sol pensiero:
Pietà del mio paese, che amo d'amor sincero.
Scusi se a chiare note, e così su due piedi
Le parlò l'umilissimo
suo servo
Schietto Redi

Anno II Num. 42 Sassari, 15 ottobre 1876

GRASSAZIONI IN SARDEGNA
(da pag. 97 a pag. 103)
Qual ci volete, siamo.
BROFFERIO, Scene Elleniche.
PREAMBOLO
Enrico: ho certezza che il giornalismo isolano, dietro le grassazioni consumatesi dianzi, nel breve volgere d'una settimana, avrà smesso il suo dogmatismo monotono, assordante sulla politica del tempo e sulle strampalataggini burocratiche nostre ed altrui, e volto saviamente l'occhio in casa propria per farne un pietoso inventario.
Lessi in Mario Pagano che i mali sono mali perché non si voglion conoscere e convertirli a fin di bene. A questo saggio responso dovrebbero por mente i cultori della pubblicità e in ispecial modo i Sardi. Il giornalismo d'oggidì mi par troppo esclusivo. Lo spirito ciarliero e di frivolo egoismo ond'è predominato, gli toglie energia ad inspirarsi nel passato ed a commoversi per l'avvenire. È colpevole illusione il credere che un'esistenza debba manifestarsi e svolgersi con rachitica lena entro gli angusti confini d'un presente che fugge.
Queste fatuità dell'intelletto sogliono cagionare delusioni spaventose. Io sento diversamente la missione della cronaca viva. Le notizie dell'oggi dovrebbero essere fruttevoli per le sorti del domani. Un diario, anziché palestra di scolastica e di argomentazioni cornute vestite alla bersagliera colla trombetta della polemica, esser dovrebbe sicuro, come l'antico colosso di Rodi, tenendo un piede sul passato e l'altro sull'avvenire, e costringendolo col senno e colla mano l'oceano che ci mugge sotto, a lambirci mansueto le calcagna. Fossi tonsurato, griderei ascetticamente: "Guai agli egoisti, perché preoccupati solo e resi attoniti dai turbini del presente, non volgono l'animo a risolvere i turbini più negri che si preparano pel futuro".
Giù dunque le battaglie epigrammatiche e degne di Giovedì grasso: non di rado simili vittorie sono più vergognose d'una sconfitta. Per Iddio, il Sardo Giornalismo, grave, sapiente, unanime, compatto, ha un passato da studiare, un presente da purgare, un avvenire da creare. In ciò solamente la sua ragione di vita pubblica, il suo programma di operosità morale e civile, la sua gloria.
Enrico, l'aggressione testé avvenuta di Sardi contro Sardi, raccontatami nelle sue particolarità da un compagno d'infanzia e di studi, ha risvegliato le mie attitudini poltrone, e te ne scrivo le impressioni, un po' fiscali, se vuoi, però in fondo in fondo non troppo strane, né troppo violente. Nemico delle analisi farisee e senza le passioni di un Regio Procuratore, ho gusto di torgli a prestito un momento la scranna e il suo bravo coltello per fare un pochino di notomia.
Perdonami e fammi perdonare.

DIAGNOSI STORICA
L'isolano ha non so che di caratteristicamente eccezionale nella sua natura. Il suo mare, la sua terra, la sua aria, il suo cielo: qualcosa di invisibile e d'ignorato che si agita e travaglia in quel mare, in quella terra, in quell'aria ed in quel cielo, par gli abbiano avvivate le sembianze e ringagliarditi gli spiriti. Lo scoglio, autonomo nell'onde, comunica al suo abitatore certa autonomia nel pensiero e nell'azione, da renderlo ardente, irrequieto, indomito, feroce.
Primo a sentire le ineffabili violenze della libertà, ei primo modula il grido della redenzione e balza audacemente sul campo. Prova: le isole dei due Continenti Americani, i classici scogli dell'Ionio e dell'Egeo, i Vespri del Procida, le stupende rivoluzioni del Paoli e del Sampiero, i non mai visti ardimenti d'Amsicora, di Gialeto e d'Angioi.
L'isolano, educato alla scuola della civiltà e del progresso con generosa sapienza in questa sua innata alterezza di leone, diventa cittadino ed eroe; negletto, oppresso e disprezzato, diventa selvaggio con appetiti di belva.
Come di ogni altro, così del Sardo.
Che vale alla Sardegna la sua storia d'immortali, se i suoi reggitori d'ogni tempo, leggendovi dentro, trassero inspirazione a renderla la più infelice delle maggiori sorelle Mediterranee?
È debolezza di giudizio stimar l'uomo naturalmente perverso: il male non è altro che uno storto indirizzo d'istinti. Tutto sta nello scegliere, opera sublime spettante ai soli Capi de' consorzi civili. Un popolo è buono o malvagio, secondo le provvidenza del sistema che lo regge.
Che si è fatto per tanti secoli della Sardegna?
Vennero i Romani, la fecero schiava, la posero a sacco, e passarono come orda di predoni, lasciando nel cuore degli oppressi lunga sete d'odio e di vendetta. Ogni raggio di antica civiltà fu diniegato alla diserta Barbagia, le cui sostanze aveano sbramato l'avarizia dei pubblicani e dei pretori.
Vennero gli Spagnuoli, e più vili dei Romani, oltre i saccheggi e gli eccidî, tentarono stemperare la sua vergine ansia di indipendenza nella più plebea servilità, camuffandola a castigliana, e ponendole ufficialmente sul labbro il loro idioma moresco. Miseria ed infamia fu per quattro secoli il retaggio delle povere ville infeudate alla mai sazia rapacità degli esattori e dei Viceré.
Vennero Galli e Tedeschi, e sbranarono e divisero, uguali per fame ai saraceni corsali, le poche spoglie scampate alla rabbia dei precedenti invasori. E passarono senza lasciarvi un solco di bene, raccomandando il loro nome soltanto alla maledizione delle esauste popolazioni.
Vennero i Subalpini, e coi subalpini l'Italia; e la Sardegna, quasi figlia restituita, dopo un eterno smarrimento, alle gioie de' suoi cari, appigliossi alle ginocchie della gran Madre piangendo e pregando.
I Barbaricini di Cicerone, la Barbagia di Dante, sono i Barbaricini e la Barbagia dell'oggi. Nulla di mutato, neppure il nome.
Un dì, dopo i poco gloriosi trionfi di Gracco e di Metello, il grido di Sardi venales rintronava pei mercati di Roma. Oggi, dopo lo splendido ricatto nazionale, mercé cui la Sarda famiglia avrebbe dovuto per ragione di giustizia e di martirio, purificarsi da quel battesimo infame, si sente in ogni punto della Penisola una sola parola che la ricordi: la parola dell'oltraggio e del vituperio antico.
Allora sardi da vendere, ora carnaccia da beccheria!
Il più vil lazzaro di Napoli, il più consumato brigante delle Calabrie nel vocabolo Sardignolo trova qualcosa di più abbietto, di più osceno del loro abbiettissimo ed oscenissimo costume.
Eppure, se la tirannide Borbonica poté ridurre i popoli delle due vecchie Sicilie allo stato miserabile in che scontrolli l'ultimo Vittorio, la tirannide antica e moderna in cento conquistatori non ebbe possa a spingere la Sardegna a tanta prostituzione!
E s'anche i figli di questa tapina fossero peggiori, di chi la colpa?

CAUSE ED EFFETTI
Un popolo, guasto da secolare servaggio, ha bisogno d'un indefesso lavoro di secoli per restituirsi all'altezza dei suoi civili destini. Il discendere è meno arduo del salire.
Non s'imprechi al Siculo, al Calabro, all'Abruzzese, al Napoletano, al Romagnolo se procedono a lenti passi lungo il cammino delle migliorie sociali. È per loro questione di tempo, di molto tempo, perché possano lavarsi anima e faccia dalle polluzioni di tanti pontefici e re.
Non così per la Sardegna.
Al suo possibile perfezionamento quasi ogni ragione di tempo sparisce. Il dispotismo laicale e religioso la immiserì, la oppresse, la conculcò senza abbrutirla. Fece sperpero dei suoi tesori, aprì solchi infami sulle sue membra, ma non poté rapirle la selvaggia verginità del suo carattere.
Un po' più di senno e un po' meno di avarizia nei suoi governanti sarebbe sufficiente a far dei Sardi una schiera di forti, di industri e di onesti cittadini.
Il numero dei delitti non cresce o si attenua in proporzione della maggiore o minor malvagità dell'individuo: il delitto è una creatura conseguente del bisogno; bisogno non materiale soltanto, ma eziandio morale.
Volsero appena tre o quattro lustri dal giorno, in che le Effemeridi sarde non registravano mai pur un caso di aggressione e di assassinio per avidità di bottino. Se alcune popolazioni furono contristate dal sangue, ciò fu non per altro che per istinto implacabile di vendetta.
Eppure, pensando a quell'età, prodiga di gogne, di berline e di torture, reca meraviglia come i Sardi, d'indole così ardente, abbiano potuto attraversarla senza cercare un ricatto nella viltà dei delitti; mentre oggi, in cui si innalzano inni alla civiltà e al progresso dei tempi, quegli stessi Sardi, raccolti in masnada, predano ed assassinano sulla pubblica strada.
La storia dei popoli, alcune fiate, ci porge di simili anormalità. Sarebbero per avventura turpi figliazioni di novello dispotismo?
Molteplici son le Cause che provocarono quest'improvviso discendere, quest'ignobile precipitarsi dell'isolano, questa sua audacia della colpa, questo suo desiderio d'infamia.
Su tutte, la negligenza del Governo.
È fresca la memoria tra noi della Commissione Parlamentare d'Inchiesta, speditaci per studiare i bisogni della Sardegna. Era speranza comune che quella volta la montagna infantata partorisse un mastodonte. Disgrazia! Ci siamo trovati innanzi alla perpetua favola del topo. Il topo fu un libriccino del Mantegazza, ricco di verità e di menzogne.
È recentissimo il tentativo di colonizzare la parte nordica dell'isola. Si formarono Comitati, si elessero consiglieri e Direttori, si stanziarono capitali, si mandarono operai; e, in men ch'io nol dico, i Comitati furono disciolti, i Consiglieri delusi, i capitali divorati, gli operai dispersi.
A Montecitorio,
Ove il destin de' popoli si cova,
i Parlamentari Sardi gridano incessantemente, ora col tuono della rabbia, ora col singulto dell'epicedio, per costringere finalmente il Governo a volgere uno sguardo sulle Sarde necessità.
Pietoso ed inutile conato! Il Governo, mentre si dimostra provvido ed accorto per le provincie peninsulari, quando si tratta di migliorare la Sardegna, chiede consigli a quel tal Guido di Montefeltro, il quale gli risponde, come a papa Bunifacio:
Lunga promessa con attender corto.
Quanti burocratici d'oggidì hanno l'anima di quel dannato Dantesco!
Da quest'aperta negligenza deriva il decadimento attuale dell'Isola nostra.
Con una superficie di ben 24250 chilometri quadrati, i suoi abitanti soverchiano di poco il mezzo milione. Il suo terreno colto è quasi nullo, relativamente alla immensità delle sue fortissime selve. Arrogi una moltitudine errante di pastori che riconoscono per casa solo il burrone della montagna; arrogi le reclute militari e l'esercito permanente, che impoveriscono di braccia operose, la già troppo scarsa popolazione; arrogi finalmente gli insopportabili balzelli dell'Erario, delle Provincie e dei Comuni; e poi si pretenda che la Sardegna non esageri i suoi mali col sussidio dei delitti in questi ultimi anni di grazia.
La pastorizia nomade, lontana da ogni civile consorzio, avvezza gli animi alla selvaggia natura del luogo che li ricetta, nutrendoli di rapina e di sangue.
La leva intisichisce le forze vive dei giovani operai, i quali vengono restituiti alle deserte famiglie dopo una lunga e penosa fossilizzazione nelle caserme. Spente le attitudini buone dello spirito, le braccia si rifiutavano ai lavori d'un tempo, e quei giovani nati per l'onesto guadagno, non pensano ad altro che a dormicchiare vergognosamente di giorno, e a correre la notte d'agguato in agguato, attendendo l'occasione d'un assalto e d'un saccheggio. Allora pongono in mostra il progresso delle manovre militari colle conversioni a destr e a sinistr, cogli Avant, Marche, Ritirat...!
I balzelli!... Oh, i balzelli hanno spesso la virtù di Saturno, che, secondo le mitiche tradizioni, divorava i propri figli. Le imposte con savia giustizia distribuite valgono potentemente ad accrescere le condizioni economiche d'un popolo; distribuite colla logica del lupo, valgono a precipitarle in abisso di perdizione. Vera carità fratesca quella del nostro governo! Toglie e non dona, sottrae e non sostituisce, vuota e non riempie. Peccato che forse ignori le delizie del beato Vespasiano imperatore! Altrimenti sarebbe un fatto compiuto la imposta sui tegoli e sull'orina. Così i Sardi da semibarbari diventerebbero addirittura macachi.
Non basta la negligenza; v'ha di peggio: il Disprezzo.
Da qualche anno la Sardegna non è forse considerata come una Caienna francese, una Siberia russa? Le immondezze viventi di tutta la Penisola non colano tra noi? Le nostre città, le nostre ville non danno ricetto a centinaia e centinaia di Coatti? E questi esseri, cresciuti per la colpa, alimentati dalla colpa, non distruggono col contatto le nostre inclinazioni generose, rendendoci complici delle loro sozzure? Prima dei domicilii coatti, la depredazione pubblica e sfacciata era forse conosciuta in Sardegna?
Andando di questo passo, non dobbiamo noi desiderare la Signoria di Castiglia e d'Aragona, come Napoli nella sua parte corrotta desidera il Borbone?!

CONCLUSIONE
La miseria fu e sarà sempre una cattiva consigliera. Rimossa la Causa non avrebbero più ragione di esistere gli effetti. Per far sparire la miseria è d'uopo provvedere alle cause supreme che la generarono.
Non più negligenza nel Governo; e in cotal guisa aumento di popolazione sufficiente a così cospicua estensione territoriale. L'America è troppo lontana per esercitare una fatale attrazione sugli emigranti italiani. Studio quindi nella mente dei nostri reggitori per convincere quelle profughe famiglie a difondere i benefizi del lavoro in terra più vicina: la Sardegna.
Non più negligenza nel Governo e perciò abbattute le immense foreste che ci cuoprono d'un mantello d'insidie, e diffusa la cultura dappertutto, sul piano e sui monti, circoscrivendo la pastorizia e dando leggi di stabile dimora. Per rendere meno sensibili i miasmi, più salubre l'aria, non dobbiamo sacrificarci all'assassino ed al ladro.
Non più negligenza nel Governo; e quindi ridotto a confini di equità e di giustizia l'annuo tributo militare, e migliorata la disciplina, posciaché la piaga degli eserciti stazionarî minaccia di perpetuare i suoi dolori. Così il giovine sardo, restituito alle gioie del lavoro in mezzo a cui nacque, non si dimostrerà automatico dormiglione di giorno, e predone assassino di notte.
Non più negligenza né disprezzo: sollecitudine di giustizia nei miglioramenti pubblici, alacre e generosa provvidenza nel por riparo ai pubblici bisogni. E lungi, lungi una volta da noi la miserabile comunanza dei coatti!
Allora si vedrebbe la Sardegna ritornar volonterosa agli antichi suoi giorni di prosperità e di grandezza; e l'Italia, non più matrigna ma madre, correre a lei come agli incanti di un belvedere, e compiacersi dell'opera sua.
Potendo farne un paradiso, perché permettere che diventi un inferno?
Sassari, 10 ottobre 1876.
Giovanni Baraca

 


NOTE ROMANE
(pagg. 107-108)
6 ottobre 1876
Il 2 ottobre, anniversario del plebiscito romano, fu solennizzato, anche questa volta, colla pomposa cerimonia della distribuzione dei premi al Campidoglio sulle ore 3 pom. La classica piazza era parata a festa nel più splendido e decoroso modo: bandiere ed arazzi da ogni parte e per tutto un affollarsi di popolo, una gioia indescrivibile. Anche Marco Aurelio, sul suo cavallo di bronzo, smessa la sua solita gravità, pareva, quasi animato, ricordare i suoi bei tempi... e sorridere con compiacenza alla palese soddisfazione dei babbi, onorati nei propri figli, e de' maestri, seguiti dagli scolari, ben felici d'avere questo compenso alle fatiche sostenute!
Molti invitati (fra i quali l'umile sottoscritto, grazie alla cortesia di quel compito gentiluomo che è l'onorevole Sindaco Venturi), e molte Signore, presero parte alla funzione: v'intervennero poi il Sindaco sullodato, il Prefetto, il Ministro della Pubblica Istruzione, gli Assessori Municipali, gli Ispettori ed Ispettrici delle scuole, non che la Deputazione Provinciale.
Le guardie municipali, ed i vigili, in grande tenuta, formavano ala di onore, e più d'un concerto rallegrava la festa con scelte melodie. Fu letto, prima della distribuzione, un discorso da uno degli assessori, e ho appreso dal medesimo, che, nell'anno decorso, molti progressi si sono ottenuti nella pubblica istruzione. Va benissimo... ed io ne sono infinitamente lieto per l'avvenire e per la grandezza di Roma!
***
Un atto di sovrana clemenza ha poi coronato solennemente questo giorno memorabile: il decreto d'amnistia, che la Gazzetta Ufficiale del giorno 3 ha pubblicato. Grande e sublime questo diritto di grazia, bella cotesta attribuzione della sovranità, quando, partecipando alle gioie patriottiche della nazione, e pronunciandosi in siffatti momenti, esprime un sentimento gentile, e conferma il vincolo di fede che stringe il popolo al suo Re.
G. Musio


Anno II Num. 43 Sassari, 22 ottobre 1876

DEL GOVERNO RAPPRESENTATIVO
(da pag. 119 a pag. 121)
(Continuazione)
Non posso tralasciare di avvertire come, nella povertà dei miei criterii, ritenga la repubblica accenni ad una condizione di cose, che meglio risponde al principio astratto, e specialmente dal canto di chi è governato, perocché la repubblica per poter esistere grande e florida abbisogni di cives e cives nel più nobile ed alto significato.
Se le istituzioni libere suscitano nel popolo una energia che non aveva prima, se gli danno una nuova potenza per riuscire ai suoi fini, occorre pur anche che queste stesse istituzioni gli diano una rettitudine rara: se sprono un campo più largo, se danno un nuovo impulso alle facoltà inferiori, è pure mestieri che esse rinvigoriscano eziandio le facoltà più elevate. Se le tentazioni si fanno più frequenti, l'animo deve rinvigorirsi alla resistenza. Quanto si allarga il campo degli appetiti e delle passioni, si deve altrettanto rinvigorire l'autorità, confermare la potenza della ragione e della coscienza. Importa che quanto si rinvigorisce la forza impulsiva, altrettanto si accresca la forza che dirige la volontà. Le istituzioni libere mettono innanzi delle forze nuove e straordinarie: si deve dunque esplicare un nuovo vigore per frenarle e dirigerle; ove ciò non avvenisse , si muterebbero in pericolo permanente gli istrumenti ordinati a nostro benefizio .
Quale ardito riformatore suggerirebbe alla Turchia un Presidente? I Cafri e quasi tutte le tribù selvaggie hanno un reggimento che può dirsi popolare. Non perciò si sollevano dalla loro barbarie; niuno può credere che quella costituzione si vantaggi su quella che fosse meno popolare, ma che li costringesse a vivere in pace. Colle debite restrizioni è inoppugnabile la massima: Ogni popolo s'ha il governo che si merita. Del resto, il divario fra l'una e l'altra forma di reggimento politico è sì piccolo, che statisti eminenti non si tennero dal confonderle pur nel nome.
La questione principale tra la monarchia limitata e la repubblica è questa: se sia più opportuno designare il capo dello Stato per elezione o per successione; se la sua dignità debba durare a vita o terminare dopo un certo numero d'anni. A tutti gli altri vantaggi delle monarchie limitate possono partecipare le repubbliche, e viceversa. La differenza effettiva consiste nel modo di conferire la suprema dignità dello Stato . Tolta la eredità del capo del potere esecutivo, libertà e garanzia di libertà, uguaglianza, indipendenza del potere giudiziario, tutte le altre parti della costituzione, tutte le virtù del governo rappresentativo, tutto è, e può essere pari nell'una e nell'altra forma .
La questione di forma per me è affatto secondaria; forse non potrò alcuna volta dichiararmi pienamente soddisfatto, non mi terrò però dall'applaudire quando mi verrà fatto poter dire col Romagnosi, nel caso concreto: l'opera del governo riducesi ad una grande tutela e ad una grande educazione.
La monarchia liberale e la repubblica sono due mezzi diversi per ottenere uno stesso fine: la libertà. Non è detto tuttavia che ogni repubblica sia liberale. Nessun liberale ragionevole si farà nemico alla monarchia liberale per avere repubblica, od alla repubblica liberale per avere monarchia, dove sotto una di queste forme sia riconosciuta la libertà. Del resto un liberale ragionevole che preferisca la monarchia alla repubblica preferirà una repubblica liberale ad una monarchia illiberale .
Noi italiani possiamo, colla storia nostra, dimostrare all'evidenza, meglio di qualunque popolo, come né la indipendenza, né l'unità, né la libertà sieno prezzo di un nome: così alla vanità di una parola non si sacrificasse assai spesso la realtà delle cose! E nessuno meglio di noi può più direttamente insegnare ai popoli come il governo rappresentativo sia il più adatto ad operare miracoli di redenzione e di eroismo facendo cospirare ad uno stesso fine tutte le forze vive della nazione, conciliando la libertà di ciascuno con quella di tutti con mirabile accordo.
Dalla tribuna del Parlamento Subalpino si iniziarono le nostre prime vittorie; e il nostro paese, detto per ischerno, non inulto, terra dei morti, espressione geografica, fu giudicato capace di tramutarsi in nazione libera e forte quando il mondo civile, ammaestrato dall'opinione pubblica che di là emanava, si fece accorta che noi avevamo e volontà e senno sufficienti a governarci da soli ed a costituire libera e indipendente la patria. A nulla avrebbe approdato e le note diplomatiche e gli eserciti, ove l'Europa, edotta ormai della santità dei nostri propositi virilmente ma con dignità manifestati e proclamati, non avesse plaudito al nobile ardimento di Cavour, l'uomo del sottile accorgimento, al Congresso di Parigi. L'efficacia della sana e prudente parola è tale quando, smesso il fare o petulante e chiassoso, o tenebroso e minacciatore della demagogia, s'argomenta persuadere con la energia e la evidenza della ragione del diritto. Le congiure misteriose dei cospiratori io non so e non dico quanto fruttassero. Giovarono alla causa nazionale tutti i moti insurrezionali d'Italia? Servirono forse a tener saldo il sentimento della dignità, il fervido desiderio della riscossa? Servirono di stimolo ai tardi governi?...
Ammiro e venero nella Storia certe immacolate figure anche nei sublimi traviamenti, non li applaudo, e benedico alla maestà vereconda del loro nome quando la magnanimità li sospinse al compianto delle vittime di sforzi inconsulti ed inani .
Codeste però sono inutili querimonie. L'Italia è fatta ormai; fatta col senno e patriottismo dei reggitori, coll'intelletto e coll'amore di tutti gli Italiani.
Tutto ci giovò, anche la fortuna. Ma la fortuna è anch'essa una dea che ha nel mondo il suo culto: e non è certamente virtù volgare fra i popoli, quella di afferrarne i capelli, che così di rado ci offre. Siamo grati allo scrittore d'oltr'alpe che ci diceva figli di Fabio il Temporeggiatore; ma saremmo ben più orgogliosi, se con esempii tratti ancora dalla nostra storia, ci si dicesse discendenti di Scipione. Qualunque ei sia il modo, ché esso pure è onesto, noi la compiemmo l'impresa della nostra indipendenza e della nostra libertà e, sradicati precipitarono ai nostri piedi i due grandi alberi, che ci attraversavano da secoli il cammino: l'albero imperiale, che ci copriva colla sua ombra avvelenata e isterilitrice, e l'albero papale, che produceva i frutti maledetti della discordia civile, e delle intervenzioni straniere. E la santa impresa fu consacrata dal martirio.
Sarebbe stolto intuonare inni di gioia, ma risibile ancora sarebbe un'elegia.
Si corre sempre la via indefinita del progresso, né mai si cesserà. È destino degli umani camminare, sempre camminare, perocché sia incancellabile dal suo vessillo la simbolica parola: Excelsior.
Alessandro il Macedone pensando le vittorie di Filippo, fra le lagrime esclamava: Mio padre non mi lascerà più allori da mietere. Ma Alessandro faceva dimenticar Filippo e ne ombreggiò la fama nell'eterno libro dell'immortalità!
Pasquale Prunas Tola
Anno II Num. 44 Sassari, 29 ottobre 1876


ELETTORI ED ELEGGIBILI
(da pag. 129 a pag. 133)
E tutto si riduce a parer mio,
Come disse un poeta di Mugello,
A dire: Esei di lì, ci vo' star io!
GIUSTI. ‒ Sonetti
PROLEGOMENO
Un sistema politico qualunque assume le metamorfosi d'una sfinge, secondo le mille faccie dei paraboloni d'oggidì. Chi aspira a renderlo monarchico, chi si travaglia raffazzonarlo a repubblicano. Il lavoro trae il suo carattere dal battesimo di ciascuno: guelfo o ghibellino, piagnone o pallesco, bianco o nero, cattolico o protestante, radicale o innovatore, schiavo per natura o libero per vizio.
Per me si confonde nel mare magnum degli eccessi tanto il calcolo dell'ambizioso, come il sussulto del visionario. Bruto che uccide, Cesare che muore, ebbero comune l'abisso, siccome comune la esagerazione dei sensi: il Senato e l'assassinio per l'uno, Filippi e il suicidio per l'altro. Fanatici entrambi perché trassero entrambi la reina delle genti alle viltà mostruose dell'impero: Cesare col prepotente spasimo della signoria, Bruto cogli istinti idolatri della libertà.
È l'eterno paradosso delle nazioni: cercare il meglio nella lotta disordinata del peggio, il riacquisto delle perdute franchigie coi baccanali della licenza, la meta del riposo attraverso la notte di una voragine.
Il bene, come il male, ha le sue sirti, i suoi abissi, i suoi mostri. Il bene è la negazione dell'iperbole, il male è l'iperbole del bene: nelle sproporzioni l'eccesso, le guerre vergognose, il caos.
Chi batterà le palme a Cromwell che spinge i popoli alla rivolta per farsene indi tiranno? Chi loderà Ravaillac che, gravido di religione, spegne Enrico di Francia, per più e più rincrudire i furori delle proteste? Mirabeau che slancia epigrammi dalle tribune della Costituente, Marat che briaco di vino e di licenza sogghigna innalzi al palco delle esecuzioni, Bonaparte che mercanteggia la più veneranda delle repubbliche italiane, Vilckes Booth che assassina il presidente dell'Unione Americana, non rappresentano altro nella storia civile delle nazioni che la prosopopea mostruosa dell'eccesso. Satana divenne demonio perché soverchiò i confini dell'angelo.
La Repubblica platonica che volatilizzò il cervello di tanti scolastici medio-evali non dee sul campo dei risultati tenersi in miglior conto del codice di Dracone, che quasi distrusse le greche autonomie colle crudeltà più raffinate. La Monarchia di Dante, precursore delle sublimi utopie del Balbo e del Gioberti, ha nulla di praticamente possibile che si disformi dal Principe di Machiavelli, inspiratore dei Mustafà, delle Catterine Medicee e de' papa Clementi.
Un reggimento qualunque, monarchico o repubblicano, è più vicino alla perfezione, quanto è più lontano dagli estremi. Nel giusto mezzo sta solo la vita serena e virtuosa, la civile e morale operosità degli umani. Abbandonate il centro e correte ai poli: troverete sull'uno Robespierre che caccia nel sangue la corona di un re, sull'altro Napoleone che palleggia superbo, sfidando le moltitudini, uno scettro d'imperatore.
A conti fatti, con buon coltrone di istinto e ragione, ogni governo, che sfugga l'esagerato, il deforme, così nel troppo facile come nel troppo rigido costume, riesce accettevole e ricco di prosperità sociale.
Dunque lasciamo agli Stati Uniti dell'America, e ai Cantoni della Svizzera le loro libere e generose istituzioni; lasciamo ai Francesi e agli Spagnuoli, parodia di demoni in berretto frigio, le loro velleità licenziose e null'affatto repubblicane; e contentiamoci, finché sarà possibile, del nostro sistema monarchico-rappresentativo.
Solo non dovremmo badare alla maschera, ma a ciò che sta sotto. O sudditi d'un sovrano costituzionale, o liberi cittadini del più liberale degli stati, i nostri sforzi dovrebbero esser diretti ad un solo fine: il miglioramento morale ed economico dell'individuo, della famiglia, della società.

COMMEDIA
Il nostro Siotto Pintor, con quella originalità di concetti e di stile che lo rendono insigne, non ha guari, in un giornale subalpino, fra le tante, stabiliva la tesi di un grande giudizio. Egli stupiva siccome i migliori drammaturghi d'oggidì ricorressero a sterili rapsodie di Grecia e di Roma per raffazzonare un comico lavoro, mentre i pettegolezzi elettorali nelle presenti emergenze sono così fecondi di plastica teatrale.
Chi non divide la meraviglia di quell'arguto scrittore? Che altro infatti rappresentano i numerosi collegi elettorali in Italia se non altrettante arene di gladiatori più o meno cupidi, più o meno venali, più o meno ridicoli? La scaltra eloquenza degli ambiziosi, l'ingenua povertà degli illusi, la piacenteria ruffiana degli accattoni, e, quasi mezzo termine rettorico, la maggiore o minore eccitabilità del carattere politico, hanno convertito le operazioni elettorali in veri esercizi d'istrioni. Lo spirito de più non è di erigere, ma di demolire.
Ogni Comune, chiuso nell'egoismo del proprio territorio, vorrebbe che l'Onorevole cui concesse preferenza di suffragi, entrando in Montecitorio, rinnegasse il suo battesimo d'italiano, e spezzasse mille lancie in omaggio di Ser Ficio e Ser Martino, corifei regionali.
Disgraziata corruzione che non lascia distinguere l'uno dal molteplice, l'individuo dalla società! Si corre alla sala delle elezioni come ad un ritrovo di Borsa, per studiarvi i rialzi e i ribassi. Ogni conventicola ha il suo numero di crediti bancarî, tanti, quante le schede degli addepti. L'elettore assume la grifagna natura dello speculatore: chi per vano solletico d'una delle solite croci, chi per vecchio abito di servilità, chi per malconcetto stimolo d'innovazione, chi per avidità di guadagni e di cariche, chi per simpatia, chi per odio, chi per orgoglio, chi per fame.
Si costituiscono assemblee, si tengono sedute, si parla e si cicaleccia, si belano panegirici e si urlano filippiche, si oppongono candidati, si crea e si distrugge, con una facilità irrequieta, con una enfasi vertiginosa che confina col delirio.
Il giornalismo smette per poco il suo monotono incesso, e si rizza impaziente di ciarle. O fulmina un anatema, o regala un'apoteosi, secondo le parvenze del neofito politico, secondo gli ammiccamenti degli antesignani protettori, secondo gli hosanna dello sciame pedisequo.
Tutti vanno e vengono, girano e rigirano, si attraggono e si respingono, si moltiplicano e si confondono come atomi in fil di sole. Tutti fan la scimia a Cicerone e a Ortensio: persuadono e convincono, ora cogli abbagliamenti dei ciondoli e dei posti, ora colla logica del prezzo sul gran mercato delle coscienze. Comprano dopo essersi lasciati comprare.
Oh! Le belle scenette degne della più caratteristica della baruffe di Chioggia!
E intanto l'interesse universale è paralizzato dall'esclusivismo, dall'avarizia privata, dalla poca verecondia dei principii. Gli eletti seguono il turbine che li solleva agli onori parlamentari: ligi al principio, diventano anch'essi esclusivi, avari, inverecondi.
Allora succede un'altalena di timori e di speranze, di miscredenza e di fede. Se uno sorge a protestare, altri cento gli tengono bordone: il deputato ha tradito l'aspettazione del Collegio; il deputato dormicchia sullo scanno parlamentare; il deputato promise per non mantenere, lusingò per tradire; il deputato ha cercato di esaltare sé stesso, gettando l'oblivione sui sogni dorati de' capisetta, sulle fameliche ansietà delle ciurme, sulle magiche riflessioni del colore, sulle scoperte piaghe dei Comuni, dei Circondari, delle Provincie. Il deputato è uno spergiuro, un rinnegato, dev'essere deposto, anathema sit!
Volpi cangianti, lupi ululanti, pecori tosati od intonsi tornano daccapo colla solita sicumera. E quindi nuove assemblee, nuovi sproloqui, nuova babilonia di giornali, nuove reclute d'elettori, nuove gestazioni d'eleggibili.
L'asta pubblica è aperta al miglior offerente: avanti!
Avanti voi, nani fra giganti e giganti fra nani, che fiutate l'aura popolare per intristirvi i polmoni; avanti voi, che, rossi quest'oggi e neri domani, addimostrate alla vostra terra natale l'assoluta negazione di ogni principio; avanti voi, che, nati schiavi e riconfermati schiavi, sciorinate il vostro programma assisi innanzi ad un banchetto, tra un intingolo leccardo e un bicchiere di Marsala: avanti tutti, negoziatori di merci avariate, sensali di bancarotte!
L'asta pubblica è aperta, al miglior offerente: chi compra?
E così la Commedia si ripete almeno una volta l'anno, pietosa distrazione contro le crescenti miserie del tempo.
Da tutto ciò gli scandali, gli intrighi e le persecuzioni; da ciò lo smarrimento d'ogni civile contegno, le simonie politiche, le scurrilità plautine; da ciò il trionfo degli arruffapopoli e la disperazione degli onesti.
Con tanta corruzione d'elettori, con tanto turbinio d'eleggibili, come potrà l'Italia aspirare alla sua morale, civile e politica redenzione?

DEUS EX MACHINA
A porre in salvo la società da simili lordure, sarebbe mestieri di una generale abluzione: comprendere e volere.
Comprendere che gl'interessi della patria debbono porsi innanzi alle bramose sordidezze dei privati, e volere che in omaggio alla prosperità comune taccia l'egoismo dei pochi.
Comprendere che solo dagli elettori dipende la scelta de' deputati e la loro operosità avvenire, e volere che la dignità regionale e nazionale sia generosamente rappresentata.
Comprendere che dalla zuffa delle passioni non possono emergere che miserabili mostruosità, e volere che l'intelletto ed il cuore si rendano veraci interpreti del giusto e dell'onesto.
Smettano una volta i comizî elettorali i vacui cicalecci, lo spirito di fazione, la sete delle rappresaglie, la vanagloria di farsi visibili, e unanimi e coraggiosi si avanzino sul cammino delle migliorie sociali.
Nessuno eserciti pressione sugli altri, né coll'artifizio della parola, né col solletico della borsa. La venalità degli elettori suscita il desio della venalità nei deputati.
Pensiamo che le trepide arrendevolezze degli illusi, i bollori disordinati degli ambiziosi, la disparità del poco e del soverchio, l'indolenza dell'alto, il ronzante brulichio del basso, e le impressioni ottiche dei colori di una bandiera, non valgono ad altro che ad arrestare il sacro lavoro dell'umano progresso. I conflitti dei principii e dei partiti conducono alla confusione come le voci di un popolo centilingue.
Guai! Dalla confusione nasce Babele e da questa Nembrotte, il cacciatore delle genti!
Sorso, 22 ottobre 1876
Giovanni Baraca

Anno II Num. 46 Sassari, 12 novembre 1876

UN PRANZO POLITICO
LETTERA APERTA D'UN CUOCO DI CIRCOSTANZA
(Da pag. 170 a pag. 172)
(RITARDATA)
Lettori e lettrici della Stella,
Ho l'onore di parteciparvi che il nostro simpatico Direttore, nell'interesse esclusivo dei suoi abbonati, ed in surrogazione ai soliti premii, mi ordinò di ammanir loro una volta al mese un pranzetto alla casalinga. Lusingato di questo improvviso riconoscimento della mia abilità culinaria, che non avea potuto esplicarsi per disgraziata mancanza di consumatori, mi diedi a manipolar commestibili e droghe collo slancio d'un drammaturgo novellino che si presenta per la prima volta al Cav. Bellotti-Bon, o al non meno Cavaliere Alamanno con quel che segue.
Si mangia a quattro ganasce dall'Alpi al Lilibeo (come vedete vi do un antipasto di stile classico). I congressi più o meno scientifici terminano con un pranzo: i Sindaci ed i Prefetti offrono una colazione ai Ministri, escluso il Beato Amedeo Melegari; gli elettori confortano con una bistecca politica i rappresentanti della nazione, esclusi i Sardi. Non è dunque da farsi le meraviglie se il nostro egregio direttore, per tenersi all'altezza della situazione, v'invita di tanto in tanto a far un brindisi per la conservazione etc. etc., pel progresso etc. etc., per l'ingrandimento etc. etc. e per la diminuzione etc. etc. Così fra pochi mesi saranno risolte anche in Sardegna tutte le questioni più o meno pendenti.
Con questa dichiarazione, che mi sgrava lo stomaco, passo a darvi il menu del pranzo, ossia la distinta, secondo il nuovissimo stile di Stradella.
Eccovi qui un prezioso brodo consommé concentrato nel vuoto, che contiene un triplo estratto del Diritto, del Bersagliere, della Lombardia, della Ragione, del Pungolo di Napoli, del Roma ed altri ruminanti del genere Riparatore, innaffiato con forte dose di vino rosso di Stradella. Si considera come un surrogato della Revalenta arabica e della Farina Messicana. E mi assicurano che alcune delle Cliniche più rinomate, avendo scoperto in questo corroborante delle qualità farmaceutiche molto pronunciate, la preferiscano alla tela all'arnica Galleani, alla pomata emetica ed alla carta senapata Pivetta. Chi desidera essere riparato e riacquistar le forze pel Congresso ginnastico dell'arena di Montecitorio, vedrà gli effetti portentosi del mio cordiale.
Dopo ciò, potrete masticare con gravità e lentamente un lesso magro ricavato dalle costole dell'Opinione, dell'Italie, della Libertà, del Piccolo di Napoli, della Perseveranza. È una famiglia di Pachidermi del genere Opposizione. A prima giunta scricchiolerà sotto i denti pei filamenti cartilaginosi della Gazzetta d'Italia. A poco a poco però potrete inghiottirlo condito com'è colla senapa del Fanfulla. Vi raccomando a ravvivar le forze dello stomaco indebolito dal penoso lavoro, con abbondanti libazioni di vinello di Cossato. Vino furbo, che con un sapore leggero e scialbo nasconde la potenza alcoolina dei suoi sedici anni di data.
Il terzo piatto sarà di funghi in fricassea con salsa piccante di polemica elettorale. Secondo la formula cabalistica ereditata da mio Nonno, i funghi dovrebbero essere soltanto cinquecento otto. Ma al mercato ne trovai tre volte tanto. È vero che tolti i bacati e i velenosi, il numero sarà ridotto al puro necessario. La disgrazia sta che io non posso distinguere i buoni dai cattivi. Perciò ve li preparai tutti, e voi con una coscienziosa masticazione potrete conoscerne i mangerecci. Nel caso che abbiate paura di veleno, ponete la cazzeruola al fuoco e gettatevi dentro una chiave col naso d'acciaio. Quel che mi preoccupa è la salsa composta d'una birra che ha preso il forte perché conservata in una cantina che affittai dalla società molto anonima e poco produttiva delle bizze partigiane. Ve ne tempererò la disgustosa impressione con alcuni fiaschi di schietto Chianto venuto fresco fresco dalle cantine della Nazione.
Avrei voluto, tanto per variare, darvi qualche manicaretto d'estera provenienza. Ma il mercato pel momento difetta del genere, e non si può fare la benché minima provvista, ancorché si volesse spendere un occhio del capo. In confidenza vi dico, tanto per farvi venire l'acquolina in bocca, che fra poco potrò presentarvi un fritto che sarà la più ghiotta cosa del mondo. E perché non mi crediate un millantatore, ve ne faccio l'anticipata descrizione.
I pesci da friggere forono tutti presi alla rete delle acque del Bosforo ed in prossimità al celebre Corno d'oro. Già da qualche tempo si avvoltolano e nuotano nel grasso d'orso di Russia venuto al massimo grado d'ebullizione. Il fuoco è attizzato da guatteri Serbi, Erzegovesi, Bosniaci, Montenegrini, Bulgari. Volea ficcarci il naso anche un guattero Greco, ma pare che si debba accapigliare cogli altri. Due miei confratelli, uno Tedesco e l'altro Magiaro tengono d'occhio ai progressi della cottura: anzi il Magiaro di tanto in tanto si diverte a mandar a monte ogni cosa, ma i suoi tentativi sono frenati dalla paura che una parte del grasso d'orso, troppo riscaldata, gli salti addosso e gli faccia far la fine di S. Lorenzo. Fortuna che ha sempre sottomano una balla di cotone inglese per evitare le scottature. La schiena del pesce prende già un bel colore dorato ed io spero di potervelo servir caldo caldo da qui a qualche mese, accompagnato da molte bottiglie di vini di varie nazionalità, escluso forse il vino delli castelli Romani, e con certezza lo Sciampagna che dal 1870 ha smesso d'uscire da casa. Su questo proposito non sono molto sicuro, ma ne domanderò al Cantiniere della Consulta che se ne intende.
E così sono costretto a porre termine al mio programma infarcito di pietanze fatte in casa, il che se è da buon massaio, non è certo da cuoco che si rispetta e che vuole una scelta clientela. Qui dovrei farvi un lunghissimo discorso storico-filosofico-statistico, sul commercio, sul consumo interno ed internazionale, sull'importazione ed esportazione, cose tutte che vi risparmio perché non le capireste e... non le capirei neppur io.
Adanque accontentatevi, e cominciate il pasto. Le portate sono poche ma succulente. Se vi rimane ancora appetito, conservatelo per quest'altro mese, e vi giuro che vi farò tutti rimaner soddisfatti.
E con questa fiducia attesto a tutti la mia perfetta osservanza (stile diplomatico).
Roma, dalla trattoria di Sor Cencio
In via Magnanapoli, 31 ottobre 1876.
Devotissimo
Brillart-Savarin


Anno II Num. 47 Sassari, 19 novembre 1876

NOTE ROMANE
(da pag. 185 a pag. 188)
3 novembre
Che miseria!
Procurate un poco, se vi riesce, di ripescare un ninnolo di vita, di varietà, di ricreazione in questo mare magnum della politica!
Che miseria per un modesto corrispondente della Capitale stancare sempre allo stesso modo i lettori d'un simpatico giornaletto, che vede la luce solo alla festa, e si vive nella più serena sfera d'un nobile aringo letterario, che non vuole né sa impicciarsi di coteste bazzecole, col volersi rendere informati della situazione politica del momento!
Peggio ancora quando questa situazione all'estero, rassembra un labirinto ‒ passatemi il classicismo della frase ‒ dove né il filo di Arianna e la lanterna di Diogene fanno alcuna buona prova.
E dire che da più settimane, anzi da più mesi siamo sempre allo stesso punto: al principio della fine, o alla fine del principio... Aprite i giornali ‒ quelli che si dicono seri, e in realtà, ne convengo, sono d'una serietà spaventevole ‒ e in prima pagina, dopo l'articolo senza fondo, dopo quel po' di zuccherino di cronaca elettorale, trovate, cosa vecchia rimpastata sempre a nuovo, quella eterna benedetta question d'Oriente... dove per contrapposto è una tenebra d'occidente tenebrosissima.
***
Ma leggi e rileggi, fruga e rifruga... chi ci capisce è bravo. Ecco qua: parrebbe solo semplice questione di fissarsi un termine più o meno lungo per l'armistizio. L'Inghilterra domanda sei mesi, la Russia per contro sei settimane: quella si contenterebbe anche di quattro o cinque mesi, questa alla sua volta dice che è troppo lungo un armistizio di cinque settimane. In questa altalena, in questo gioco di parole, passano le settimane ed i mesi. Ed intanto la guerra continua, funesta e disastrosa: se son vere le notizie che ci giungono, non si tarderebbe a riconoscere che mentre i signori da dietro le quinte cercano con ogni modo più disinteressato e più equo di salvare la Serbia e l'Europa da una forte congestione di fuoco, colle trattative di pace; le armi, che in questo caso la fanno da vassalli, stan per decidere pel campo la totale rovina dell'esercito serbo... Che sia il caso, ordinario fra quelli della vita, d'un consulto medico mentre il malato è già morto? Cantiamo le esequie!
Per altro v'hanno certi, che in questo tramestio di notizie e di trepidazioni, vogliono aver l'aria di capir qualche cosa: a sentire cotesti indovini di chiacchere si potrebbe giurare che la guerra è inevitabile per tutti e questo è il momento decisivo... Ma lasciamola lì. Io credo, che, almeno per noi, non sia il caso di guerra, finché, innocenti spettatori di questo gran dramma, staremo tranquilli a leggere le notizie dei giornali, e ad aspettare gli avvenimenti supremi.
Oh splendidissimo Oriente! Oggi anche il tuo nome è di moda, ed è sinonimo di luce (la massoneria ha pure il suo grande-Oriente!). Ma per la luce che tu mandi quaggiù amerei molto meglio le tenebre... Oh? Finiamola una volta. Sieno cinque mesi, un anno, un secolo, purché non si parli più d'armistizio, di guerra, e si faccia punto alla gran lotta con un compromesso od arbitrato internazionale. Si sopisca ancora una volta, se non la si può risolvere, questa benedetta questione, lordata già troppo di sangue umano, e di sozzure politiche!
[...]
***
Nelle sue torri, nelle sue cupole, nelle sue ruine è rimasto quasi integro ed illeso il simulacro dell'antichità classica, l'idea cattolica... Ma in fondo ci è la patria, la civiltà delle nuove istituzioni, il progresso d'un popolo libero: ci è la Capitale d'un Regno. Ombra di sovranità c'è il vecchio papa da una parte, recluso volontario in una classica prigione d'oro che sfida i secoli; e dall'altra il Re d'Italia, che raduna tranquillo a Monte Citorio i Comizî del popolo italiano, come una sola famiglia. Non è in esso avverato il sogno di Dante?
Il popolo che lo vede passare, vestito semplicemente da generale, si leva il cappello, e tirandosi in disparte, al grido che impetuoso echeggia nella folla di Viva il Re galantuomo, aggiunge a mezza voce: ‒ È l'eroe di cento battaglie... È proprio quello aspettato da Dante!
***
E qui è piena libertà di culto, di pensiero, d'azione per tutti salva, salva la legge. Mentre il Governo attende alle savie riforme del suo ordinamento e delle sue leggi, e si vive temperanti e tranquilli, in quella santa quiete di serenità e di pace, che si adatta all'indole ed al carattere dei Romani, in genere usi più a darsi buon tempo, che a menar le mani o ad accattar brighe in barba delle loro tradizioni belligere; migliaia e migliaia di pellegrini percorrono la Città, ospiti non invitati, ma civilmente e decorosamente accolti: e alcuni di essi, non tutti per avventura, nascondono sotto l'abito (forse per ricordare D. Carlos, lo sfortunato cavaliere d'una pretesa ridicola) lo stocco ed il pugnale... O negozianti falliti, cercano colla maschera dell'impostura e della divozione gingillare il prossimo, cambiando moneta falsa. Pur troppo non è tutto oro quel che luce in questi pellegrinaggi!

G. Musio


Anno II Num. 50 Sassari, 10 dicembre 1876

CRONACA DI CITTÀ
(pag. 238)

Medaglia Marini. Siamo ben lieti di pubblicare la lettera di ringraziamento che il Ministro della Casa Reale dirigeva al conte di Sant'Elia, Presidente del Comitato Promotore della coniazione di una medaglia al professor Efisio Marini, per l'offerta fatta al Re di una copia in argento di detta medaglia.
L'onore toccato al nostro concittadino torna ad onore di tutti i Sardi, e noi ne andiamo orgogliosi.
Roma, li 29 novembre 1876.
ILL.MO SIGNORE,
In udienza di ieri ebbi l'onore di presentare a S. M. la copia in argento della medaglia stata coniata per sottoscrizione dei Sardi ed a cura di cotesto Comitato onde onorare il merito del professor cav. Efisio Marini che seppe ritrovare il modo di conservare i cadaveri allo stato coriaceo, fresco e lapidario.
La M. S. mentre apprezzava il delicato pensiero dei concittadini del professor Marini, accoglieva con particolare gradimento l'omaggio fattole della predetta copia, quale un nuovo attestato di devozione affettuosa per l'Augusta Sua Persona, e mi dava il gradito incarico di esprimere a V. S. Ill.ma ed all'intero Comitato i suoi sovrani ringraziamenti.
Nell'adempiere a tale Reale Comando, mi è propizia l'occasione per esprimere alla S. V. Ill.ma i sensi della distinta mia stima.
Il Ministro
PISONE


Anno II Num. 51 Sassari, 17 dicembre 1876

CRONACA POLITICA
(da pag. 250 a pag. 252)
(Novembre)
Giorni sono, ricevemmo il seguente telegramma che partecipiamo commossi ai nostri lettori:
DIRETTORE Stella Sardegna ‒ Sassari.
Brillart-Savarin morto improvvisamente sera 27 novembre. ‒ Medici constatarono causa morte "Orientalite rientrata". ‒ Io, esecutore testamentario, impossibilitato continuare promessi pranzi, manderò chiaccherata politica. ‒ Segue lettera. ‒ Raccomando modestia funerali, secondo intenzioni illustre estinto.
Il Nipote
Ora, ecco la lettera:
Roma, 5 dicembre 1876

Onorevole Signor DIRETTORE.
Mi presento alla S. V. sotto l'egida del nome di mio zio, di cui sono anche unico erede ed esecutore testamentario. Sono un uomo serio, ne ho intenzione di morir così presto per soverchio amore al mestiere. Non essendo cuoco, adempisco come posso, ma da uomo d'onore, alla fatta promessa, e le invio la chiacchierata, come annunziai con telegramma. Senza tanti complimenti incomincio.
La cosiddetta rivoluzione del 18 marzo, ebbe una splendida conferma colle elezioni generali. La Sinistra ed i Centri dell'antica Camera rientrarono a Montecitorio grandemente rafforzati. La Destra perdette nella lotta i più strenui suoi campioni, fra cui tre Capi, il Visconti-Venosta, lo Spaventa ed il Bonghi, che si spera, per decoro dell'Italia, riusciranno nelle elezioni suppletive. I giornali moderati chinarono il capo dinanzi al verdetto nazionale, e l'Opinione confessò che oramai il suo partito ed il paese giuocavano a non intendersi. Vi è qualche stonatura in questo concerto di serafiche rassegnazioni più o meno sentite; ed il Tribunale di Firenze è chiamato a guarire le idrofobie manifestatesi in onta alla stagione. Vi riuscirà? Ne dubitiamo, perché l'idrofobia non si guarisce.
Intanto la nuova Camera passa per ora il suo tempo nominando le solite Commissioni, e nulla d'interessante vi fu, dopo il discorso della Corona. I pessimisti sostengono che la nuova Maggioranza dormirà i suoi sonni beati, cullata della coscienza dei suoi 400 voti. Altri dicono che il maestro abbia cangiato, ma la musica sia la stessa, perché la trilogia del nuovo Olimpo rappresentata dagli onorevoli Crispi, Correnti, Peruzzi, pare abbia conservato i vizii e le virtù del passato. E ne son prova l'opuscolo del primo sui doveri del Gabinetto del 25 marzo, e le teorie svolte dal secondo nel banchetto di Firenze. La prima discussione interessante, dando agio ai partiti di delinearsi, accerterà se gli oroscopi sono attendibili.
Del resto, carne al fuoco ce n'è, e forse troppa. Esaminando il programma di Stradella, par di leggere un compendio degli infolio del Medio Evo, intitolati: "De omni scibile et quibusdam aliis". I moderati rispondono sogghignando: " Parturient montes etc". Io però credo che, si applicasse una sola delle progettate riforme, sarebbe sempre tanto di guadagnato, e non fosse altro, col 18 marzo si fece entrare il mare nella morta gora della nostra vita pubblica che tendeva al quietismo chinese. Abbiamo sotto studio il Codice Penale, ripulito e messo a nuovo dal Mancini coll'aiuto dei più grandi criminalisti d'Italia; la nuova Legge Comunale e Provinciale; il Codice di Commercio e della della Marina; tutto un novello sistema finanziario; ed infine la Legge sulla responsabilità dei Travett, nonché il progettato miglioramento della loro condizione economica, per cui d'ora innanzi saranno tanti Duchi di Galliera in sessantaquattresimo.
A proposito del Duca, annunzio che passò a miglior vita contemporaneamente alla buon'anima di mio zio... Sorte scellerata! Ti contentasti di stabilire la somiglianza nelle sole date. O perché non imbrogliasti un pochino lo stato civile dei due inconsolabili eredi? Io non avrei protestato.
Prendo il direttissimo da Roma a Modane, passo il celebre buco, e piombo in Francia. Colà trovo una crisi ministeriale alle viste per una questione di funerali. In Italia non si capisce che possa cadere un Ministero, perché nega di far intervenire la truppa ai funerali civili d'un decorato della Legion d'Onore. La Spagna coi suoi fueros e col suo famoso articolo 11o, è in armonia colla sua storia, se non coi nostri tempi... Ma la Francia dell'89!.. Ciò sarebbe incredibile, se non fosse vero. Decisamente, guardando le condizioni politiche delle Nazioni sorelle, possiamo orogliosamente battezzarci gli Anglo-Sassoni della razza latina.
E la Francia dimentica i suoi piccoli guai interni per annunziare al mondo che nel 1878 farà gli onori di casa a chi la vorrà onorare. Ciò anche per provare alla Germania che i famosi cinque miliardi non le fecero né caldo, né freddo. La Germania mangiò la foglia, e fece rispondere un non possumus dai suoi artisti e dai suoi industriali. Anzi aggiunse con dispetto che le Esposizioni mondiali, lasciano il tempo che trovano, e che sarebbe il caso di abbandonarle. Chi avrà ragione? È certo che quando la politica ci mette lo zampino, tutte le questioni si arruffano. Io, fino a nuovo ordine, applaudirei alle Esposizioni, a patto che non vi si coniughi troppo il verbo mangiare, come sgraziatamente si fece a Filadelfia con tenacità troppo... americana.
Da Parigi faccio un piccolo salto a Brindisi, onde imbarcarmi con Lord Salisburg, l'Ebreo Errante della diplomazia inglese. Picchiò col suo bastone da pellegrino le porte sbarrate di Parigi, Berlino, Vienna, Roma, chiedendo dappertutto sbarre e puntelli per assicurare la sgangherata porta di Costantinopoli. Si sussurra che egli abbia fatto fiasco completo, e che il trattato di Parigi passi un brutto quarto d'ora. E mentre la vecchia diplomazia stende il tappeto verde, e sette od otto medici coi fiocchi, nel giorno 12 incomincieranno a far l'analisi chimica di tutti i cordiali necessarii ad infondere nuova vita in corpo al gran moribondo; Russia ed Inghilterra, come nulla fosse, fanno giuocare colle dita soldati e cannoni, preparandosi ad una gigantesca partita a scacchi che comincierà nel Bosforo, ma non si sa dove andrà a finire. Chi vorrà avere idee chiare sul proposito, leggerà un entrefilet del Times, un articolo di fondo del Golos, le recentissime dei sette od otto giornali tedeschi più o meno Turcofili. Dopo questa corroborante lettura, son certo che, come me... ne capirà meno di prima. Non vorrei però che in tutta questa baraonda avesse a capovolgersi il senso del proverbio: "Chi rompe paga". Non si sa mai... Onorevole Melegari, mi raccomando; occhio alla pentola... E sopratutto, reciti sempre, come giaculatoria, i versi del Giusti:
"Viva la chiocciola
Bestia da casa".
Onorevole signor Direttore; sono stanco dei tanti viaggi fatti in suo servizio. Mi conservi la sua fiducia, ed a rivederci quest'altro mese.
Devotissimo
Il Nipote

Anno II Num. 52 Sassari, 24 dicembre 1876

NOTE ROMANE
(da pag. 269 a pag. 271)
(RITARDATA)
8 dicembre
[...]
Finalmente questa XIII legislatura si è inaugurata: nell'aula di Montecitorio la parola del Re risuonò un'altra volta, e fu religiosamente ascoltata fra una solenne ovazione di applausi e di battimani. Voi conoscete di già il testo del discorso della Corona dai giornali, e sapete con quale buona impressione fu esso accolto generalmente, anche nell'estero.
Fra i molti progetti di legge che verranno presentati in questa sessione vi è pure quella, che riguarda il miglioramento delle condizioni degli impiegati, e pare che le norme principali, secondo cui questo verrà attuato, sieno le seguenti:
1°. Aumento del numero di posti superiori, per fare delle promozioni e lasciare vacanti i posti inferiori, ottenendo così riduzione di personale ed economie.
2°. Aumento del 10 per 100 a tutti gl'impiegati d'ordine che durante 6 anni non ottennero promozioni.
3°. Pareggiamento degli stipendii a parità di grado fra l'impiegati delle amministrazioni provinciali e quelli delle centrali.
***
Ieri mattina, 7, alle ore 10, per cura del Municipio è stato celebrato nella chiesa d'Aracoeli il solenne funerale in suffragio dell'anima di S. A. R. la principessa Maria Vittoria Duchessa d'Aosta.
Quella chiesa riccamente parata a bruno, ove nel centro erasi eretto il magnifico catafalco, illuminato da lampade a spirito, e con arte e con buon gusto ideato, accoglieva nella pia funzione i grandi Corpi dello Stato, le Commissioni del Senato e della Camera, i Ministri, il Corpo Diplomatico, e tutte le autorità civili e militari.
I Principi di Piemonte aveano posto vicino all'altare maggiore, dalla parte dell'Evangelo: poco distante da loro il generale Dezza rappresentava S. M. il Re; venivano quindi appresso tutte le dame e i gentiluomini d'onore della Principessa Reale, i Cerimonieri di Corte e le alte cariche di Palazzo.
Di fronte ai Principi stava il Sindaco, e dietro a lui tutto il Corpo Diplomatico.
Ha cantato la messa il P. Bernardino da Caprarola, Rettore di quella chiesa, e 120 voci circa, eseguirono la messa grande a otto voci del maestro Pietro Terziani, scritta per la morte di Luigi XVIII, Re di Francia.
La funzione riuscì veramente solenne, e Roma ha in questo modo pagato un sacro debito alla memoria di quella virtuosa Principessa, per la quale era la beneficenza una legge, ed il soccorrere alla sventura la più cara delle consolazioni, e la più bella gloria.
***
Apprendo in questo momento che alla Camera sono stati presentati altri due progetti di legge: il primo contiene la riforma comunale e provinciale, colla soppressione delle sottoprefetture; il secondo è nientemeno, che la legge sulle incompatibilità parlamentari, fu accolto, mi si conferma, con vera soddisfazione. Altre riforme, dicesi sieno in pronto per la lista civile.
G. Musio


Anno III Num. 1 Sassari, 6 gennaio 1877

OVVIO RITROVATO PER RAPPRESENTARE LE MINORANZE NEI CONSIGLI COMUNALI
(da pag. 1 a pag. 4, vol. IV)
Chiunque non si compiaccia di camuffare il dispotismo col comodo manto della costituzione per meglio esercitarne le prepotenze di leggieri converrà essere elemento indispensabile di vita la presenza di una opposizione nelle assemblee sia politiche che amministrative dei governi rappresentativi; imperocché, se ne mancassero affatto, o andrebbero in isfacelo o si renderebbero più odiosi, più insopportabili dello stesso dispotismo. E, a vero dire, tra noi come dappertutto, l'opposizione verificasi nel Senato, i di cui membri, venendo proposti dai varî ministeri che si succedono, appartengono a partiti diversi; non altrimenti accade nella Camera dei deputati, i quali vengono eletti da un complesso di collegi iridato da tutte le gradazioni dei colori politici; e la si esperimenta del pari fra i consiglieri provinciali, la scelta dei quali effettuasi da mandamenti che non la pensano ad un modo. Ma si ha da dire lo stesso dei consigli comunali, che sono le principali fondamenta, le pietre angolari dell'edifizio sociale? La loro sfera di azione non si esercita oltre le cerchia del proprio comune; epperò i consiglieri vengono prescelti dai soli elettori del medesimo, i quali, meno rarissime eccezioni, si dividono in due opposti partiti che tentano tutte le vie, adoprano ogni espediente per soperchiarsi a vicenda... Ne avviene quindi di necessità che nella lotta elettorale uno dei due debba soccombere e spesso per la differenza di pochi voti e talfiata di un solo! Né ciò è tutto: accade non di rado che le maggioranze altro non siano che una superfetazione di queste, mentre al broglio, all'astuzia, alle intimidazioni, a molte impreviste favorevoli circostanze devono la loro posizione; onde ne risulta che la vera maggioranza non venga punto rappresentata nei consigli e sia costretta a vedere amministrata la pubblica cosa da chi o seppe cogliere il destro o si ebbe l'audacia d'imporsi al comune.
Che io mi sappia, nessuna legislazione fin qui provide a pôr riparo a tanta iniquità, quantunque tutti i benpensanti ne deplorino gl'inconvenienti e le pericolose conseguenze: eppure, se mal non m'appongo, la soluzione di questo problema è sì ovvia da richiamare subito alla memoria l'aneddoto dell'uovo di Cristoforo Colombo... Era facile il far rimanere dritto un uovo sulla mensa, intorno alla quale sedevano i suoi detrattori? Tuttavia nessuno pensò ad ammaccarne la estremità più ottusa!
Senza tanto menare il can per l'aja eccomi dunque alla soluzione. Ordinariamente i partiti rivali in ogni comune sono due e di questi soli si ha da tener conto, ché le frazioni o si astengono per impotenza o si fondono e fanno causa comune con uno dei due menzionati. Sia nella elezione generale, che nell'annuo rinnovamento del quinto dei consiglieri, questi due partiti si impegnano nella lotta e, come si è già notato, ciascuno fa del suo meglio, lavora d'unghia e di dente per far prevalere la propria scheda; il partito prevalente quindi avrà tanti rappresentanti nel Consiglio quanti la legge gliene consente, i quali, divenuti assoluti padroni del campo, se abusino o meno della loro posizione lascio che si deprenda dalla eloquenza dei fatti dappertutto stigmatizzati dalla pubblica esecrazione.
V'ha dunque un vuoto nella legge viggente, e questo vuoto è una piaga che minaccia di passare in cancrena... Ora dico io: perché questo vuoto non si riempie? Perché non guarire questa piaga? Eppure basterebbe la sola volontà del Governo per occorrervi efficacemente! Basterebbe all'uopo un solo articolo di legge, pel quale si sancisse che tre quarti soltanto dei nomi dei consiglieri da eleggersi debbano figurare nelle schede da deporsi nell'urna dei comizî, prescrivendo di dichiararsi eletti quelli che riportano la pluralità dei suffragi fino a completare il numero prefisso dei consiglieri, cioè un quarto in più di quei che ciascuna scheda dee contenere.
Questo quarto in più apparterrà necessariamente al partito che non è il vincitore; avvegnaché un partito, per preponderante che sia, non può mai disporre di tal numero di suffragi da fare a fidanza coll'urna elettorale; ché il giovarsi di due schede diverse per l'avidità di fare sua pure la falcidia riservata alla minoranza lo esporrebbe a passare da pingue legatario a magro erede, e a dover meditare per qualche tempo sull'avventura dei pifferi di montagna... Altronde, se mai un tal partito esistesse, rappresenterebbe nientemeno che la quasi totalità degli elettori e nessuno a ragione potrebbe moverne querela.
Non v'ha dunque espediente che valga a deludere una siffatta disposizione di legge, e la vincitrice maggioranza volere o non volere avrà un controllo in seno al consiglio nella vinta minoranza; il che fa sì che non vengano impunemente dilapidate le sostanze e a casaccio manomesse le risorse del Comune, fa sì che cessino i monopolî oramai troppo inveterati, fa sì che certe private vendette non si consumino sotto l'egida della legge.
Né mi si dica che attuandosi la mia proposta verrebbe cortata la volontà degli elettori... O che? Forse le leggi tutte, anche le più giuste, non hanno base sul sagrifizio della minima parte almeno della volontà degli individui pel maggior bene dello Stato, che è appunto la totalità degl'individui? Oserebbe forse fare cotesto rimarco, senza arrossire fin nel bianco degli occhi, chi propose, approvò o puranco chi avesse in animo di sostenere inquisitoriale che pone in balia d'un pretoruccio qualunque le meglio stabilite riputazioni e lo autorizza a deturparle col marchio rovente dell'ammonizione?... L'umile mia proposta, tuttaltro che ledere la volontà di chicchessia, la conferma evidentemente, siccome quella che la riconosce e la rispetta eziandio nelle minoranze a benefizio di tutti, non escluse le stesse maggioranze; perocché, se convertita in legge, le dispenserebbe da ulteriori sagrifizî e le metterebbero al coperto della eventualità di non improbabili rappresaglie.
Ma v'ha qualche altro mezzo a questo preferibile e quantomeno ecquivalente che raggiunga lo stesso scopo? Non mi pare: escogitai di riporre nell'urna, appena eseguito lo scrutinio, i nomi di tutti i consiglieri eletti e di estrarre a sorte un quarto dei medesimi, i quali verrebbero surrogati da quelli che loro venissero appresso per pluralità di suffragi; però a frustarne gli effetti desiderati basterebbe che il partito prevalente si astenesse di dare un paio dei suoi voti ad altrettanti dei rispettivi candidati per gioire di una duplice vittoria. Pensai pure alla votazione per rioni, ciascuno dei quali sceglierebbe un dato numero di consiglieri; ma mi convinsi che siffatto mezzo darebbe forse le volute risultanze nei grandi centri di popolazione, non mai in quelli i di cui elettori bevono alla stesa fonte, sentono gli stessi bisogni, hanno le stesse soggezioni e che di necessità subir devono le stessissime influenze; senonchè, fortunatamente per l'igiene, i grandi centri sono rari nantes in gurgite vasto in Italia più ancora che nelle altre nazioni; per cui stimo ultroneo il discorrerne davvantaggio.
Resta dunque provato che necessaria rendesi la presenza delle minoranze nei consigli comunali; che la mia proposta porge l'unico metodo attuabile che soddisfi al bisogno; e infine che dessa è informata ai più sani principî d'ecquità e di giustizia; epperò non credo d'illudermi affermando che, sebbene a prima giunta sembrar possa di nessun momento, una tale innovazione nella legge comunale riuscirebbe feconda di utili e pratici risultati; dacché le discordie cittadine sparirebbero affatto o perderebbero molto della loro intensità, l'amministrazione della cosa pubblica procederebbe regolarmente, e la moralità ora avvizzita rifiorirebbe rigogliosa nei comuni italiani; vantaggi questi che non devono sfuggire all'assennatezza di quanti, con una costanza pari al patriottismo che li animava, hanno combattuto e vinto sotto il labaro del progresso.
Bonorva, gennaio 1877
Paolo Mossa

 


NOTE ROMANE
27 dicembre 1876

La gran novità del momento!
Non è certo quella dei cavallini, fucili, bambole e carrozzine, dei dolci di capo d'anno, delle strenne e dei mille nonnulla della befana di cui già si prepara la solita esposizione a Piazza Navona, ad uso e gingillo della generazione che nasce, ed a rimpianto delle borse esauste di quella che tramonta: non è quella della stella del presepio, o degli angeli di zucchero, che già rotti e diluiti in gran parte dallo stomaco di tanti bambini (nascono come i funghi!) non possono più gridare: Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis... né quella dei Re Magi di là da venire. Tramutati per avventura in ministri ambasciatori di una Conferenza monstre, che porterà la salute e la pace: la salute al povero ammalato, che a buona ragione si ostina a farsi chiamare la Porta, perché dopo tutto rischia il pericolo di esser messo alla porta prima di morire, non ostante a' suoi devoti nella fede di Maometto abbia largito la Costituzione, una specie di testamento segreto, strappato al rantolo dell'agonia, e pubblicato sul Bosforo al suono di cannonate e di pacifici armamenti; una costituzione turca, né più né meno, dove al solito i ministri sono responsabili di tutto ciò che non merita alcun peso di responsabilità, i deputati inviolabili come le odalische, i magistrati inamovibili ed anche inservibili, come... gli eunuchi, dove tutti assumono una parte sia pure quella di semplice comparsa, tutti hanno un ufficio da compiere ed una grossa paga da riscuotere, a carico... dei poveri possessori della rendita e degli imprestiti, che se ne stanno a bocca asciutta in mezzo a tanto ben di Dio; una costituzione che conserva per altro li splendori e i profumi dell'harem, in omaggio all'emancipazione della donna, ed alle dottrine donnescamente platoniche del nostro Salvatore Morelli! La pace poi ad una buona metà dell'Europa, scossa profondamente dalle sollecite cure e dalle sante intenzioni di Abdul Amid successore di Murad V e Abdul-Aziz, l'eroe delle forbici, e dalla frega maledetta di menar le mani che ha invaso quei buon temponi della Russia, stanchi di chiedere un po' di fuoco per temperare in qualche modo la rigidezza del loro clima.
***
No, tutto questo è nell'ordine naturale delle cose, e per me come per voi non è una novità. I turchi hanno già avuto in sei mesi tre sultani, e una costituzione. E la Storia, maestra della vita, terrà conto di quella politica, a ottomani che si informa a tanto buon senso di previdenza e di conciliazione. L'interesse della curiosità porta che si attendano con trepidazione le notizie di questa famosa Conferenza: la Turchia però vi è rappresentata come un servitore in livrea che attenda gli ordini. O Maometto! Per vero tu sdegnerai coteste farse; la diplomazia, come oggi la si intende, non era il tuo forte ma le burla e i tranelli dei tuoi rappresentanti non sono cosa degna del tuo nome. Deh! Risorgi, o Maometto, e soccorri col consiglio questo tuo caro Abdul-Amid, che in tanta stretta dolorosa affida ancora la sua esistenza e la tua gloria a queste fisime di libertà, a questi sogni di riparazione, a questa insistente mania di progresso e di uguaglianza!
***
La novità più spiccata, la grande réclame di qualche giorno alla Capitale, è stata ed è, per altro la visita che la vedova ed il figlio di Napoleone III hanno fatto all'Italia, al suo Re, ai suoi Principi, ed anche un po' un po' al Papa, tanto per non dimenticare che non si è per nulla padrini di battesimo, e che non si può distruggere un vincolo spirituale, anche quando il tempo voglia a mo' d'esempio, divertirsi a far nascere certi cambiamenti e spostamenti di scena, come Sédan e la breccia di Porta Pia.
Io non ho avuto la fortuna di vedere pur di passaggio l'una o l'altro degli illustri ospiti. Ma quanto all'ex-Imperatrice, Fanfulla, che si è trovato (vedi combinazione!) nel giorno in cui essa arrivava alla stazione e nel momento appunto che essa scendeva dal vagone, ne dice le più belle ed interessanti cose: una bella figura bionda (sono le parole testuali) con un'aria maestosa e dolce, col più grazioso sorriso del mondo, vestita in abito da viaggio nero, in un lutto semplice, ma così elegante, che ognuno avrebbe riconosciuto in lei una di quelle Regine della moda, che da un pezzo si impongono dalla Francia a tutta l'Europa.
E la bella e graziosa Regina della moda e della politica fu in tempo non lontano la Imperatrice Eugenia: da presso a lei si evocano le gloriose memorie di Solferino e di Magenta e si ricorda con immensa trepidazione, quella potenza, quella forza d'animo e di virtù incontestate che incoronava la fronte raggiante di splendore, dell'uomo fatale che credette rivivere nella splendida figura del I Napoleone.
Ed il Principe imperiale? Un giovine piccolo ed esile d'apparenza, che riproduce per altro nella sua fisonomia, i lineamenti del padre. Quali impressioni, qual tumulto di affetti e di speranze ha suscitato nell'animo di quell'infelice il viaggio in Italia e il soggiorno di Roma?...
Certo egli ha accolto la commiserazione ed il saluto di un popolo che è amico del popolo francese; ha stretto la mano a traditi, ma non già a traditori o ad illusi: ha riverito nella persona del Re, l'uomo che entrò vittorioso in Milano al fianco di Napoleone III suo padre, e col pensiero almeno avrà percorso e visitato i campi gloriosi in cui il valore francese rese più facile la vittoria alle armi italiane.
***
Oh! Non tutto è dimenticato: qualche ricordo doloroso si frammette con insistenza in questa commemorazione del passato: il nome ed il consiglio dell'ex-Imperatrice si è più volte mischiato nelle nostre terribili prove ma per noi, il rispetto per la sventura è virtù e non ostentazione; ed i superstiti della famiglia del III Napoleone hanno avuto da noi cortesia d'accoglienza, sincerità di modi, ospitalità dignitosa. Cessi il sarcasmo e l'irreverenza innanzi a queste Maestà decadute. Una tomba, apertasi innanzi tempo, ha sepolto e per sempre, le speranze ed i timori, gli odiosi rancori e le simpatie esagerate. Senza sospetti oltraggiosi, senza prevenzioni, imitiamo l'esempio del nostro Re che fece a' suoi congiunti ospiti gli onori di casa nel suo libero Regno.
***
Madre e figlio presero stanza alla Villa Bonaparte, e furono oggetto di riguardi, di attenzioni, di sincera espansione per parte del popolo, ed anche (che giova dissimularlo?) delle autorità e del patriziato romano. D. Marcantonio Colonna, presidente del Circolo delle caccie, ha invitato il Principe Imperiale a frequentare le sale del Circolo, ed hanno già avuto luogo, in suo onore, delle partite di caccia. Delle società e dei ricevimenti non parlo.
La Francia non può commentare sinistramente ciò che in Italia ha significato facile entusiasmo, scevro d'adulazione, riguardo personale, e dovere di riconoscente ospitalità: ricordo lacrimevole d'un passato glorioso.
G. Musio


Anno III Num. 2 Sassari, 14 gennaio 1877

CRONACA POLITICA
(da pag. 25 a pag. 27)
(Dicembre)
La questione d'Oriente!... Ecco la nebulosa verso cui si appuntano i cannocchiali di tutta l'Europa... Che farà la Russia?... Chi vincerà in Inghilterra, Disraeli o Lord Derby? Bismark, Decazes e Melegari usciranno dal loro silenzio, tanto gravido di tempeste da rendere perplessi quelli che hanno parlato? Il fratello Siamese Austriaco, si metterà alla fine d'accordo col fratello Magiaro, per evitare la confusione delle lingue?... Ecco tanti punti interrogativi che attendono invano risposta.
I rappresentanti delle Potenze garanti si riunirono fino dal 12 dicembre. Anzi, il primo periodo della Conferenza, quello in cui doveansi formulare le proposte senza l'intervento dei plenipotenziarii turchi, è già terminato. Si annunzia un accordo completo, ma... accetterà la Turchia?... Ecco il busilis.
I giornali più accreditati cantano già a piena gola l'inno di guerra. Mentre difatti Lord Salisbury, a nome di tutta l'Europa sottoponeva al Sultano i risultati delle discussioni, facendo balenare la minaccia che tutti i diplomatici avrebbero abbandonato Costantinopoli in caso di rifiuto; fu dismesso il Gran Visir, il rappresentante della vecchia Turchia trincerata nel Corano e nelle religiose tradizioni, e venne assunto all'alta carica Midhat-Pascià, il Leader di quel partito che ha sovrapposto al turbante il gibus, e crede aver acquistato la civiltà occidentale, infilando i guanti di capretto per nascondere le mani sozze di sangue. Costui, mentre piglia tempo a dare la desiderata risposta, getta sul tappeto verde come una sfida, e come l'ultimo ratio dell'ostinazione, una Carta Costituzionale da applicarsi a tutto l'Impero; la quale è molto più democratica di tutte quelle che potrebbero ideare un Gambetta, un Nicotera ed altri consimili pezzi grossi del progresso. Come saranno bellini gli Armeni, i Circassi, i Greci, gli Slavi, uguali in faccia alla legge, usanti pacificamente del dritto di riunione, della libertà di coscienza ed altrettali bazzecole di cui abusano ancora popoli omogenei di razza e provetti nella civiltà!... Se questa non è una canzonatura, lo lascio giudicare ai lettori.
E fatto ancor più strano!... L'egemonia del movimento europeo, che secondo i precedenti, si credea della Russia; passò invece all'Inghilterra ed a Lord Salisbury. Il generale Ignatieff che, come l'antico ambasciatore romano, parea tenesse fra le pieghe del suo gilet la pace o la guerra, è ora trascinato a rimorchio dal suo astuto competitore, e forse di malavoglia. Queste evoluzioni a Costantinopoli corrispondono con esattezza a tutti ciò che avviene a Londra ed a Pietroburgo. Nella prima metropoli, Disraeli è in dissidio con Lord Derby, il suo Ministro degli esteri. Quest'ultimo ha però il sopravvento, e la prova il richiamo di Sir Elliot dall'ambasciata turca: anzi si afferma che Disraeli si ritirerà presto dagli affari. Così il mercante inglese all'ultima ora si svincola dalle sue tradizioni Turcofile , getta la zavorra in mare, ed attende gli eventi.
A Pietroburgo poi gli umori bellicosi sono sensibilmente raffreddati. Al febbrile armamento, alla entusiastica guerra sacra proclamata a Mosca, subentrarono più miti propositi. Si acconsente che l'occupazione della Bulgaria sia fatta da uno Stato neutro, se pur si trova il merlotto che ci caschi. Si acconsente che le riforme delle provincie insorte siano applicate sotto il controllo d'una Commissione internazionale difesa da una Gendarmeria reclutata in tutta Europa... Non è vero che è un'olla podrida?... Intanto molti sono i bisbigli intorno a questo nascondimento di unghie da parte dell'Orso del Nord. Si arriva fino a sospettare che il suo esercito sia nello stesso stato in cui si trovava quello francese nel 1870... Io, per conto mio, non ci metto bocca.
Non è vero che ne avete piene le tasche della questione d'Oriente?... E anche io. Tanto più che l'ho allungata un pochino per non tornarci... cioè, per tornarci, ma sbrigandomene in due parole ogni volta che dovrò farvi ingoiare la pillola amara. Un poco di cassia di tanto in tanto rinforza lo stomaco. Passiamo ad altro.
Due soli Stati attendono tranquillamente alle loro faccende interne, senza preoccuparsi del di fuori, se non pel tanto che basti per far vedere che vivono.
In Francia la crisi ministeriale terminò colla caduta di Dufaure, e colla venuta al potere di Giulio Simon. Gli ultra conservatori erano patroni del primo, i repubblicani moderati, del secondo. Primo risultato della posizione attuale furono i dissidii fra il Senato e la Camera in occasione dei bilanci. Quest'ultima si piegò, e Gambetta fu battuto, ma la pace che ne sopravvenne non è che una lustra; e l'avvenire delle istituzioni in quel disgraziato paese, è fosco assai. Fortunata dal lato economico, la Francia in politica è simile al febbricitante che si rivolta da un fianco all'altro senza aver mai posa. E tutto ciò dura dal 1789. Cosî avviene sempre quando agli eterni principii di scienza sociale si surrogano i sistemi empirici; alle istituzioni fondate sulla coscienza nazionale, i congegni ed i meccanismi messi in moto dal primo ciarlatano mandato a galla dalla marea delle convulsioni popolari.
In Italia fiaccona perfetta. Dopo aver in otto giorni votato i bilanci, la Camera e il Senato si decretarono il riposo natalizio. E dall'Alpi al Lilibeo il panettone, i torroni, la casosata, il panforte regnarono sovrani. Questa beatitudine, così degna del paese di Benzodi descritta dal Boccaccio, è turbata di quando in quando dalle grida di dolore che ci pervengono dalla Sicilia per la questione della pubblica sicurezza. Lo Prefetto Zini che, secondo la sua frase resa celebre del Fanfulla, sedeva sulle cose di Palermo, si alzò, ed è surrogato dal Malusardi, il Prefetto mangiatore di briganti. Si riuscirà? Pur troppo la questione siciliana, è una questione sociale, come la provarono ad esuberanza valentissimi scrittori e profondi uomini di Stato. Istruzione, strade, legislazione intesa a modificare le medioevali relazioni esistenti fra proprietarii e coltivatori, ecco quanto potrà trasformare la Sicilia in avvenire. Ma pel presente, se il Governo non si propone sul serio di farla finita, ad ogni sessione parlamentare saremo il sicutera.
Lettori; ho spigolato anche questo mese per conto vostro le miserie dell'umanità. Come uomo per bene, dovrei ora indossar la giubba per farvi gli augurii, sebbene in ritardo. Non è vero che me ne dispenserete? Con questa fiducia, cangio la firma apposta alla rivista, in un biglietto di visita circolare.
Credetemi
Vostro Devotissimo
Il Nipote
Roma, 2 gennaio 1877

Anno III Num. 3 Sassari 21 gennaio 1877

CRONACA DI CITTÀ
(pagg. 45-46)

Dono del Senatore Spano. Il Sindaco di Sassari ringraziava colla seguente lettera il Senatore Spano, del dono fatto a questo Municipio di cui parlammo nell'ultimo numero della Stella (Dono del Senatore Giovanni Spano al Municipio di Sassari, pubblicato il 14 gennaio 1877, anno III num. 2, ndr):
MUNICIPIO DI SASSARI
Sassari, 16 gennaio 1877
Compiendo il grato incarico affidatomi dalla Giunta Comunale, mi affretto porgere ben distinte grazie all'on. signor Canonico Senatore Spano per il prezioso dono offerto a questo Municipio d'una custodia d'argento contenente l'osso della prima falange della mano destra dell'immortale Azuni, e Le assicuro che quella preziosa reliquia sarà a suo tempo depositata nel Museo Civico.
Il dono è riuscito tanto più gradito, inquantoché non essendo stato possibile a questa Città di possedere le soglie mortali del suo illustre cittadino, sebbene ne avesse in altro tempo fatto richiesta, le sarà di conforto il possederne almeno una piccolissima parte.
Accolga, signor Senatore, i sensi di alta stima e rispetto coi quali mi dichiaro
Della S. V. Ill.ma
Devotissimo servitore
PER IL SINDACO
Sanna Tolu


Anno III Num. 5 Sassari, 4 febbraio 1877

UNA O DUE CAMERE?
(da pag. 67 a pag. 70)
Uno sguardo alle attuali condizioni di quasi tutte le costituzioni rappresentative, alla genesi storica e filosofica di esse ci fa conoscere pressoché inconcutibile la necessità di due assemblee diverse. Pur molti della scuola democratica sono tratti a riconoscere col Laboulay: "La questione delle due Camere essere la questione della libertà. Fare una repubblica con una sola Camera essere contraddizione nei termini, poiché Governo popolare e Governo assoluto sieno due cose che si escludono".
Lasciare sola la Camera eletta dalla Nazione, equivarrebbe ridurre la costituzione dello Stato all'impero assoluto di una democrazia, non meno pericoloso di quello che si esercitò già dalla aristocrazia e dalla monarchia. Onde il Portalis ebbe detto: Lo stabilimento di due Camere è un assioma di scienza politica, che basta enunziare per farlo riconoscere, senza bisogno di dimostrarlo.
A malgrado tuttavia del consenso quasi universale, avvalorato dalla pratica dei popoli reggentisi a sistema parlamentare, non solo ne fu riguardata sotto diverso punto di vista la necessità, ma molti mirando addirittura sul vivo, la niegarono ricisamente. Eglino opposero che, gli argomenti su cui si appoggiano i fautori del sistema bicamerale andassero tutti a ferire direttamente la integrità morale delle masse, e che quindi esagerata paura ne sospingesse all'attuazione in ogni tempo e luogo, e li accusarono di seguire la vieta massima di despotismo: "Essere necessario a chi dispone una repubblica ed ordina leggi in quella presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che abbiano ad usare della malvagità dell'animo loro".
A me pare però, che codesti oppositori non considerassero abbastanza la natura della politica. Risalirono altissimo nelle astrattezze dei principii e dimenticarono affatto la pratica; e la politica è una scienza eminentemente sperimentale. Avviso opera superflua combattere in modo diretto gli argomenti, ‒ questo risultato ne viene di conseguenza immediata dalle ragioni a conforto del sistema bicamerale ‒ ma non stimo inutile del tutto scernere i sodi dagli infermi principii invocati in considerazione delle pericolose illazioni.
Intanto non è senza una qualche importanza (per chi sostiene l'opportunità delle assemblee deliberanti onde un popolo possa dire di governare sé stesso) questa osservazione, che, quando si dice necessaria, una sola Camera si intende l'elettiva, ove si creda distruggerne una s'ha di mira il Senato.
Questo fatto accenna evidentemente ad una diversità di fine e, procedendo più oltre, ad una diversità di origine, inevitabile risultamento della diversità del fine. La aspirazione universale e infaticabile del secolo presente è la democrazia: distruggere la Camera emanata direttamente dal voto popolare per lasciar l'altra, tornerebbe ad impedire al popolo il governo di sé stesso. Riferendoci alla Costituzione d'Italia possiamo dire che la Camera dei deputati rappresenta il carattere liberale delle patrie istituzioni. Negli Stati costituzionali la Nazione rivibra i suoi palpiti, fa vive le sue aspirazioni nella Camera dei deputati: quivi, per così dire, manifesta la propria vitalità, i flutti dei suoi pensieri, i sussulti delle sue baldanze, trovandovi riprodotti in forma più logica, più sensibile, anche i pregiudizii, deve necessariamente farla oggetto delle sue più sentite predilezioni. Al Senato non si appartiene, sotto tutte le costituzioni, una parte così essenziale nell'organismo dello Stato. La Camera dei deputati rappresenta l'esistenza, il Senato la conservazione: colla prima viene affermata la libertà, col secondo la garanzia di essa. Ciò posto, riesce evidente il perché discutendosi se il prudente e liberale esplicamento giovi più una, che due assemblee, la base della discussione: una o due Camere si riduce tassativamente alla formula: la Camera Senatoria è dessa indispensabile? La risoluzione di questo quesito è l'argomento che mi sono proposto.
Due sono i principali sistemi che si pongono innanzi a sostegno del sistema bicamerale. Coll'uno se ne rannoda la necessità ad un principio di organizzazione sociale, coll'altro ad una regola di organizzazione politica. L'ineguaglianza sociale, dicono i corifei dei primo sistema, è un fatto sociale necessario, inevitabile, permanente, più o meno sensibile; con varietà più o meno salienti si riscontra dappertutto e in tutti i tempi. Sembra loro utile e giusto, per il mantenimento delle pubbliche libertà, fare una parte speciale nell'organamento politico alle sommità sociali. Queste sommità sociali per la loro natura stessa eccitano particolari ragioni di gelosia, onde equo sia loro conceduto un mezzo di difesa. Questa aristocrazia, investita d'un grande potere sociale, non userà della sua influenza per invadere l'assemblea unica, ed impadronirsi a suo esclusivo profitto del maneggio dei pubblici affari quando le venga fatta una parte distinta nella organizzazione politica, onde utile alla conservazione delle pubbliche libertà sia ad essa conceduto una palestra speciale per esplicare la sua vitalità .
In questo sistema dunque, l'esistenza delle due Camere non è che un accomodatum, una transazione fra l'aristocrazia e la democrazia, prendendo le parole nell'antico senso perocché nella moderna società nulla vi sia che ad esse corrisponda. Come scrive Adams, si stabiliscono delle opposizioni costituzionali affinché non se ne formino delle incostituzionali.
E però, se la parola aristocrazia la si adopera significare nobiltà di nascimento, si può rispondere ciò che il Beranger rispondeva ad alcuni membri della Commissione incaricata nel 1831 della revisione dell'articolo 23 della carta: "La Camera dei pari non può più rappresentare ciò che non esiste", non dimenticando che sarebbe grave errore di tattica parlamentare, a dirla col Beutham, porre in linea di battaglia un partito debole di fronte ad uno arditissimo e potente. Che cosa potrebbe l'aristocrazia invisa come è, contro l'intera massa del popolo. Malaugurato consiglio organizzarla a combattimento. Di più, e questa la mi pare ragione da non trasandarsi da chi parla di diritto, agli occhi del legislatore e del diritto non esistono classi sociali diverse e distinte, esistono cittadini aventi uguale diritto di protezione, perché tutti uguali dinanzi alla legge. Qualunque cosa si voglia far significare alla parola aristocrazia, sia nobiltà di nascita, eccellenza d'ingegno, timocrazia, l'accettazione di siffatta teorica importerebbe singolari conseguenze. Se l'aristocrazia ha un'assemblea particolare che la rappresenta, non avranno identico diritto la borghesia e tutte indistintamente le classi sociali?
Progredire vale andare avanti. Codesto, che sarebbe rifare i passi fino a lontani suoli, non sarebbe dunque progresso. Rimanerci indietro fino agli Stati Generali, equivarrebbe evocare un passato impossibile, inconciliabile colle idee dei tempi, idee di giustizia, uguaglianza e libertà. Rinnegare il progresso delle idee è stoltezza, artifizio condannevole di fantastici illusi o di perversi corruttori.
Chi può acconciarsi ormai a propugnare la necessità di una rappresentanza speciale e privilegiata per qualsiasi aristocrazia sì da parere volersene ancora conservare una casta? A me ripugna anche per coloro per cui il Balbo la vagheggia e dice: Notabili.
Chi impedisce a tutte le aristocrazie di partecipare al potere legislativo? Chi vieta loro di penetrare senza eccezione nell'una o nell'altra delle due Camere? Quanto poi all'invasione che queste sommità sociali sarebbero nella Camera Unica ove il Senato non le rappresentasse, mi pare la Storia non le dimostri tali invasioni, e i tempi sieno a siffatto punto pervenuti da non lasciarsi influenzare per lo meno da classi organizzate.
Tanto il Senato che la Camera sono due corpi aristocratici nel senso che, chiamati a farne parte, hanno da essere gli ottimi dello Stato. Ciascuna assemblea deve rappresentare non l'una o l'altra classe, ma entrambe devono rappresentare la Nazione. Lasciamo nella Storia le viete distinzioni di casta, che come lì sono non possono più nuocerci, ma per carità di loco natio non le trasportiamo nella realtà della vita. Le ire partigiane, le scomposte passioni hanno pur troppo macchiato gloriosissimi dei nostri fasti... dimentichiamo l'inverecondo passato! Cam che irride alle paterne vergogne fu maledetto, e fu generoso il pudore dei suoi fratelli: l'amor di figli a codesto ci spinga.
(Continua)
Pasquale Prunas-Tola

 


UN'OPERA BUONA
(da pag. 74 a pag. 76)
Quando un paese vuole davvero progredire nelle industrie agrarie, meglio che perdersi in lotte e recriminazioni sterili, dovrebbe avvisare, sopra tutto, ai mezzi pratici.
Poche parole, poche teorie, molta attività, molta perseveranza.
Poche imposte, ma neppure molto sciupio di materia prima.
Pochi panegirici, ma molta statistica.
Abbiamo le molte parole su per i libri, per le gazzette, nelle ciarle del circolo o del caffè.
Abbiamo le molte teorie, indigene, oppure voltate dal tedesco, dall'inglese o dal francese nel nostrano idioma.
Abbiamo le imposte; gravi, insopportabili, inesorabili, senza speranza di diminuzione.
Abbiamo i panegirici, i banchetti, i brindisi, le decorazioni: nicoziana, morfina, laudano, cloralio... putredine.
E ci scoraggiamo; e non badiamo al tempo, che fugge; e lasciamo che altre genti prendano sopra di noi il sopravvento: Francia, Inghilterra, Germania, Olanda, Russia mandano i loro cari prodotti all'alma parens frugum; la quale un giorno s'imponeva al mondo tutto e oggi è appena superiore, in agricoltura, a Spagna e ad Austria!
La statistica esatta, spassionata, spregiudicata può veramente recare molti vantaggi.
Essa illumina, consiglia, conforta.
Mostra gl'intoppi, le lacune, i bassifondi: è faro, è scandaglio.
Era desiderato in Italia un lavoro ampio, profondo, coscienzioso di statistica agraria. Né lo si poteva attendere prima della unificazione politica. Ora l'abbiamo. E, per essere il primo di questa fatta, gli si possono perdonare le sviste, le lacunette, specialmente di fronte al molto ordine, sotto al quale ci si presenta, e alla moltissima buona volontà mostrata in chi la compilò.
Sono tre volumi, in quarto, grossi e nitidi, più un atlante. Sono stampati a Roma, per cura del Ministero d'agricoltura, industria e commercio.
La statistica si occupa del quinquennio 1870-74. E sembra essere fatta con questi intendimenti:
1°. Mostrare il campo d'azione sul quale si raccolsero fatti e cifre.
2°. Discorrere delle varie culture partitamente.
3°. Dire dei mezzi adoperativi: meccanici, economici, morali.
In Italia, un'opera siffatta non è facile. Esteso, com'è, il nostro paese da Nord a Sud, comporta molte varietà di culture: aranci e ulivi, viti e cereali, erbe e boschi.
I contadini sono poco dirozzati, molto diffidenti, moltissimo scottati!
Il compito, naturalmente, spettò alle "classi dirigenti".
La parte cisleitana dell'Impero austro-ungarico eroga, annualmente, da 50 a 78 mila lire per raccogliere e pubblicare le notizie statistiche dei prodotti agrari.
In Italia, il Ministero dice essere limitato ai soli mezzi morali, al tramite dei Comizi agrari...
Ciò non di meno, venne fuori un lavoro che si può leggere con frutto, meditare e... ammirare.
Si è divisa, per facilitarne lo studio, l'Italia in dodici regioni:Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia, Marche ed Umbria, Toscana, Lazio, Provincie Meridionali del versante adriatico, Provincie Meridionali del versante mediterraneo e jonio, Sicilia e Sardegna.
Ciascuna regione ha una speciale monografia.
In quella della Sardegna, manco affatto la media annua del calorico e della pioggia!
Nei cenni generali sul nostro clima, sono riferite testualmente le giuste ed energiche parole del Comizio agrario sassarese, sulle alterazioni atmosferiche, causate dalla devastazione dei boschi.
Quattro pagine appresso, il Ministero deplora candidamente la scure adoperata senza parsimonia, il pascolo sfrenato, gli incendi fortuiti o preparati, che convertirono i boschi da fustaie in cedui, e da cedui, a poco a poco, in sterili macchieti.
A leggere queste parole scritte dal Ministero, e a pensare che il Governo, obbligando i Comuni a sbarazzarsi degli ademprivi, comandò addirittura la rovina dei boschi, c'è da domandare se è davvero o da celia che Don Procopio censura Don Procopio.
Ci pensino i nostri deputati al Parlamento. E tiriamo via.
Riconosciute le varie regioni, cominciano subito le sfilate delle varie culture: piante a seme farinoso; piante leguminose; piante a radiche tuberose alimentari; orti; pomarî; piante tessili, tintorie, industriali, erbacee e seme oleifero; erbe da foraggio; piante a fusto legnoso delle quali si utilizza il frutto; agrumi; piante legnose coltivate altrimenti che per il frutto; piante silvestri sottoposte a culture ordinarie.
Poi vengono capitoli speciali d'industrie agrarie: vinificazione, oleificazione, macerazione delle piante tessili, preparazione di frutti secchi, estrazione del succo e delle essenze degli agrumi, preparazione del carbone di legno, della potassa, dell'acido gallico e dell'acido pirolegnoso.
Il bestiame, le industrie pastorali e il commercio del bestiame occupano ben 394 pagine.
Per tutta la Sardegna, fu segnalato (nel quinquennio in esame) un solo veterinario, a Sassari.
La bachicoltura e l'agricoltura hanno due larghe monografie.
Vengono appresso i concimi. Per la Sardegna si osserva che non li si tengano molto in conto.
La meccanica agraria è minutamente studiata. Per la Sardegna nulla vi è registrato di privata iniziativa.
Tre capitoli sono destinati al patto colonico e operai agricoli, alle proprietà, alle servitù e condominii; uno alla sicurezza campestre, e i cinque ultimi, all'idraulica agraria, all'economia forestale, alla viabilità, alle istituzioni agrarie e ai bilanci dell'agricoltura.
L'atlante conta 19 carte colorate.
Le diverse intensità delle tinte indicano i varii gradi della intensità delle culture: frumento, granoturco, riso, segala e orzo, avena, fagioli, lenticchie e piselli, fave, lupini e ceci, patate, canapa, lino, vite, ulivo, boschi. Poi vengono segnate le estensioni delle terre arabili. Finalmente sonvi tre tavole di quadri grafici indicanti i rapporti che passano fra le singole culture in ciascuna Provincia del Regno.
La Provincia di Sassari occupa il terz'ultimo posto per la cultura dell'ulivo; quella di Cagliari il primo per la cultura dei boschi.
In tutte le altre cose, la Sardegna figura sempre all'ultimo posto!
Possano i Sardi tutti leggere e meditare questa voluminosa opera.
Possano gli anni futuri cancellare le meschine pagine scritte su noi oggi.
Possano gl'isolani tutti farsi persuasi che, prima delle miniere, della navigazione, degli studi storici, della letteratura e delle belle arti, essi abbisognano di tre grandi cose: agricoltura, agricoltura, agricoltura.
Lo ha detto QUESNAY, nel Tableau économique, dedicato a Luigi XV:
"Il Sovrano e la Nazione non dimentichino mai che la terra è l'unica fonte delle ricchezze, e che è l'agricoltura che le moltiplica".
Lo ha detto Adamo Smith, nella classica opera sulla Ricchezza delle Nazioni: "Nessun capitale, a somma pari, pone in attività una maggior quantità di lavoro produttivo di quello dell'agricoltore".
Lo ha detto Sully: "L'agricoltura e la pastorizia sono le mammelle dello Stato".
Ma prima di Quesnay, di Adamo Smith e di Sully, il vecchio Salomone ha detto nella sua semplicità: "Chi lavora la sua terra, sarà saziato di pane".
La statistica del Ministero dimostra, in conclusione, questa verità. E da questo lato essa è opera eminentemente buona.
Cagliari, 27 gennaio 1877.
Vincentius

Anno III Num. 6 Sassari, 11 febbraio 1877

CRONACA POLITICA
(da pag. 88 a pag. 90)
(Gennaio)
La diplomazia europea ha fatto un solenne fiasco. Dopo quasi un mese di ciarle e di progetti gli uni più strambi degli altri, l'ostinazione di Midhat-Pascià la vinse, ed i rappresentanti delle sei Potenze garanti, dichiarando la loro impotenza, si ritirarono. Non poteva essere altrimenti. La Russia guarda l'Austria in cagnesco. Questa non sa decidersi fra turchi e slavi, e la sua coscienza nazionale è così incerta, che gli studenti ungheresi in viaggio per Costantinopoli, onde presentare la spada d'onore al generalissimo turco, sono salutati a pomi cotti dalla popolazione triestina. L'Inghilterra fa sul Bosforo il giuoco dei bussolotti: Lord Salisbury getta il dado sul tappeto verde della conferenza, lo copre col suo aristocratico berretto, e lo fa sparire coll'aiuto di sir Elliot, che sotto il tavolo fa da compare. La Germania ringhia sempre e non abbaia mai, riservandosi forse a sbranare l'esangue vincitore al termine del giuoco. Francia ed Italia rinnovano la commedia di Pilato: l'una si lava le mani, l'altra tiene il bacile. Con tanta concordia, anche un diplomatico novellino avrebbe avuto buon giuoco. Se avvenne ciò che doveva essere, di chi la colpa? La torta è ghiotta e gli affamati sono molti. Il ballo serio comincerà alla distribuzione delle fette.
Intanto la Russia continua in silenzio i suoi armamenti, e la Turchia non dorme. I giornali più accreditati sostengono che la prima non può rifiutar la lotta senza suicidarsi. Non si fanno enormi spese, non si preparan le micce per un colossale incendio, non si promette patria e libertà ad una razza intera, non si decidono popolose provincie a gettarsi a capo fitto in una guerra d'esterminio, per solo gusto di far dipendere dalla buona o cattiva digestione di un uomo, fosse pure uno Czar, la guerra o la paca. Con buona pace dell'agenzia Stefani, tutti ritengono che l'ultima parola non è ancor detta.
Punto e basta.
Terminate le vacanze Natalizie, le porte di Montecitorio si spalancarono di nuovo il 15 gennaio. È vero che le interpellanze, le questioni futili, gli interessi di campanile hanno fatto finora sciupare molto tempo. In compenso avremmo una brillante discussione sulla nuova legge contro gli abusi dei ministri dei culti, della cui opportunità molti partigiani della libertà ad ogni costo (ed io con loro) dubitano assai. Ferdinando Martini, Peruzzi, Trinchera fecero risuonare in questo senso generose ed applaudite parole. Ma S. E. Mancini, che nulla dovrebbe invidiare ad alcuna delle più splendide individualità d'Europa, ebbe un quarto d'ora d'invidia dai discutibili allori del ministro Falk, il mangiatore di vescovi. Meno male che questa legge non avrà fra noi effetti tanto funesti; perché, si voglia o no, come ben disse Machiavelli, l'Italia non si appassiona per le questioni teologiche. I nostri vescovi, anziché invocare l'aureola del martirio, chiedono in massa l'exequatur per far penitenza colle magre loro prebende, alla barba degli idrofobi e... dello scomunicato bilancio nazionale.
Le elezioni suppletive diedero i risultati che io aveva previsto. Entrarono alla Camera Visconti-Venosta, Saint-Bon, Bonfadini, Finzi, Bonghi. L'elezione di quest'ultimo fu annullata con una decisione che non ha precedenti nella giurisprudenza parlamentare. Egli però si ripresenterà agli elettori, essendosi a questo scopo dimesso da professore. Restarono definitivamente nella tromba Spaventa e Massari. Ora che l'antica Destra fatta opposizione ha ripescato dalle urne quasi tutti i suoi capi, la lotta fra i due partiti sarà più vivace, ma anche più alta e più degna dell'Italia.
A proposito di lotta, il processo alla Gazzetta d'Italia per libello famoso contro Nicotera, ha terminato a Firenze colla condanna del gerente. Era prevedibile. È però da deplorarsi che le bizze partigiane scese in piazza e camuffate da giullare, abbiano per più d'un mese dato miserando spettacolo di sé in faccia all'Europa, gettando a piene mani il fango sopra una delle più splendide pagine del nostro risorgimento. Che da tutti i partiti, rossi di vergogna, si getti il velo dell'oblio su queste intemperanze degne d'una età men colta! È l'unica cosa che possa desiderare chi tanto tiene alla dignità di quest'Italia che ci costò così cara.
Dopo aver apprestato ogni cosa per ricominciare la crociata contro il malandrinaggio della Sicilia, il ministro Nicotera prese un congedo ed andò a riposarsi in Calabria. L'interim dell'interno fu assunto dal Depretis in persona. Siccome ciò avvenne alcuni giorni dopo un deplorabile battibecco alla Camera, in cui ad una interpellanza intempestiva il Nicotera rispose con virulenza poco parlamentare; la sua ritirata diede luogo a commenti d'ogni forma e colore, che però non hanno ombra di fondamento, almeno per ora. Non si può celare che qualche cosa bolle nella pentola. I Centri, il gruppo toscano e la Sinistra intransigente sono uniti colla Sinistra moderata (microscopico nucleo dell'attuale maggioranza) con legami d'occasione. Resisteranno questi a serie lotte? Vi ha chi ne dubita. Si addita, come primo segno dello sfascio, da alcuni con gioia, da altri con dolore, la votazione della legge sugli abusi, in cui si ebbero cento voti contrari, sebbene la opposizione fosse rappresentata da soli trenta deputati, ed alcuni di essi votassero in favore. Ad ogni modo, una lotta di principii così alti, ed in cui non v'ha partito che tenga, perché si può dire che quasi in ogni testa si tenzonano il pro ed il contro, non può essere indizio sicuro.
Abbiamo alla vista un altro pettegolezzo parlamentare nella questione Mezzacapo-Ricotti. Questa venne differita, non spenta, con un ordine del giorno della Camera, in occasione dei bilanci, e si riprenderà col progetto di legge sulle armi portabili. Si tratta di sapere se la Nazione deve spendere altri quindici milioni per acquisto di nuove armi, quando coi fondi accordati con varie leggi all'ex-ministro Ricotti la provvista dovrebbe essere oramai completa. I fondi furono spesi fino all'ultimo centesimo, ma viceversa ora si dubita che possiamo porre, ad una eventualità, 150 mila uomini in prima linea. Tutti aspettano la luce. Io, modestamente, non bramo tanto: ma ricordo la caricatura esposta a Venezia dopo la conchiusione del trattato di Campoformio. Un fantaccino francese, partendo, sclamava: mi vago. Un ussero austriaco, smontando da cavallo, diceva: mi vegno. Un popolano veneto, contemplandoli entrambi, conchiudeva con un sospiro: e mi son Pantalon che ve mantegno.
Oltre l'Atlantico assistiamo nell'America del Nord all'accanita lotta fra repubblicani e democratici per l'elezione del presidente. Al generale Grant riesce amaro abbandonare quel potere che, sfruttando la popolarità venutagli dalle vittorie, tiene da due legislature. Egli fece molte cose buone, ma fece puranco quella pessima d'incoraggiare in vasta scala l'affarismo in tutte le grandi amministrazioni, la politica e la giudiziaria compresa. Entrambi i partiti rivali gridano a squarciagola che gli avversari sono autori di grandi brogli nella votazione. Per aprire le urne e procedere allo scrutinio il Senato ed il Congresso hanno nominato una Commissione mista, che colla sovranità delegatale farà tacere tutte le proteste.
Se qui si vedono i tristi effetti dell'abuso della libertà senza controlli e senza guarentigie, nell'America Spagnuola continua la lotta già vecchia fra gesuiti e liberali. Nel Messico, debellato Lerda De Tejada, Diaz s'impadronì del potere; per cui il militarismo ritornò sovrano in quel disgraziato paese, che dopo la malaugurata spedizione che decretava Napoleone III nel fastigio del potere, non ebbe più riposo. Le altre Repubbliche, ogni sei mesi, cambiano governo come ogni galantuomo cambia pastrano.
Ritornando in Europa, nulla di saliente per la cronaca. E rientrando in Italia, comincio a sentire i rumori del carnevale che, sulle ali del rovaio (faciente funzioni di zeffiro) mi pervengono da Milano, da Torino, da Firenze, da Napoli. Qui a Roma il Corso già si prepara per lo spettacolo medioevale dei barberi; e piazza Navona e piazza di Spagna per un festival di ciociari alla romanesca. Lettrici amabili, preparate le nacchere: v'invito tutte a fare un salterello.
Roma, 2 febbraio 1877.
Il Nipote

 


CRONACA DI CITTÀ
Il senatore Spano. Pubblichiamo ben volentieri la seguente lettera che lo Spano inviava al nostro Sindaco a proposito del Dono della seconda falange di D. A. Azuni:
"Illust. Signor Sindaco,
Ricevo il suo riverito foglio, col quale, anche a nome delle Giunta Comunale ella mi ringrazia del dono da me fatto a codesto Municipio, consistente in un ossicello che ricorda il gran cittadino di Sassari.
Io mi glorio di aver conservato quel prezioso tesoro; se io non fossi stato, quelle venerande spoglie si sarebbero confuse colle altre nel Cimitero, né alcuno certo le avrebbe mai più ritrovate. Ne presi vivo impegno, perché il fatto ridondava in onore della patria. Fui io che feci tutte le spese, e conservo presso di me la chiave della cassa mortuaria.
Come ella ben si ricorda, fui io che sollecitai codesto Municipio perché domandasse questa cassa, ma il Municipio di Cagliari non volle cederla; e fu allora che io, mentre deponeva in presenza dei testimoni l'astuccio di bronzo nella cassa, tolsi quella reliquia colla intenzione sempre di mandarla a Sassari. Di questa storia fu fatta menzione in un giornale di Cagliari.
Intanto mi consola apprendere il gradimento dei cittadini sassaresi, e le pubbliche dichiarazioni che ne hanno fatto uomini chiari e di senno, nei giornali. Il gran nome d'Azuni ben meritava una simile accoglienza.
Tanto mi occorre significarle. Gradisca intanto gli opuscoletti che le invio; e riservandomi a fare altri doni preziosi a codesto Museo, la prego di porgere gli atti del mio rispetto ai signori membri della Giunta Municipale.
Devot. Servitore
GIOVANNI SPANO".
Come i lettori vedono, questa lettera potrebbe anche servire di risposta al Corrispondente di Genova, di cui è parola nel N. 5 della Stella (Cronaca di città. Ancora della falange di Azuni, pubblicato il 4 febbraio 1877, anno III num. 5, ndr), e potrebbe spingere anche i signori del nostro Municipio a pensare un po' di più a quel benedetto Museo. Lo Spano pare ben disposto a regalarci degli oggetti.

Anno III Num. 7 Sassari, 18 febbraio 1877

UNA O DUE CAMERE?
(da pag. 102 a pag. 105)
(Continuazione)
Questo primo sistema origina dallo studio della costituzione inglese, di cui è perfetto il ritratto presentatoci da Montesquieu nel suo Esprit des lois. Bisogna riflettere però, come saggiamente osserva il Rossi: la paria inglese in effetto non rappresenta il paese, rappresenta sé stessa. Infatti, un pari non ha dovere di assistere alle discussioni ed ha tuttavia il diritto di votare per procura, il che accenna evidentemente all'esercizio di un diritto affatto personale. La minoranza può protestare contro il bill della maggioranza, e questa protesta deve inserirsi. È come dire: noi non ci sommettiamo alla maggioranza. Ciò è pure conseguenza del fatto che la paria inglese che rappresenta sé stessa non è già una magistratura politica, e investita una volta dei suoi diritti e delle sue prerogative occupa il suo posto fra i poteri dello Stato: jurc proprio . Questo fatto se torna a provare come la libertà politica giovi non tanto in ragione del pregio intriseco di una costituzione scritta, quanto dalle consuetudini e dalle tradizioni di un popolo, che voglia davvero governare sé stesso virtuosamente, non dimostra certo che ogni popolo è adatto a cosifatto reggimento. Quelle tradizioni e quelle consuetudini di cui si parla fecero dell'Inghilterra il popolo più libero dell'Europa moderna, ma quante altre nazioni hanno di tali tradizioni, di tali consuetudini? In Inghilterra furono queste a impedire i mali che potevano derivare da pericolosi ordinamenti, astrattamente parlando, e ne fecero risentire il solo lato di bene; negli altri paesi, ove dessi diffettino, il male si farebbe sentire in tutta la sua gravità. Coloro che rannodano la necessità delle due Camere ad una regola di organamento politico presentano sotto diversi aspetti la loro teoria. E però non regge sotto alcuni di essi. Facciamone un brevissimo esame.
Alcuni partono da un punto di vista assai ristretto. Eglino dichiarano codesta necessità solo onde si stabilisca nel potere legislativo una seconda deliberazione, un secondo esame, impedendo la facilissima precipitanza cui potrebbe trarne o la necessità vera o la intempestiva sollecitudine colla quale la pubblica opinione esige provvedimenti. Convien dire però che una assemblea rappresentativa sarebbe assai male organizzata se le formalità adottate pel disbrigo degli affari non esigesse sempre molto più di due deliberazioni.
Io non spingo l'argomentazione fino a questo punto, poiché mi par chiaro che un esame sebbene ripetuto, ma ripetuto da membri di uno stesso corpo ha quasi sempre lo stesso carattere, essendo identiche le persone o per lo meno inspirate dagli stessi principii, provenendo da una comune origine; ma è ben osservato quando si dice, l'opera del Senato essere assai deficiente se questo ufficio precipuamente gli viene assegnato. Si potrebbe sostituirgli con non lieve vantaggio una Corte meglio organizzata e che non urtasse sì variamente tante differenti suscettibilità.
Altri scrittori, e non pochi, con sensibile mancanza di criterio politico, vollero trovare la ragion d'essere di due assemblee in questo, che importa stabilire un equilibrio, un bilanciamento di poteri.
Che cosa vorrebbe mai significarsi sotto l'appariscenza delle splendide parole bilanciamento di potere? Dove risiede la sovranità se non nella rappresentanza nazionale? Che cosa è il Re se non un delegato del popolo, benché un delegato di natura speciale, un rappresentante superiore, perpetuo, incaricato di convocare gli altri rappresentanti, di contrassegnare e far eseguire le loro meditate deliberazioni? Che cosa potrebbe, d'altro canto, un corpo non rappresentante alcun interesse in aiuto del Re, contro la vera rappresentanza nazionale emanata dall'elezione? Sarebbe forse di soccorrere la corona ove le intemperanze di una camera popolare attentassero alla sua esistenza? Se in ciò avesse a consistere l'ufficio di esso corpo, o la Camera de' Deputati è antinazionale, e allora il Re ha in mano il mezzo di appellarsi e farsi dare la contrastata ragione; o la Camera sarà nazionale e allora nulla potranno né il Re né il Senato, l'uno e l'altro potrebbero precipitare nella stessa rovina. Fra le molte belle ed utili verità anche questa ci fu insegnata dalla Storia. Il Governo costituzionale è governo di reciproci accordi, di mutua fede, non di studiati antagonismi, di impenitenti diffidenze: il dispotismo e la licenza hanno un ugual freno perché ogni minimo sgarramento fa sentire i suoi affetti su tutto il macchinismo ed avverte la necessità della riparazione; al popolo s'appartiene la parte più grande, e quando una cosa è da lui voluta va fatta se non la si vuol vedere trionfare in quelli che il Machiavelli, con frase forse troppo civica, soleva dire carnevali della Storia: le rivoluzioni.
Altri scrittori, gregarî dello stesso sistema, così ragionano: tanti pubblicisti vorrebbero prolungata per lo meno a 7 anni la durata del mandato legislativo, altri vorrebbero invece che la rinnovazione della Camera si facesse in modo parziale. Or, per qual motivo van ripetendosi queste disposizioni? Quest'unico, che è necessario alla cosa pubblica, che il legislatore possa durare abbastanza in ufficio per conoscere a fondo i suoi doveri, le tradizioni parlamentari, e via discorrendo: e che quando hanno luogo le elezioni, sia eliminato il pericolo di vedere il Parlamento composto di uomini affatto nuovi. Si vogliono dei legislatori abili, esperimentati, educati e preparati alla vita politica. Dei legislatori che non siano soggetti a cessare d'ufficio quando più ne sono divenuti degni. Dei legislatori profondamente iniziati alle consuetudini parlamentari, che sieno rigorosamente fedeli ai principii fondamentali della costituzione generale del Regno e ne serbino intatto il deposito attraverso le necessarie e incessanti mutazioni cui danno luogo le elezioni e i progressi legislativi.
Ebbene, la camera elettiva non può darci sicuramente tutti questi vantaggi. Essa ha bene i proprii, e sono immensi e grandi, ma le mancano appunto quelli che trovate nel Senato, assemblea permanente composta dei migliori fra gli uomini di Stato, dei più illustri fra i personaggi della nazione, e dei più ricchi fra i contribuenti al pubblico erario. Le qualità individuali dei membri che fanno parte del Senato, la durata del loro ufficio, sono guarentigie tali che la Camera elettiva può rinnovellarsi quante volte occorra, senza pericolo che la inesperienza dei membri che vi entrano per la prima volta possa dar luogo a quei gravi inconvenienti che bisognerebbe aspettarsi ove mancasse l'alimento conservatore e moderatore dell'assemblea senatoriale.
Non mi dissimulo che i colpi sono ben diretti, ma a chi non si lascia sorprendere dall'effetto del momento non riesce troppo difficile rispondere. Al primo requisito che si dice far difetto alla Camera unica potrebbe provvedersi prolungando la durata del mandato legislativo, da rinnovarsi parzialmente, e ciò senza nuocere alla missione propria, poiché potrebbe combinarsi il modo con cui per mezzo di rinnovazioni l'opinione pubblica facesse sentire la sua influenza. Il pericolo poi che in una camera unica s'ha a temere delle elezioni non è reale, è esagerato, colpisce il senno e la moralità degli elettori, o per lo meno accenna ad un grave diffetto della legge elettorale. Sta bene che la politica debba considerare le cose e gli uomini quali sono, ma trattando di diritto costituendo, non sa esagerare le cattive condizioni e crean fatti a servizio di una preconcetta dottrina (così si faceva una volta la Storia dei Francesi); occorre tenersi nel giusto mezzo, altrimenti sarebbe onestissima l'apoteosi del governo dispotico.
A me pareva importante tener dietro a siffatti sottili ragionamenti e combatterli senza esitanza per le singolari conseguenze che dall'accettazione di essi sarebbe derivata, tanto più che il discernere quale sia la vera ragione di essere della seconda Camera spiana la via ad altra importantissima questione: Costituzione del Senato.
(Continua)
Pasquale Prunas-Tola

 


CRONACA DELL'ISOLA
(pag. 108)
La Camera di Commercio ed il Municipio di Cagliari hanno vivamente protestato contro la disposizione che doveva andare in vigore il 13 corrente a riguardo della soppressione del servizio telegrafico notturno in Sardegna. Si ha pure la nuova che il Governo ha deciso di ritirare il reggimento di fanteria da Cagliari. A quanto pare, il Governo, per darci quello che non abbiamo (le ferrovie) pensa di toglierci quello che abbiamo. La pianta si sveste delle foglie in autunno e le rende alla terra e la terra, in compenso, glie le ritorna a primavera. In fondo in fondo la pianta non è in debito né in credito... Abbiamo capito: la Sardegna avrà sempre lo stesso peso!

Anno III Num. 8 Sassari, 25 febbraio 1877

UNA O DUE CAMERE?
(da pag. 119 a pag. 121)
Dopo questa parte critica ecco ad accennare brevemente su quali basi si appoggia la mia fede sulla necessità delle due camere per savio e prudente esplicamento del governo costituzionale.
L'equilibrio in meccanica indica lo stato di immobilità, stato che mal si addice alle società moderne, spinte irresistibilmente nella via della civiltà, epperciò reputiamo fallace ed erronea la triste metafora dell'equilibrio, colla quale tanti pubblicisti hanno cercato provare l'utilità di una seconda Camera. Gli ordini politici dello Stato debbono essere stabili in virtù di un moto continuo, di un non interrotto svolgimento, ma di un moto e di uno svolgimento ordinato e progressivo, e quindi riputiamo dividere il potere legislativo in due assemblee, nell'una delle quali l'elemento popolare, la forza motrice predomini, mentre nell'altro l'elemento conservatore, coordinatore eserciti una larga influenza. Respingendo l'idea dell'equilibrio vogliamo costituire la gran macchina politica in modo che l'impulso acceleratore sia combinato colla forza moderatrice; vogliamo accanto alla molla che spinge, il pendolo che regola e rende il moto uniforme.
Dividendo il pensiero del grande statista, secondo me, non v'ha da essere una Camera alta e una Camera bassa, bensì due Assemblee, due magistrature politiche che vicendevolmente si controllano, vicendevolmente si costringono ad un esame profondo su tutte le questioni, ad una deliberazione seria, sensata, profittevole alla pubblica cosa, la Camera legislativa inoltre sapendo che le sue decisioni non sono valide se non sancite dal consenso del Senato trova in questo convincimento un freno morale, che la trattiene da troppo radicali e intempestive deliberazioni. Né v'ha pericolo che questo freno possa tornare di nocumento alle innovazioni richieste dal progresso de' tempi, dalla coscienza pubblica; esso svierà solo quelle misure che fossero in opposizione colle esigenze fondamentali dell'ordine generale o dell'armonia dei poteri. La Camera Senatoriale riceve la spinta infaticabile e continua della elettiva, la quale, essendo essenzialmente l'espressione della volontà nazionale, sarà, a così dire, il termometro che il Senato consulterà e di cui subirà invitabilmente l'influenza.
Ma perché una seconda Camera sia quello che deve essere, bisogna rappresenti un altro interesse: a questo solo patto non è una nociva superfetazione. Tolgo il riflesso del giustamente celebrato discorso del Thiers del 4 ottobre 1831. Si osserverà, come vi possono essere due interessi diversi nella stessa Società? Essi vi sono di fatto: il primo è l'interesse del progresso, tutti i mutamenti devono essere né troppo repentini, né troppo considerevoli, e fatti quando vi si è preparati; il secondo interesse è la stabilità. In politica come in amministrazione da tutti si riconosce occorrere il progresso sia misurato e prudente.
Il Thiers da ciò va diritto all'eredità; a me, riservando a suo luogo il discutere su ciò, basta il rilevare come la Camera ed il Senato non debbano procedere dalla identica fonte. Anzi la diversità delle fonti dovrà dare per risultato, che una Camera rappresenti il movimento della Società e lo segua; favorisca il progresso in tutti gli elementi dell'ordine sociale, promuova i miglioramenti e costringa il governo ad accordarli; l'altra raffreni questo ardore quando sia o immoderato o intempestivo, opponga dei savi indugii all'impazienza colla quale, senza essere soddisfatti del bene, si domanda il meglio, spingendo ad attendere che la pubblica opinione sia preparata a ricevere le leggi e le istituzioni, che si suppongono utili al paese; poiché non basta che un miglioramento sia buono per sé stesso, ma è necessario gli spiriti sieno pronti ad intenderlo, è necessario possano apprezzarne i benefizii.
"Siccome l'archittetto, prima d'innalzare un grande edifizio, osserva il terreno per vedere se possa sostenerne il peso, così il savio legislatore non comincia col compilare leggi buone in sé stesse, ma esamina prima se il popolo cui sono destinate sia capace di sopportarle".
Solone disse che egli credeva aver dato agli ateniesi non le migliori leggi possibili, ma quelle che meglio si affacevano al loro stato.
La considerazione che fece maggiormente impressione sull'animo mio, e che mi pare giganteggi sovra ogni altra in favore delle due Camere si è quella cui tanti pubblicisti si appoggiano, o direttamente parlando di quest'argomento, o ad altro proposito aventevi certa attinenza; perocché si tratta di un fatto normale e costante, il quale ha piena conferma nella storia di tutti i tempi e di tutte le genti.
"I Governi, s'intitolino essi dall'autorità regia o dalla democrazia, propendono sempre al dispotismo; se pure le leggi, le opinioni, le consuetudini dei popoli non sieno tali, che in mezzo alle vicissitudini della politica rimangano inviolati ed inviolabili, dai governi e dalle frazioni politiche, i diritti degli individui e delle associazioni, delle Provincie e dei Municipî, della Chiesa e delle comunità religiose dissidenti".
Questo, se il giudizio me non tradisse, altro non è se non un pio desiderio. Qual nazione potrebbe aspirare al vanto che costituisce la perfezione del vivere civile? In qualunque modo, si tratterebbe di una eccezione, e noi non s'ha a cercare ciò che si dilunga da un criterio generale (in verità nella repubblica di Campanella farebbesi a meno d'una seconda Camera!). Perciò appunto ha valore scientifico la sentenza di Machiavelli: un principe che può fare ciò che vuole è pazzo, un popolo che può ciò che vuole non è savio.
(Continua)
Pasquale Prunas-Tola

 


CRONACA DELL'ISOLA
(pag. 126)
Il Governo ha rivocata la determinazione di sopprimere a Cagliari il servizio notturno dei telegrafi. La Direzione Compartimentale dei telegrafi in Cagliari ha già ricevuto ordine della Direzione Generale perché si conservi in quell'ufficio il servizio permanente... Lodiamo il Ministero che ha voluto ascoltare i giusti reclami dei sardi!

Anno III Num. 9 Sassari, 4 marzo 1877

UNA O DUE CAMERE?
(da pag. 135 a pag. 137)
(Continuazione e fine)
E ben lo avvertiva lo S. Mill nella sua originale scrittura sul Governo Rappresentativo: Che pernicioso effetto non produce sull'animo di chi ha qualche potere, sia un individuo o un'assemblea, il sentimento che non ha a consultare che sé stesso? Essa è cosa importante che alcuna assemblea non possa, nemmeno temporariamente, far prevalere il suo sic volo, senza domandare il consenso da altri. Una maggioranza in una assemblea unica, quando ha assunto un carattere permanente, che è composta delle stesse persone abitualmente operanti insieme, e sempre sicura della vittoria, diviene necessariamente dispotica e oltracotante: essa non ha a riflettere se i suoi atti saranno approvati da un'altra autorità costituita... È desiderabile vi sien due Camere, per la stessa ragione che spinse i Romani a nominare due Consoli; onde né l'uno, né l'altro potessero essere esposti alla influenza corruttrice del potere assoluto, nemmeno durante lo spazio di un solo anno.
Ora, osserva il Guizot: "Principio e scopo del Governo Rappresentativo è la distruzione di ogni sovranità permanente di diritto, che non sia quella della ragione e della giustizia, la distruzione, vale a dire, di ogni governo assoluto. A raggiungere questo scopo giova assai impedire che la onnipotenza di fatto si concentri in un sol corpo legislativo, indipendente da chicchessia, libero e sciolto in ogni suo volere e capriccio, di guisa che basti una cosa sia da esso voluta per essere, senz'altro, legge obbligatoria per tutti. Ogni potere dev'essere sottommesso a certe prove, deve superare ostacoli, patire contraddizioni e non signoreggiare prima di avere dimostrata o lasciata presumere la sua legittimità".
L'arte della politica, il segreto della libertà, sta nel fiancheggiare di eguali ogni potere cui non si può dare dei superiori, di dividerlo senza infiacchirlo, e di tenere codesti fattori in tale mutua dipendenza che tutti cospirino a costituire l'unità della sovranità.
Se la Storia non ce lo avesse a dovizia insegnato, potrebbe egli credersi da senno possibile infrenare l'onnipotenza legislativa di una Camera unica? Rispetterà essa le barriere da cui sarà cinta? Così risponde tale che va immane certo dal sospetto di liberticida. "Essa si terrà legata dalle vostre forme sino a quando non le piacerà distruggerle. Ogni opposizione la muoverà a sdegno, e qualunque freno voi porrete ai suoi disegni e voleri, lo dirà un'offesa alla stessa libertà. La tirannide non vi incontrerebbe difficoltà che da principio. Ché anzi servirebbe di piedistallo e di sanzione al despotismo, appena o l'audacia di qualche fazioso, od un movimento popolare, o il falso indirizzo dell'opinione pubblica ve lo spingesse".
Ed è assai più a temersi il dispotismo di un'assemblea che non quello di un principio assoluto. Questi infatti non di rado sarà trattenuto, come dice il Laveley, dal sentimento della propria responsabilità verso il popolo e verso la Storia. Ma la responsabilità di un'assemblea, essendo collettiva, è impersonale, anonima, e però di nessuno. E la responsabilità di nessuno è il dispotismo di tutti.
Una assai splendida osservazione mi venne fatta leggere nelle lezioni di P. Rossi, e dimostra quanto i sapienti riflessi, testé accennati, collimino colle irrefragabili testimonianze della Storia. Egli dice: Tanto in Inghilterra quanto negli Stati Uniti ed in Francia solo allora fu sentito il bisogno di un'unica assemblea che si ebbe a fare od a compiere una rivoluzione, ma appena si vollero organizzare i risultati della rivoluzione, tosto si fece ritorno alle due Camere. Questo è un fatto storico assai rimarchevole. Infatti, in queste condizioni, l'assemblea unica è una specie di dittatura deliberante e operante, e giova confessarlo, è il mezzo più efficace a conseguire il fine proposto, fine che non si potrebbe realizzare che con una grande energia, una grande potenza, una grande rapidità e la mancanza quasi completa di controllo sulle operazioni dell'assemblea".
E così indeclinabile è la necessità di tali requisiti che il Rousseau con tutta l'autorità dei suoi principii democratici, in presenza di tanto eccezionali emergenze, si trovò ridotto a legittimare e adonestare l'opportunità della Dittatura.
Sarebbe opera superflua citare tutti i riscontri storici che il Rossi presenta a corroborare questo fatto ma non posso tenermi dal rammentare col Vidari due avvenimenti memorabili e dell'ultimo dei quali è ancor compresa la mente; e mai non ne perirà la memoria, perché fu ad un tempo, e tremendo castigo ad oltracotanza inaudita, e lezione splendidissima di magnanimità e abnegazione civile.
Si trattava di crisi suprema, e quando si tratta di crisi suprema tutti devono obbedire e pochi comandare: la Convenzione sprofonda la Francia nella più spaventevole rovina, ma Carnot raccoglie ed organizza eserciti; lo straniero è cacciato, e la Francia è salva.
A Sedan, ingannata dai capi, traviata dal sentimento si sé, la Francia è battuta, terribilmente battuta, non distrutta (ce lo provano la grandezza, con cui sopportò la inaspettata sciagura, i magnanimi sagrifizii d'espiazione solenne); il Re di Prussia restituisce a Parigi e Versailles al Nipote del Primo Napoleone la visita che lo Zio a colpi di cannone, sessantatré anni prima, aveva fatto a Berlino e a Portham; Thiers, in nome dell'assemblea Nazionale, pattuisce lo sgombro dello straniero dal territorio Francese; ma uscita fuor del pelago alla riva, queta appena la commozione terribile, riacquistata serenità e temperanza di giudizii, la Francia s'accorse che quell'Assemblea unica, che pur le aveva recato notevoli vantaggi non era la meglio atta a rassodare i beneficii di che le era tornata. Onde è che a fianco di quella ne pose un'altra, guarentigia di maggiore stabilità e sicurezza negli ordini legislativi, baluardo contro il pericolo di vertiginose deliberazioni e di inconsiderati commovimenti.
Ecco un grande ammaestramento: bisogna saper alzare barriere per non essere obbligati ad alzare barricate.
Un Re che potesse tutto sconoscerebbe i diritti del popolo; un Senato senza altro consiglio abbatterebbe Re e popolo; una Camera popolare unica diverrebbe presto tirannica con fatali aberrazioni. Onde immortali le parole:
Fra le molte cose nuove, da Licurgo introdotte, la prima e la più grande fu l'istituzione di un Senato.
Pasquale Prunas-Tola

 

CRONACA DELL'ISOLA
(pagg. 140-141)
Gli elettori politici del Comune di Santadi hanno inviato un bell'indirizzo al deputato Marchese, in occasione della convalidazione di sua elezione pronunciata alla Camera.
***
Il Sindaco di Cagliari riceveva una lettera dal Ministero, nella quale è detto, che esso Ministero non intende diminuire il Presidio dell'Isola, né sopprimere, sia pure in via di esperimento, il servizio notturno dei telegrafi stabilito in quella città. Meglio così!!

 


CRONACA DI CITTÀ
(pag. 141)
Consiglio comunale. Diamo il sunto delle deliberazioni prese dal nostro Consiglio nella seduta straordinaria del 16: 1º Sospetto ogni deliberazione sulla domanda del signor Cerutti per la cessione gratuita del terreno attiguo alla nuova Caserma allo scopo di erigervi uno stabilimento balneare insino a che siano scaduti i sei mesi accordati per presentare il disegno di un Teatro che si vuol erigere in quella località. 2º Delibera introdurre nel regolamento d'igiene le modifiche richieste dal Ministero dell'Interno. 3º Elegge il consigliere Sechi Pinna cav. Diego a rappresentante del Municipio presso il pio Legato Coloredda. 4º Autorizza il Sindaco e la Giunta ad emmettere le delegazioni a favore della Cassa depositi e prestiti per pagamento di somme arretrate dovute alla medesima. 5º Respinge la domanda dell'Amministrazione Consortile per la via vicinale Baldedda diretta ad ottenere un sussidio annuo per le spese di manutenzione. 6º Nomina i consiglieri Pisano Marras e Piretto a membri della Commissione esaminatrice per il conferimento della piazza semigratuita nel Convitto Normale. 7º Accoglie la proposta della Commissione per la transazione della lite col Sanna Tamponi.

Anno III Num. 10 Sassari, 11 marzo 1877

CRONACA POLITICA
(da pag. 153 a pag. 156)
(Febbraio)
Mentre il Corso da Piazza Venezia a Piazza del Popolo era nel colmo della gazzarra carnevalesca, a Montecitorio si vegliava sui destini della patria. Qua, le mille voci dei buontemponi in baldoria volavano al cielo come una sola voce, quasi a testimoniare alle stelle la pazzia di quaggiù: là, gli ultimi raggi del sole morente incoronavano i tre colori della bandiera nazionale che segnala le gravi e severe discussioni dei padri coscritti. Quale il frutto finora ricavato da tanta costanza di cure?
Lo confessano gli stessi giornali ufficiosi. L'epoca degli studii non è ancor terminata, ed i frutti sono di là da venire. La parte più succosa del programma di Stradella, la riforma tributaria promessa ai contribuenti come pioggia estiva sui campi adusti da siccità soverchia, non ebbe ancora gli onori della ribalta. L'onorevole Depretis, rispondendo alla interpellanza Savini sul macinato, ha promesso come accompagnamento obbligato della esposizione finanziaria, un mondo di leggi: la riforma della ricchezza mobile, quella del macinato, la perequazione fondiaria, l'abolizione graduale del corso forzoso etc. È ormai un anno che si promette: io penso (non so se con me la penseranno i lettori) che sarebbe tempo di mantenere.
Intanto, per non chiuder proprio le porte di Montecitorio, si discute il progetto sulle incompatibilità parlamentari, pagina staccata al progetto sulla riforma elettorale, come quello dell'abuso dei ministri dei culti era una pagina staccata dal progetto di codice penale. E così avremo la soluzione in pillole dei complessi problemi sociali, come sosteneva giorni or sono un deputato. E dire che Giusti è morto, e la sua Italia in pillole fortunatamente sepolta! V'è chi tenta risuscitarla. Questa legge, rispondendo in parte a concetti puramente teorici, in parte a bizze ed interessi personali, fu raffazzonata in un testo così strano, da arieggiare (sebbene da lontano) quelle leggi dei sospetti che resero celebre la prima rivoluzione francese. Speriamo che il Senato porrà il suo senno dall'altro lato della bilancia per non farla traboccare verso la partigianeria. In caso contrario, gli artigiani della nuova Atene possono preparare le ostriche per scriverci sopra i nomi dei nuovi Aristidi.
Una controscena interessante avviene però fra le quinte. La maggioranza ministeriale ha delle velleità di riscossa, e si atteggia al malcontento. Non curo l'inopportuna lega contro il macinato, né la barocca proposta dell'onorevole Frisari, morta prima di nascere: non curo la fiducia vigilante dell'onorevole Bertani e socii, i quali coll'interminabile serie d'interrogazioni, interpellanze, emendamenti, dubbii, quesiti, recano più danno che se si atteggiassero ad ostilità aperta. La stessa Sinistra moderata, dal cui grembo uscì l'attuale gabinetto, fa la preziosa. Essa si unì al Centro per dichiarare che rimanendo legata al Ministero senza un Capo suo proprio, perdeva l'autonomia: e che questa le era necessaria per prendere le sue misure, nel caso che si continuasse nell'andazzo attuale di percorrere la strada vecchia, dimenticando il programma pubblicato a suon di bicchieri dall'Alpi al Lilibeo. Ci volle del bello e del buono per scongiurare la tempesta. Dopo tempestose riunioni, e botti di birra ed acqua siroppata sacrificate sull'ara della patria, tutto si mise in tacere. Non è perciò men vero che le fenditure non si veggano ad occhio nudo dall'alto al basso dell'edificio con tante cure elevato. Prima se ne sussurrava a bassa voce ed in tuono d'incredulità: ora si discute l'avvenire per le piazze, nei caffè e per gli anditi dei teatri.
Non si creda che in questo lavoro da palombari il Ministero se ne stia colle mani in mano. Cesare Correnti, l'autore principale del 18 marzo, era forse un bruscolo nell'occhio di qualche Eccellenza. Egli può star bene, tanto al palazzo Craschi come alla Consulta, i due lati deboli deboli dell'edificio ministeriale. Gli si offre perciò la carica più lautamente pagata di tutta l'Italia, quella di Primo Segretario degli Ordini cavallereschi. È vero che dopo le aggiunte sapientemente fatte alla legge sulle incompatibilità, egli potrebbe rientrare alla Camera. Gli rimarrebbe però l'attuale preponderanza e la direzione del Centro? Secondo le vecchie consuetudini di quella carica, molti pensano che accettando egli commetta un suicidio. E sono questi i motivi per cui, ad onta delle accanite istanze degli amici, non si è ancor deciso.
Né la posizione del Ministero è migliore al Senato. Nell'aula del palazzo Madama fa capolino un'insolita acredine e vivacità nelle discussioni, sebbene limitata finora a subbietti giuridici. Ed è strano vedere quei venerandi vecchioni, ridonando alle membra per pochi istanti l'elasticità giovanile, ricordare come pallide ombre d'un tempo che fu, le tempestose polemiche di vent'anni or sono. Nel progetto di legge sul conflitto d'attribuzioni, i sostenitori del Consiglio di Stato bruciarono fino all'ultima cartuccia. Ed alla votazione, ad onta degli splendidi discorsi dell'onorevole Mancini, cinquantuna palle nere caddero nell'urna, segnale di tempesta in acque così tranquille. Lo stesso fenomeno minaccia di rinnovarsi per l'altro progetto sull'abuso dei ministri dei culti, essendosi quasi tutti gli ufficii pronunciati contro.
Nella seduta d'ieri si ebbe in Senato la seconda parte della commedia iniziata alla Camera nel gennaio scorso coll'interpellanza Corte. Il senatore Cantelli ha interpellato il ministro Nicotera sul famoso sussidio alla Gazzetta d'Italia. Vagliando la botta e la risposta, possiamo fregarci le mani dalla consolazione, perché ora ne sappiamo meno di prima. Una cosa sola è certa: i danari furono dati al Direttore della Gazzetta d'Italia: la provvidenziale indiscrezione del De Rolland arrivò in tempo. Dopo questo, che importa saper altro? La farina del diavolo va in crusca, e l'origine dei fondi segreti è troppo ributtante per pretendere che sia migliore il loro uso.
Basta per l'interno.
A Costantinopoli grandi novità. Midhat-Pascià, quel celebre Midhat che colla sua risolutezza, profittando delle dissensioni mal velate e delle gelosie latenti, tenne in iscacco le sei potenze più agguerrite della vecchia Europa; ebbe in ringraziamento un calcio dal suo Signore. Un bel giorno fu sbarcato gentilmente a Brindisi, ed ora, contemplando il panorama orientale del golfo di Napoli, invoca da Maometto una bella Uris che, assisa sul suo origliere, restituisca la calma ai sonni turbati dalle subite disgrazie. Gentili abitatrici di Chiaja e Mergellina, siete avvertite.
Intanto il Sultano, secondo le ultime notizie, pare minacciato dalla malattia del disgraziato fratello e del disgraziatissimo zio... Per carità! Tenete lontane le forbici. La farsa, è bene recitarla una volta sola. Ed io, pel calunniato onore degli Osmani, non vorrei che gl'increduli ripetessero in coro: Lo hanno suicidato.
Il nuovo Gran Visir, Edhem-Pascià, vuole ecclissare la fama dell'antico conchiudendo la pace. Giorni or sono la conchiuse colla Serbia sulla base dello statu quo ante bellum, collo smantellamento delle fortezze, sgombro del territorio serbo dalle truppe turche in dodici giorni, e garanzie morali reciproche contro la ripresa delle ostilità. Sbrigata la Serbia, venne il turco del Montenegro che è ancora trattando... E dopo ciò? Resta la Bulgaria, la Bosnia, l'Erzegovina, le migliaia di cristiani sparse su tutte le Provincie dell'Impero, i trecentomila Russi sotto le armi che non possono sparire ad un colpo di bacchetta... Come vedete, rimangono ancora molti punti neri, alcuni dei quali tracciati con inchiostro indelebile sulla carta d'Europa. Vedremo se la diplomazia riuscirà a cancellarli.
La vera questione d'Oriente si è ora trapiantata a Pietroburgo e a Londra. Il Gran Cancelliere Russo, dopo lo scioglimento della Conferenza, idest dopo il famoso fiasco, scaraventò alle cinque consorelle di sventura una energica nota, colla quale ne invocava l'appoggio per ottenere colla forza dalla Turchia quanto non vuol concedere alla buona. Come era da prevedersi, le consorelle si guardarono finora dal rispondere; ed i trecentomila uomini dello Czar, compreso il Generalissimo, sono indecisi se debbano andar avanti, retrocedere, o semplicemente star fermi. Menomale che l'Agenzia Stefani pensa lei ad arrangiare ogni cosa, e fa passare il Pouth a quelle povere truppe coi telegrammi della sera, per farglielo ripassare con quelli del mattino.
A Londra, tanto la Camera dei Comuni come quella dei Lordi, da oltre un mese è affetta da orientalite cronica. Lord Gladstone, Lord Hartington e tutti gli Wigg, con interpellanze, mozioni, proposte di biasimo etc., cercano disorientare Lord Beaconsfield, Sir Norteote e tutti i Tories del Ministero. Sebbene ogni proposta termini con un fiasco per la forte maggioranza che puntella gli attuali ministri, l'opinione pubblica non ne sarà perciò meno scossa. Ed ognun sa che questa è tanto potente nel Regno Unito, da determinare qualche volta una crisi, ad onta di tutte le maggioranze possibili... Fortunato paese, che può per mesi e mesi occuparsi degli altri, perché non ha questioni interne che ne richiamino l'attività! Del resto convien notare che questa è per l'Inghilterra una questione interna. Per grazia di Dio la Regina Vittoria è anche Imperatrice delle Indie.
In America, la Commissione del Congresso, dopo lunghi dibattimenti ha proclamato Presidente Hayes. Così i repubblicani hanno vinto, e con Tilden fecero fiasco i democratici loro patroni. Dai voti dati ai due candidati, si può misurare la forza dei partiti che stanno a fronte, e dalle cui misure è minacciato l'avvenire di quel gran paese. Hayes ebbe 185 voti, Tilden 184. È inutile qualunque commento.
Finisco. Forse l'arido mio metodo di apprezzare gli avvenimenti, darà sui nervi alla maggioranza dei lettori della Stella. E l'inconveniente è reso più grave dalla mia arida penna che non sa trovare le grazie ed i lepori necessarii ad infiorare anche le tombe. Non ne chiedo scusa, perché se i lettori sono condannati a sopportarmi, la colpa non è mia.
Roma, 4 marzo 1877.
Il Nipote

 


CRONACA DELL'ISOLA
(pag. 156)
L'arduo problema delle ferrovie sarde pare che voglia sciogliersi davvero! Il deputato Ponsiglioni telegrafa al Corriere dicendo, che ha avuto dal Ministero formale assicurazione che i diritti della Sardegna non verranno trascurati!... Dumas dice, che l'umana saggezza consiste tutta nelle parole aspetta e spera!!

 


CRONACA DI CITTÀ
(pagg. 158-159)
Consiglio Comunale. Ecco l'elenco degli oggetti da sottoporsi alle deliberazioni del Consiglio Comunale nella prossima tornata primaverile: 1º Revisione e decretazione delle liste elettorali politiche, amministrative e della Camera di Commercio. 2º Esame del conto finanziario 1876. 3º Elezione d'un membro della Direzione del Teatro Civico. 4º Nomina del professore di scienze fisiche naturali nelle Scuole Tecniche. 5º Domanda di Mattia Leoni vedova Porqueddu, già usciere del Conciliatore, per un sussidio. 6º Terna per la nomina del Conciliatore Sezione Ponente. 7º Domanda di Solinas Salvatore fu Francesco, per la concessione d'un tratto di terreno attiguo al molino a vento di cui è divenuto aggiudicatario. 8º Domanda di Giov. Battista Murtula per la vendita di un tratto di terreno sopravanzato dalla espropriazione dell'oliveto della marchesa di San Saturnino lungo il viale che conduce al serbatoio nel molino a vento. 9º Nomina del medico dei poveri. 10º Domanda di Giovanni Sechi per la concessione d'un tratto di terreno fabbricabile attiguo al caseggiato Meyer nel giardino pubblico. 11º Acquisto dell'orologio da collocarsi nel nuovo palazzo provinciale. 12º Convalidazione della deliberazione presa d'urgenza dalla Giunta per convenire in giudizio il cav. Petretto che irregolarmente ritiene le carte del Consorzio Rizzeddu-Gioscari, e contestare alla lite mossa contro il Municipio dall'appaltatore Cugurra per la manutenzione di quella strada, mancante di amministrazione pel fatto del predetto Petretto.

Anno III Num. 11 Sassari, 18 marzo 1877

CRONACA DELL'ISOLA
(pagg.173-174)
La Giunta Municipale di Cagliari (dico di Cagliari non di Sassari) fece uffici al suo deputato acciò volesse attingere informazioni sullo stato in cui trovasi la pratica delle tanto promesse e sospirate ferrovie sarde. Il Ponsiglioni si rivolse al Ministro con un'istanza (la quale fu pure sottoscritta dai deputati Garzia, Umana, Cocco, Siotto e Salaris che si trovavano presenti) e il Ministero rispose colla seguente lettera:
Roma, 9 marzo 1877.
Onorevole Signore,
"Ho ricevuto da Lei e dai nostri egregi colleghi Garzia, Umana, Cocco, Siotto e Salaris la gentile lettera colla quale espone la necessità di solleciti provvedimenti per il compimento della rete sarda, trasmettendomi in tal senso anche una deliberazione della Rappresentanza Comunale di Cagliari. A tale riguardo La assicuro che da non breve tempo mi occupo ogni giorno di questo affare, che mi sta sommamente a cuore.
Quindi è che se il Governo avesse azione libera anziché legata da precedenti convenzioni, ad un provvedimento sarei già addivenuto. Ma siccome quelle convenzioni, non solo inceppano l'azione del Governo ma gli aggravano gl'impacci per la loro oscurità e contradizioni, così nell'interesse stesso della costruzione della linea e di un provvedimento sollecito a quest'uopo, si dovettero studiare espedienti non semplici, diretti ad eliminare possibilmente il pericolo di liti e di dilazioni che più di tutto sarebbero di pregiudizio alla Sardegna. Anche oggi ebbimo all'uopo una lunga conferenza col Presidente del Consiglio ministro delle finanze, ed abbiamo fissato le basi su cui procurare una soluzione; su queste basi che stiamo traducendo in formula concreta, noi fra brevissimi giorni procureremo un accordo definitivo.
Io ho certo la coscienza di avere alla rete sarda dato maggiori cure e maggiori pensieri che a qualsiasi altro dello Stato.
Voglia comunicare la presente anche agli altri nostri colleghi, ed accolga l'espressione dei sentimenti di distinta stima ed osservanza.
Del Dev.mo collega
ZANARDELLI"
***
Colla data del 13 si telegrafava da Roma al Corriere: Venne combinato lo schema della Convenzione ferroviaria. Oggi il Ministro ha una conferenza coi rappresentanti della Società delle ferrovie sarde...
Ecco una buona notizia! Ancora pochi giorni e saremo in porto!?
***
Nel sorteggio dei deputati professori è uscito l'onorevole nostro concittadino Umana. Il Collegio di Alghero è dichiarato vacante.

 


CRONACA DI CITTÀ
(pag. 175)
Nomina. Annunziamo con vero piacere, che il nostro carissimo amico cav. Salvatore Delogu fu recentemente nominato Segretario presso il Consiglio Superiore di Pubblica Istruzione.

Anno III Num. 12 Sassari, 25 marzo 1877

CRONACA DELL'ISOLA
(pag. 190)
Il nostro deputato Garzia è stato nominato Commissario per l'esame del progetto di legge riguardante l'organico del materiale della regia marina militare.
***
Dicesi che all'inaugurazione dell'Esposizione regionale d'Oristano, che avrà luogo nel venturo maggio, interverranno il Principe Umberto e la Principessa Margherita.
Non è la prima volta che si dice!
***
Scrivono da Roma al Secolo, che un centinaio di deputati della maggioranza cominciarono a tenere riunioni sotto la presidenza dell'onorevole Ferracciu, per discutere le più gravi questioni che interessano il paese e far sentire efficacemente i loro desiderii e le loro idee al Ministero.

Anno III Num. 14 Sassari, 8 aprile 1877

CRONACA DELL'ISOLA
(pag. 204)
Gran pioggia di croci nella settimana, e principalmente a Cagliari e a Sassari. L'avv. Dedoni Orrù membro del Consiglio Comunale e Provinciale di Cagliari, volendo esprimere il malcontento suo e del paese per le circostanze in cui trovasi la Sardegna per la questione delle strade ferrate, ha rifiutata la onorificenza di cavaliere con una lettera un po' piccante diretta al ministro Nicotera. Anche l'onorevole deputato d'Oristano avv. Salvatore Parpaglia, che aveva già rifiutata una prima onorificenza, rifiutò la seconda, chiudendo un suo telegramma con queste parole: La Sardegna chiede ferrovie, ed il Governo manda croci, Siamo soddisfatti, per Dio!
A Sassari il nobile Giuseppe Deliperi, deputato provinciale, ha rifiutata l'onorificenza.

 


CRONACA DI CITTÀ
(pag. 204)
Nomina. Annunziamo con piacere che il nostro amico e collaboratore avv. Gavino Musio, Pretore a Roma, fu richiamato con promozione presso il Ministero di grazia, giustizia e culti.

Anno III Num. 15 Sassari, 15 aprile 1877

CRONACA DELL'ISOLA
(copertina)
La questione delle ferrovie sarde venne finalmente risolta! La Società costrutrice di quelle del primo periodo lo sarà anche di quelle del secondo periodo mediante la sovvenzione chilometrica di L. 14,800, tanto per le prime quanto per le seconde. La relativa convenzione tra il Governo e detta Società è concordata e sarà presto firmata, sicché potrà essere forse nella ventura settimana presentata alla Camera. Conchiudiamo colla solita sentenza di Dumas: L'umana saggezza consiste tutta nelle parole aspetta e spera.
***
Con decreto del 2 aprile, il Consiglio Comunale di Cagliari è stato sciolto, ed è stato chiamato a reggerne l'Amministrazione il regio commissario Cossu Baïlle.
***
Ad Alghero fu eletto Enrico Garau a primo scrutinio con voti 470. Bolasco ne ebbe 307.

 


CRONACA DI CITTÀ
(copertina)
Scioglimento. Anche il Consiglio di Sassari ha avuto la partecipazione del suo scioglimento, però per causa ben diversa di quello di Cagliari. La legge vuole che per l'aumento della nostra popolazione il numero dei consiglieri sia portato da 30 a 40. Nullameno l'attuale Consiglio continuerà a funzionare fino al mese di luglio, epoca delle nuove elezioni.

 


CRONACA POLITICA
(da pag. 223 a pag. 226)
(Marzo)
À tout seigneur... con quel che segue. Comincio colla esposizione finanziaria mirabilmente recitata in Parlamento dall'onorevole Depretis.
È molto curiosa la scelta del giorno, massime pei dilettanti di logogrifi. Secondo la legge di contabilità e le consuetudini parlamentari, quest'esposizione avrebbe dovuto farsi il 15 marzo. Si andò invece a cascare in pieno martedì santo, fra il passio cantato nella stessa mattina, e l'ufficio delle tenebre della sera susseguente. Che il Ministro delle finanze voglia d'ora innanzi atteggiarsi ad Ecce Homo? Se è così, badi alle spalle, perché di staffili ce n'è più del bisogno.
E le staffilate piovono a diluvio. La discordia accennata nella mia cronaca di febbraio, va ogni giorno più delineandosi ed assumendo forma. La maggioranza parlamentare si è impossessata d'uno dei due organi magici, il Bersagliere, cacciandone il Direttore che nei giorni scorsi ha pubblicato una commovente ed entusiastica lettera di congedo. Da quel trono di carta, la nuova regina brandisce i suoi fulmini di penne d'acciaio, e minaccia i ministri che si lasciano menare pel naso dalla camarilla burocratica sempre intatta e sempre potente. Chiede che si faccia cosa nuova, applicando radicalmente il tanto celebre quanto simpatico programma di Stradella. Da qui, il finimondo. Il Bersagliere ed il Diritto s'accapigliano di santa ragione. L'Opinione ed il Fanfulla applaudiscono, sperando di pescare nel torbido. E l'onorevole Sella sta alla vedetta colle mani in tasca, le scarpe ferrate ed il naso in aria fiutando il vento. Ci badi cui tocca. I bambini che si danno delle busse, sono rappacificati dalla governante collo spauracchio della bestia nera e del babau. E la Sinistra al potere ne ha tanti di babau...
I commenti su questa nuova torre di Babele sono molti e svariati. La persuasione che fino ad oggi si ha che il Bersagliere sia organo particolare di Nicotera, accreditarono la voce che si tratti d'un litigio intimo fra lui, il Zanardelli ed il Majorana-Calatabiano per disaccordi sulle questioni della ferrovia Eboli-Reggio, della fusione delle Banche, ecc. Checchessia di ciò, è certo che nel primo anno della riparazione vi furono molte ambizioni deluse, molte speranze rientrate, molti voli di fantasia troncati a mezzo. Ma è anche certo che, dopo tanto scalpore, siamo ancora al punto di partenza. Sarebbe doloroso che la tempesta finisse in un bicchiere d'acqua.
Tanto più insisto in questi fatti, in quanto si è posto sulla piazza il nome della mia cara Sardegna, a proposito del ricevimento fatto a Cagliari ad un augusto personaggio che recentemente la visitava. Io non posso giudicare la cosa colla mia solita franchezza, pel necessario riserbo di cui un gentiluomo deve ricordarsi in affari troppo delicati. Le promesse replicatamente mancate; una questione gravissima, per gl'interessi che coinvolge, ridotta allo stato di burletta; i reclami inascoltati; l'altalena dei governi di Destra continuata dal Ministero progressista; tutto naturalmente tende a portare il malcontento dei Sardi allo stato di parossismo. L'incontestata verità di tutto questo servì di arma a coloro che in questi giorni abbondano in avvertimenti al Ministero. Ed io me ne compiaccio, perché da cosa nasce cosa, e col pulsate del Vangelo potremo avere le sospirate ferrovie. Non tralascio però di notare che è pericoloso il giuoco di risalire, in momenti di stizza, fino al sacro palladio delle istituzioni che ci reggono; e che non si dovrebbe mai venir meno alle cavalleresche leggi d'ospitalità che formarono la gloria dei nostri padri. Ho detto.
Come dicevo dunque, l'onorevole Depretis ha fatto la sua esposizione finanziaria. Si è degnato assicurarci che, se non è raggiunto completamente il pareggio (sfido io, col corso forzoso, coi buoni del tesoro ed altre pillole consimili!), abbiamo però nel bilancio di competenza un avanzo di 12 milioni. Ciò senza calcolare i beneficii che risentiremo dai trattati di commercio, dal riordinamento dell'imposta fabbricati, dalla diminuzione graduale dei debiti redimibili, ed altre piccole miserie. Sull'assetto delle imposte, fermo il celebre principio non una lira di meno proclamato a Stradella, e nell'intendimento di renderle meno gravose ai contribuenti allargandone le basi e smussandone gli spigoli e le angolosità; oltre il progetto di legge sull'imposta fabbricati già in corso di studio ha presentato gli altri per la ricchezza mobile, pel macinato, per la perequazione della fondiaria. Uno speciale progetto per l'abolizione graduale del corso forzoso stanzia, a cominciare dal bilancio del 1878; un fondo di ammortamento di 20 milioni annui; fissa in 940 milioni il limite massimo dei biglietti inconvertibili; provvede al riordinamento degli Istituti di Credito. E questo fondo si aumenterà coi 200 milioni che si spera ritrarre dalla vendita del materiale mobile delle nostre ferrovie, e col prodotto della conversione dei beni immobili delle Confraternite e Beneficii Parrocchiali, per cui si è presentato uno speciale progetto. Infine, accennando alla soverchia complicazione del meccanismo amministrativo attuale, l'onorevole Depretis ha proposto l'istituzione d'un Ministero del Tesoro, e la riforma del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti.
Come accade di tutte le cose umane, non mancarono i Sigismondi ed i Don Marzii del Goldoni a commentare l'esposizione finanziaria. Si osservò, forse con ragione, che nulla vi era di essenzialmente diverso da quanto aveano detto i Sella ed Minghetti, buona memoria. Difatti, non può niegarsi che mancano affatto le idee nuove, o qualcuno di quei colpi secchi e decisi che accenni finalmente al tanto sospirato cambiamento d'indirizzo. Che volete? La scienza di governo pare facile da lungi. Ancorché si ascenda al potere a tamburo battente ed a bandiere spiegate, penetrando in questo giardino d'Armida si va incontro ad un certo zeffiretto che fa sfumare i cervelli. Conviene possedere l'ippogriffo, ed andarli poi a ripescare, come l'Astolfo di Messer Ludovico Ariosto, nel mondo della luna.
Sui lavori parlamentari del mese di marzo, nulla di notevole, tranne l'approvazione del progetto di legge sulla istruzione obbligatoria, nonché di quello sulla spesa di 15 milioni per la provvista delle armi portatili. Per quest'ultimo, il battibecco alla Camera fu piuttosto vivo, e si scese a personalità abbastanza spiccate. Quando si aspettava uno scandalo, gli onorevoli Mezzacapo e Ricotti scesero nell'emiciclo dell'aula, e corsero con fraterna effusione a stringersi la mano. Uno spiritoso giornale umoristico pretende che i contribuenti debbano impazzirne dalla gioia, perché il rappacificamento costa loro la bellezza di 130 milioni. Ma passiamo a qualche cosa di più interessante.
Nell'ultimo Concistoro tenuto per la nomina di nuovi cardinali, il Santo Padre ha pronunziato una fulminante allocuzione contro l'Italia. A differenza delle precedenti, questa è notevole per la forma polemica più spiccata, pei capi d'accusa contro il Governo Usurpatore regolarmente classificati, per l'invito ai cattolici di tutto il mondo di avvalersi dei mezzi legali di cui possono disporre onde chiedere ai singoli governi aiuto contro i persecutori della Chiesa. Così le poco brillanti mie previsioni su gli infelici risultati della legge sull'abuso dei ministri dei culti, cominciano ad avverarsi. Non perché questa legge possa avere conseguenze pratiche allarmanti, ma perché serve di mezzo alle pretese vittime per squarciarsi le vesti, cospargersi il capo di cenere, e mandare ululati da ripercuotersi dovunque v'ha un fanatico che ne prolunghi l'eco sinistra.
E la bizzarra crociata, così poco consona ai costumi ed abitudini del secolo XIX, per opera dei vescovi avrà presto un cominciamento regolare. Al giugno prossimo ricorre il Giubileo Episcopale di Pio IX. In tal fausta circostanza Roma sarà l'obiettivo dei pellegrinaggi di parecchie migliaia di devoti reclutati in Francia, Spagna, Irlanda, Germania, America, ecc. Finché le dimostrazioni si limitano a questo, gli albergatori, i trattori, i vetturini, i bottegai della Capitale del mondo, manderanno al cielo inni di ringraziamento tali da disgradarne quelli del Re David o di Sant'Ambrogio. Ma quando il partito legittimista francese, rinnovando l'esempio del generale Du Temple di beata memoria, prepara interpellanze alla Assemblea Nazionale; quando si discute dai giornali di tutti i colori se la repubblica del 1877 possa imitare con un intervento quella del 1849; quando scozzesi ed irlandesi si sbracciano per provocare un'agitazione legale nella vecchia Inghilterra; quando i martiri tedeschi attraverso le Alpi mandano un grido d'incoraggiamento ai finti martiri italiani; che ne dicono gli onorevoli Mancini e Pierantoni, suocero e genero coalizzati per provare che la politica del Machiavello doveva gettarsi nel cestino come inutile cencio?
Ma v'ha di più. Dopo le querimonie, di cui per molti giorni intronò l'aula di Montecitorio, sul pericolo dell'Italia se non si trovava armata contro gli attentati dei clericali; l'onorevole Mancini, con una recente circolare, graziosamente consiglia all'Autorità Giudiziaria di non procedere contro i giornali che pubblicano l'Allocuzione senza commenti, onde dar prova della robustezza delle nostre istituzioni in faccia alle smancerie di un partito impotente e screditato. Qui, quanta sia la logica del Ministro, non saprei. Io ritengo per fermo che il nostro buon diritto sia locato tanto in alto da non poter essere offeso colle stupide fotografie del Papa in carcere, o coi fili di paglia tolti dal suo giaciglio di prigioniero, e che si vedono in Francia o nel Belgio. Converrebbe però che il Governo italiano ricordasse un poco di più il celebre detto di Cromwell: Speriamo in Dio e teniamo asciutte le polveri. E basta tener dietro alla malaugurata nostra questione militare, per convincerci che le polveri sono di là da venire.
Ora il Senato è giudice della questione. Si sussurra sotto voce che questa, con molte altre leggi del Mancini, minaccino un naufragio. Attendiamo.
All'estero, null'altro che l'eterna e noiosa questione d'Oriente. Dopo il viaggio fatto da Lord Salisbury tre mesi or sono per conto dell'Inghilterra, abbiamo il pellegrinaggio del generale Ignatieff per conto della Russia. La posizione di questa potenza è una delle più grottesche. Far la guerra da sola, è un brutto affare, non sapendo che la cosa la pensino a Londra, a Vienna, ed un poco anche a Berlino. Non farla e disarmare, è una cosa ancor più brutta con quelle benedizioni di panslavismo e di nihilismo che rodono le viscere del colosso del Nord. Il viaggio di Ignatieff tende a fare sottoscrivere alle potenze, e massime all'Inghilterra, un protocollo che riassumendo i risultati della famosa Conferenza, imponga alla Turchia la volontà collettiva dell'Europa. Se la Porta sottoscrive, tutti disarmano e felice notte: lo scopo di ritirarsi senza infamia è dalla Russia raggiunto. Se non sottoscrive, la Russia fa la guerra, ma almeno è salva alle spalle, perché le potenze entrate nel circolo da lei descritto sono costrette ad appoggiarla moralmente. Il gioco è astuto, ma oramai capito. Quei volponi di ministri Iohn Bull giuocano l'altalena, e da parecchie settimane tengono la corda tesa senza conchiudere. E l'infaticabile generale Ignatieff corre da Parigi a Londra, da Londra a Vienna, da Vienna a Berlino, e ricomincia. Al momento in cui scrivo l'ansietà è molta, ma la parola decisiva non è venuta. Domanderei all'onorevole Melegari perché il diplomatico Moscovita ha tagliato fuor fuori Roma. Badi che non ci facciano far la figura di sabbiere.
Tornando in Italia, chiudo questa già lunga cronaca con due coserelle:
1º Dopo scritta la presente, ho veduto pubblicata nel Bersagliere una lettera dell'onorevole Ponsiglioni che recisamente smentisce la notizia sui freddi ricevimenti fatti a Cagliari al Principe Tomaso. Nella mia qualità di Sardo per nascita e per aspirazioni, con immensa gioia do un tratto di penna a quanto scrissi su tal proposito. Avrei potuto cancellarla addirittura, ma non lo feci perché il peccato e l'ammenda onorevole vedessero uniti la luce.
2º Non posso passarmi dal segnalare ai lettori della Stella il vuoto che da pochi mesi a questa parte si va facendo nelle fila di quella sacra falange di patriotti napoletani che tennero testa alla tirannia borbonica. Alcuni giorni or sono Mariano D'Ayala scese nel sepolcro a far compagnia a Luigi Settembrini e Paolo Vittorio Imbriani. Non occorre ricamarci sopra frasi rettoriche, perché certi nomi valgono un'epopea.
A rivederci quest'altro mese.
Roma, 1 aprile 1877.
Il Nipote

Anno III Num. 16 Sassari, 22 aprile 1877

CRONACA DELL'ISOLA
(copertina)
Una corrispondenza da Roma al Secolo dice che l'on. Zanardelli ha condotte a buonissimo fine le trattative colla Società Anglo-Italiana per le ferrovie sarde, e che il giorno 10 i rappresentanti delle Società che sono a Roma diedero un banchetto per festeggiare l'avvenimento, e invitarono parecchi amici. La nuova del banchetto non ha fatto buona impressione, perché tutti ben sanno che le promesse fatte nei banchetti non si sono mai realizzate! L'umana saggezza, ecc. ecc.

Anno III Num. 17 Sassari, 29 aprile 1877

CRONACA DELL'ISOLA
(copertina)
Il Giornale del Lavori Pubblici pubblica la seguente notizia: "Tra pochi giorni verrà firmata la convenzione della costruzione delle ferrovie del secondo periodo in Sardegna fra la Società e il Governo".
Questi benedetti pochi giorni ci fanno pensare a quel certo avviso che si legge sulle vetrine del piccolo commercio: Oggi non si fa credito, domani sì. Al posto di credito leggasi: ferrovie.

Anno III Num. 18 Sassari, 6 maggio 1877

CRONACA DI CITTÀ
(copertina)
Ferrovie Sarde. Il Presidente della Società Progressista avv. Soro Pirino, ha ricevuto da Roma i seguenti telegrammi che si affrettò di pubblicare.
La Convenzione sulle Ferrovie Sarde è stata firmata. Si è pure avuta una stupenda relazione sul pareggio della nostra Università. I voti della Provincia possono oramai dirsi esauditi.
Ieri, 1º maggio, finalmente è stata firmata la Convenzione per le Ferrovie Sarde con la vecchia Società. La linea prescelta è quella di Macomer.

Anno III Num. 19 Sassari, 13 maggio 1877

CRONACA POLITICA
(da pag. 270 a pag. 272)
(Aprile)
L'anno 1877 ha cangiato in turbinoso aquilone lo zeffiro profumato della sua primavera. Dal Pruth e dal Danubio ci arriva già l'eco dell'inno di guerra cantato fra il rumoreggiare dei cannoni e gli urrah delle orde barbare o semi-barbare che corrono al massacro. La mammola vereconda e la rosa superba tramandano entrambe un acre odor di polvere che dà il capogiro. La vecchia ed impotente diplomazia s'è ritirata lasciando il posto all'ultimo ratio fra due razze invelenite da un odio secolare. Il Corano vuol provare, forse per l'ultima volta, la sua forza cozzando contro il testamento di Pietro il Grande. Intanto l'Europa civile assiste trepidante al maestoso spettacolo. Non si sa poi se, come i fanatici divoti del Diacono Paris, non possa essere anch'essa attratta nel circolo della danza macabra fra le convulsioni dell'epilessia.
Avendo i Russi passato il Pruth, ed i Turchi ingrossando verso il Danubio, i primi assalti si faranno necessariamente nel territorio rumeno. Il piccolo Principato levò già da tempo la voce per trincerarsi nella sua neutralità, e protestò contro l'invasione del suo territorio. Alcuni credono ciò una lustra, anziché una violazione del diritto delle genti. Difatti gli ultimi dispacci parlano d'una convenzione colla Russia approvata a tamburo battente dalle Camere Rumene. E l'Europa? Ha forse tempo l'Europa di pensare alla Rumenia? Allorché i leoni vengono a battaglia, si bada forse alle formiche che si schiacciano sotto le tremende zampate?
La guerra sarà localizzata, si dice. Ciò è un succedaneo indispensabile alle fallite speranze di pace, come la limonata che si beve dopo il chinino. Intanto vediamo la situazione.
Il neo-cavaliere di S. Giorgio, il Principe del Montenegro, ha già iniziato la sua seconda campagna. Grazie alla sua furberia di tirare in lungo le trattative, non si trova vincolato come la Serbia da un trattato di pace. La Grecia affretta i suoi armamenti, ed attende le circostanze. Bosnia, Erzegovina, Bulgaria, Albania sono un'avanguardia dei Russi, e valgono mirabilmente a sparpagliare le forze ottomane. L'Austria concentra poderose truppe alla frontiera, pronta ad invadere la Bosnia. L'Inghilterra conserva ufficialmente la sua neutralità, ma freme con tutte le corde sensibili della pubblica opinione, pensando che in Asia, a pochi passi dai confini delle sue colonie, si recita una scena della tragedia, sebbene la meno interessante. La Germania infine, continua il suo silenzio di tomba, riservando l'avvenire; dimodoché, quando si deciderà a cessare la sua parte di sfinge, potrà dire il fatto suo a chi vuole senza tema di essere presa in falso latino. E dopo tutta questa confusione, beato a chi crede alla possibilità di localizzare la guerra! Tutto ciò basterebbe a vedere dei nuvoloni neri sul lontano orizzonte, anche senza calcolare ciò che faranno la Persia, l'Egitto, i Kanati indipendenti fra l'Asia inglese e la russa, gli stessi Nababbi del neonato Impero delle Indie, tributarii ma non sottomessi, ad onta dell'astuta politica di Iohn Bull. La diplomazia ha finito e parla il cannone: ma quando cesserà di tuonare, quali questioni saranno risolte, qual faccia avranno assunto l'Europa e l'Asia? Seri di punti interrogativi più lunga della coda d'un Pascià.
Due sole potenze si sono distinte dalle altre nel giuocare a carte scoperte: la Francia e l'Italia. Entrambe come la chiocciola si rintanano nel loro guscio, si foderano con triplice fascia di raccoglimenti e di assetto interno, non armano un soldato, né collocano sulle ruote un cannone di più, e chi s'è visto s'è visto. Esse si limitano a mandare una flotta per proteggere i propri connazionali in Turchia, e dichiarano ad alta voce che saranno fino all'ultimo fedeli alla sublime missione di messaggere di concordia e di pace. Anche qui un punto interrogativo, perché Decazes e Melegari rispondendo alle interpellanze loro rivolte nelle Camere dei due paesi, conchiudono i loro discorsi colla frase sacramentale: "La Nazione non interverrà se non quando il suo onore sarà compromesso". Ora chi sa dirmi, lettori umanissimi, dove comincia e dove termina l'onore d'una Nazione valutata attraverso il prisma orientale?... Mah!...
Riassumendo la noiosissima diceria, null'altro rimane che incrociare le braccia ed attendere. E temo che lo si dovrà per un pezzo. La guerra che s'intraprende, anche localizzata, non ha la stessa fisonomia di quelle del 1866 e del 1870, né il mondo sarà stordito dai miracoli Sadowa, Metz o Sedan. I due eserciti che sono a fronte, sono numerosi, ben armati, ma si fa desiderare quell'isocronismo scientifico che formò la forza delle armi prussiane. Dal Danubio al Bosforo le difficoltà strategiche naturali ed artificiali sono rilevanti. La Russia avrà un osso ben duro da rosicchiare, essendo le sue forze divise fra l'Europa e l'Asia. E la Turchia, sebbene costretta a combattere quattro guerre ad un tempo, ha dalla sua il fanatismo di razza e di religione, il più terribile dei fanatismi.
Cesso, cesso, lettori della Stella. Non voglio provocare la vostra pazienza al punto da farmi fare la fine di San Stefano. Il che non mi lusingherebbe gran fatto.
L'Italia ha anch'essa la sua questione internazionale in sessantaquattresimo. Il Ministro degli esteri del Belgio, clericale da tre cotte, rispondendo ad una interpellanza di quell'antico e provato liberale che è il Frère-Orban sulle varie petizioni dei vescovi a favore del Papa, sebbene abbia riconosciuta la necessità di non farne nulla, aggiunse che se fosse il caso di una conferenza internazionale sulla questione romana, il Belgio avrebbe fatto il suo dovere. E nelle Cortes Spagnuole, un senatore richiamò l'attenzione del Governo sulle deplorabili condizioni del Pontificato... Misericordia!... S. E. Mezzacapo ha sul momento emanato energiche disposizioni pel richiamo sotto le armi della... guardia nazionale. Meno male che il signor D'Aspromonte ed il facoso Goande di Spagna furono là per là fischiati per l'incruento campo di battaglia.
L'Irlanda però si agita freneticamente, ed invia innumerevoli petizioni al Parlamento Inglese. Ed in Francia si deve all'energia di Giulio Simon e di tutto il partito liberale se l'appello alle masse del fanatico Vescovo di Nevers non ha preso larghe proporzioni. Tutte queste mene fuori luogo e fuori misura provocarono le rimostranze dei Governi, ed il cardinal Simeoni fu costretto ripetere ai suoi vescovi il classico motto di Talleyraud: et surtout pas trop de zèle... Potenza delle mistificazioni!...
Arrivano già a Roma le prime schiere dei pellegrini. Sono per ora truppe di Savojardi e Brettoni guidate da vescovi. Si dice che au complet sorpasseranno i quarantamila... Se li vedeste!... La maggioranza è di preti, coll'inevitabile codazzo di serve, nipoti, sorelle. È un mare di cuffie d'ogni tinta e colore che contorna, con merletti d'equivoca bianchezza, nasi lunghi e bitorzoluti, guancie di cartapecora, menti aguzzi costantemente adorni di vegetazioni primaverili. È una miriade di colli torti, grinze allarmanti, spigoli e vuoti dinnanzi a cui il pensiero si arresta rispettoso... Oh! Dove andasti poetico pellegrinaggio Andaluso del passato ottobre?... È inutile. Unica pellegrina possibile in questo mondo è la donna spagnuola. Essa contempera le esigenze dello spirito con quelle della... materia, serve Dio ma fa un sorrisetto a Mefistofele, si inginocchia divotamente, ma lasciando scorgere una gamba da far impazzire, sgranocchia il rosario, ma con dita da mangiarsi, biascica un paternostro atteggiando la bocca ad un bacio... Ricordo certe figure che vagolavano alla sera su e giù pel Corso, e sembravano formate di nuvole e di luce, e che saettavano attraverso le nere mantiglie sguardi assassini da porre in corpo a Voltaire l'entusiasmo di Torrequemada... A fianco di tali pellegrine, io pellegrinerei anche... Lasciamola lì.
Il mese d'aprile fu battezzato con una levata di scudi degl'internazionalisti. Le speranze sollevate col 18 marzo, il famoso ponte di cui si fece allora tanto scalpore; tutto può avere consigliato partiti estremi a chi pesca nel torbido. L'arresto delle bande fu affare di tre giorni e d'una compagnia di soldati, né si sparse una goccia di sangue. Il Ministero però credette opportuno sciogliere tutte le associazioni internazionaliste d'Italia, ed occorrendo, tutte quelle altre che accennino ad uscire dalla cerchia dello Statuto. Avviso alle repubblicane e clericali. Questo fatto, che tronca i nervi a molte speranze, attirò gli innocui fulmini di quella stampa che vive di pettegolezzi e raccatta per via quanto può contribuire a rallentare i vincoli sociali. La Sinistra intransigente portò la questione in Parlamento con una interpellanza. Il Ministro Nicotera ricusò di rispondere. È forse la prima volta che la lingua gli rese un buon servizio, tacendo. Ed è da lodarsi.
Sul resto nulla di nuovo. I partiti lavorano sott'acqua, e come al solito le trasformazioni succederanno improvvise e sbalordiranno il pubblico che beve grosso. Il Senato è imprendendo la discussione dell'ormai celebre progetto di legge sull'abuso dei ministri dei culti. L'Ufficio Centrale, con una brillante relazione del senatore Lampertico, avea conchiuso pel rinvio al Codice Penale. Ma ostinatosi il ministro Mancini, si è impegnata una lotta che dura da tre giorni, e che si prevede terminerà colla vittoria del Ministero. Alla Camera si combatte un'altra lotta accanita sul progetto di legge per l'imposta fabbricati, ed altre ne sono in vista per tutti i progetti presentati colla esposizione finanziaria. Si discuterà poi fra breve l'importantissimo progetto sui servizi marittimi, di cui è Relatore il nostro concittadino onorevole Cocco-Ortu. La sua bella relazione fu lodata da tutti i giornali d'ogni partito, ed io nella mia doppia qualità di Sardo e d'amico applaudisco di cuore. È ormai tempo che la Deputazione Sarda, rafforzata coi giovani elementi che tutti conosciamo, prenda il suo posto nel Parlamento Italiano, si mescoli alla vita pubblica, ed affermi sé stessa e le sue idee nelle questioni d'interesse generale, onde non si dica di lei che è indifferente a tutti gli affari che non coinvolgono un interesse sardo. Ed è soltanto col parlar di tutto che si acquista l'autorevolezza necessaria a parlar utilmente alla sua volta per la diletta Isola nostra.
Punto e basta. Rileggendo le corbellerie schiccherate finora, dichiaro che la presente è la Corrispondenza dei punti interrogativi.
Roma, 1º maggio 1877.
Il Nipote

Anno III Num. 20 Sassari, 20 maggio 1877

NOTE ROMANE
(pagg, 283)
(RITARDATA)
5 maggio
La guerra!
Dunque i due potenti avversari si sono finalmente intesi... Dunque il risultato finale del protocollo, di questa sciarada politica, la cui soluzione ha messo i brividi addosso all'Europa doveva essere annunciato dal cannone?
Ed il cannone si incarica di risolvere il terribile problema presentato dalla situazione più che mai disastrosa, e vuole ad ogni costo farla finita colla pace armata per arrivare alla pace pacifica.
Una pace nefasta, come quella durata finora, a furia di massacri e di atti di vera barbarie, era impossibile che potesse più a lungo sopportarsi.
La diga è rotta e... avanti!
Ma quale sarà per essere l'atteggiamento che prenderà l'Europa spinta nel vortice dalla forza degli avvenimenti?
Fa ancora buio...
È però curiosa: l'Europa vuol la pace, e si diverte in armamenti, e non bastano i miliardi per nuove fortificazioni, per nuove macchine da guerra. Tutto però fa prevedere che la guerra sarà localizzata, e che non si tratterà in fondo in fondo che d'un duello ad ultimo sangue, magari senza i dovuti riguardi di cavalleria, fra la Turchia e la Russia. Però, diciamolo ad onore della Turchia, di questa povera schiava, derelitta nel cammino della civiltà e del progresso, come un anacronismo vivente: essa si accinge alla terribile prova, forse col dolore di rimproveri non meritati, ora che faceva del suo meglio per riuscire ad una onorevole transazione, ma certo senza paura. E pensare che essa, buttatasi a capo fitto nelle riforme liberali, si disponeva a conquistare colla prova di qualche mese o poco più la grande opera delle nuove istituzioni, la libertà, l'uguaglianza dei cittadini... l'opera di sapienti riforme, insomma, alla cui attuazione non bastarono per altri Stati lunghissimi anni di sacrificii, e quasi secoli di aspettazione.
Bisogna convenire che se n'è accorta troppo tardi!
Ad ogni modo, giova sperarlo, noi non risentiremo alcunamente gli effetti di questa guerra, se non in quanto forse ha riguardo al commercio ed ai listini delle borse: qui davvero è stato un tracollo generale. Al primo allarme i fondi pubblici, sorpresi a mezza via in un'aurea ascensione, che ci facea dimenticare quel po' di malinconia di corso forzoso e di ricchezza mobile, son venuti giù a precipizio, e per qualche giorno l'oscillazione fu sensibilissima.
Gavino Musio

Anno III Num. 21 Sassari, 27 maggio 1877

NOTE ROMANE
(pagg. 296-297)
È vano il dissimularlo: in questo momento ogni preocupazione è rivolta all'Oriente, dove si assiste ad importanti movimenti, dove tutto fa credere che la guerra non sarà per finire così presto, accompagnata come dovrà essere da quelle orribili catastrofi che sono conseguenza necessaria dell'urto di due popoli forti a senno, mossi da odio di razza, da antiche ire, da più antiche e sempre nuove pretensioni, e quel che è peggio, dal fanatismo di religione, bastevole per sé solo a muovere a rovina il mondo, e a ridurlo ad un'ecatombe, ove la vera religione non fosse una civiltà per sé stessa, professata dalla maggior parte degli Stati, ed attuata splendidamente nelle vie del progresso.
La dichiarazione di neutralità delle principali potenze rassicura meno male la situazione, e tutti quelli che la pensano bene l'hanno accolta con plauso, come pegno del buon senso dei governanti, e come arra sicura di minori peripezie nella terribile lotta.
***
Eccoci qua nel campo della politica! È inutile: anch'io, povero cronista, a tempo perso seguo l'andazzo comune col ripetere le frasi tolte ad imprestito dai giornali, ad impicciarmi di codeste noie che in fondo in fondo risentono d'un aridissimo ed ostico argomento, cui certo non possono fare buon viso le amabili lettrici della Stella.
Ma sì, andate a scrivere delle note senza che il pensiero ricorra spontaneo a quanto succede all'Estero in questi chiari di luna: è questo l'ambiente, questa l'aria che si respira. La parte politica ha il predominio su di tutto, e il cronista ha un bel da fare per ordinare alla meglio la sua corrispondenza onde riuscire a renderla affatto estranea a queste melanconie di tutti i giorni.
La crisi ministeriale in Francia è giunta a proposito a rincarar la dose. Mancano ancora le notizie precise sulle cagioni che l'hanno prodotta; ma già era preveduta a motivo di divergenze d'opinioni fra i ministri medesimi e fra i componenti della maggioranza della Camera dei deputati.
Intanto Giulio Simon ha dato le sue dimissioni e, non è a dire, la lettera di monsignor arcivescovo Guibert ha prodotto il suo effetto... pel momento.
Oh Francia! Vera girandola di forme di governo di repubbliche e di monarchie multiformi, di pretendenti e di pretensioni senza numero, di repubblicani e di legittimisti a doppio fondo!
Se non fosse la tua Storia gloriosa, o venisse meno l'ammirazione per il tuo passato e la riconoscenza che ti si deve eterna per la rivoluzione da te iniziata col proclamare i diritti dell'uomo, chi ti salverebbe dalla severa sentenza dell'Alfieri?...
Ed è superfluo che io qui la ricordi.
***
Nella tornata del 16 corrente alla Camera dei deputati, fra altre varie petizioni fu trovata quella presentata dal senatore del Regno marchese Pes di Villamarina, concernente, se non erro, un povero veterano delle patrie battaglie che chiedeva una pensione.
E la morte avea già segnato nei suoi obliosi annali il nome di questa vittima illustre!
Parole di compianto e d'elogio furono pronunciate dal Presidente, e a quelle si associò il Ministro della guerra in nome dell'intero Gabinetto.
Il nome di Salvatore Pes di Villamarina rimarrà gloria venerata e sacra nelle pagine del nostro nazionale riscatto, a capo di quella falange d'eroi che ha dato il suo sangue a battesimo di un'idea generosa nelle prime infelici prove!
Gavino Musio

Anno III Num. 23 Sassari, 10 giugno 1877

CRONACA DELL'ISOLA
(copertina)
Parlasi della probabile nomina dell'onorevole Ferracciu a Segretario Generale del Ministero di Grazia e Giustizia.
***
Da alcuni egregi cittadini di Cagliari si è progettato di mandare un indirizzo di ringraziamento all'onorevole Zanardelli per le cure prese onde soddisfare i voti della Sardegna per le ferrovie.
***
La Convenzione delle nostre ferrovie veniva testé approvata anche dal Senato; non manca oramai che la firma reale al decreto per rendere pago il desiderio di tutti i Sardi. Vennero spediti da Cagliari e da Oristano telegrammi di ringraziamenti ai ministri Depretis e Zanardelli e all'onorevole Vellaro relatore. E Sassari?... Zitto come olio!

 


CRONACA POLITICA
(da pag. 320 a pag. 322)
(Maggio)
Segnalo all'attenzione dei lettori della Stella due pettirossi sfuggiti al Proto nella stampa della Cronaca d'aprile. Con uno slancio poetico da far venire la pelle d'oca, mi ha scambiato il Ministro degli esteri del Belgio, Conte D'Aspromont-Linden, con un signor D'Aspromonte. Mi pare di vederla quella povera montagna sollevata dalla sua secolare residenza dell'estrema Calabria, e costretta a posarsi dolcemente nei dintorni di Bruxelles. E quel facoso goande di Spagna che viene immediatamente appresso, non vale un tesoro? Prego la Direzione a mandarmi la fotografia del venerabile Proto che raffazzona la storia contemporanea in modo da dare dei punti a... Cesare Cantù.
Ciò premesso a scarico di coscienza, ecco la mia cicalata mensile.
Non fui profeta quando dissi che, ad onta della manifestata opposizione, il Senato avrebbe finito coll'approvare il progetto di legge sugli abusi dei Ministri dei culti. Con una maggioranza di sette voti l'ha invece respinto. Fu una baraonda da non dirsi. Applausi, forse troppo strani e fuori di luogo, dei moderati: accuse piene d'esagerato rancore dei progressisti. Si ricorse perfino al brutto appellativo di clericale o peggio, ad uomini onorandi che tanta parte ebbero nello svolgimento dell'epopea nazionale. Considerando le cose dal punto di vista dei principii da me largamente enunciati finora, non dovrei dolermi di questo voto, che dopo tutto è un nuovo omaggio alla solidità delle nostre istituzioni. Tuttavia fu accanitamente combattuta per tre giorni una lotta partigiana da uomini che, come il Cadorna, occupano un eminente posto politico e sociale, ed in ambienti che, come quello del Senato, dovrebbero essere sempre chiusi alle gare dei partiti. È quindi a deplorarsi così triste spettacolo in faccia alla marea montante della reazione europea congiurata ai nostri danni, e che con quarantamila pellegrini razzolati dalla feccia dei sacristani di tutto il mondo, viene allo assalto della nostra Capitale. Che il cielo mi perdoni, ma in un momento di bizza, anche l'uomo più serio dovrebbe dimenticare il suo Credo, e desiderare che il diritto di comandar in casa sua sia affermato con qualcuno di quegli argomenti che Don Basilio poneva in tasca al Conte d'Almaviva.
E se si guarda all'estero, quelli che studiano l'intricato problema secondo le peripezie sociali hanno ragione da vendere. La Francia, la Francia di Voltaire, s'infeuda di nuovo alla Sacristia; toglie la direzione dei suoi affari a Giulio Simon, ossia ai repubblicani conservatori, e la consegna al Duca di Broglie, ossia agli Orleanisti puri. Ma che dico la Francia?... Perché gettar sulle spalle della generosa Nazione sorella il manto d'infamia che così imprudentemente ha voluto regalarle il neo-deputato Medoro Savini, facendola più da romanziere che da politico, in una sua interpellanza al Parlamento? Mentre le maggioranze, fiduciose della forza numerica, dormono i sonni beati; le minoranze, che vivono soltanto e si affermano a patto di scaltrezza, scavano gallerie sotterranee come le marmotte, e coi colpi improvvisi meravigliano ed impauriscono le masse. Giulio Simon, interpellato nella Assemblea di Versailles sugli indirizzi dei Vescovi a favore del Papa, con un brillante ed applaudito discorso affermò ancora una volta gl'intendimenti liberali della Francia, ed ottenne uno splendido voto di condanna dei movimenti antipatriottici del partito clericale. Pochi giorni dopo, il maresciallo Mac-Mahon prendendo a pretesto le idee svolte dal Ministero intorno al progetto di legge sulla stampa, lo ringraziò con una lettera tale da scambiarsi facilemente con un Ukase Moscovita. Il successore Duca di Broglie prorogò l'Assemblea senza accordarle la parola per giudicare la grottesca crisi, ed ora pensa a scioglierla. In faccia ad avvenimenti così chiari, si oserà ancora affermare che ne ha colpa la Francia? Il governo dei quattro Duchi (Di Magenta, Di Broglie, D'Audiffret-Pasquier e Decazes) ha un riscontro nefasto con quella di Napoleone nel 1849 dopo la cacciata del Ministero Odilon-Barrot. E la Germania insospettita, pensa già a rafforzare le guarnigioni dell'Alsazia e della Lorena. Non si oserà ritardare le elezioni generali. Ad onta che si voglia preparare il terreno con un rimaneggiamento di Prefetti, la Francia vorrà, come sempre, dar ragione al Gambetta ed al Thiers, anziché a monsignor Guibert ed al Duca D'Aumale.
Ma torniamo in Italia.
Dissi altra volta che l'onor. Sella fa da qualche tempo l'occhialino tenero ai Centri ed alla Sinistra moderata. Sono pochi a dir vero che capiscono il granitico Alpinista diventar d'un tratto tutto cuore pei poveri contribuenti, tutto brodo di giuggiole per la mitigazione delle imposte. Pur lasciando piena libertà d'opinione al partito di Destra, di cui è il moderatore, tuttavia egli appoggiò e votò alla Camera il progetto sugli abusi. E dopo il voto contrario del Senato, credette opportuno dimettersi dalle due cariche di Capo dell'Opposizione parlamentare e di Presidente della Associazione Centrale Costituzionale. Crebbero quindi i sospetti della prossima creazione d'un nuovo partito formato dai dissidenti d'ogni colore. Il primo a porre le carte in tavola fu il Bersagliere, con modi invero molto franchi, ma spesso non troppo... parlamentari. Il Sella s'accorse che non era venuto il suo tempo, e ripiegò sovra sé stesso. Stette fermo sulla dimissione della seconda carica, ma conservò a malincuore la prima, ed attese una circostanza per dimostrare la purezza della sua fede. La circostanza non tardò a presentarsi.
Colla esposizione finanziaria l'onor. Depretis avea presentato un progetto di legge per una nuova tassa di fabbricazione sugli zuccheri indigeni, e per crescere le tariffe doganali sul caffè, petrolio ed olii minerali. Nei giorni scorsi si ebbe la discussione, e la babele fu tanta, che si ebbe qualche paura sullo sfasciamento del nucleo che avea reso possibile il 18 marzo. La Destra, capitanata dal Sella e dal Minghetti, e la Sinistra estrema, condotta dal Bertani, si trovarono stranamente unite sul terreno del combattimento. Ed il pubblico fu costretto a strabiliare vedendo il Sella votar l'ordine del giorno Muratori con cui si chiedeva la diminuzione di cent. 10 al kilogr. sul prezzo del sale!... E se non ridi...? ecc.
La stessa Maggioranza non tralasciò di scaricare i suoi fulmini (spesso mal pensati e peggio detti come quelli dell'onor. Tajani) contro la nuova imposta qualificata come un abbandono del programma di Stradella. Dicesi che Nicotera udendo il La Porta, il successore in pectore dello Zanardelli, far anch'egli il suo discorsetto di biasimo, abbia esclamato colle lacrime agli occhi: tu quoque La Porta...? Se non è vera, è ben trovata.
Ma la questione di fiducia posta dal Depretis ed un quos ego cascato proprio a tempo dalla bocca del Cairoli (la figura più simpatica e più autorevole del Parlamento dopo il Garibaldi), valsero a riconfermare al Ministero 157 voti di maggioranza. Se non capita nulla di nuovo pel Bilancio dell'interno, come pretende qualche periodico, fino a novembre si può dormire fra due guanciali.
Si ebbe motivo ad accapigliarsi di nuovo, anche con una interpellanza Sella, per effetto delle disposizioni del ministro Mezzacapo nell'alto personale dell'esercito. Molti generali furono collocati a riposo, molti in disponibilità, e le promozioni per cuoprire i posti vacanti avvennero a scelta e con criterii non conosciuti da alcuno. Come al solito, applausi e fischi dai due campi avversi. Non me ne intendo, e me ne lavo le mani. Auguro però un Capo egualmente energico in ogni Ministero per sfatare il principio d'intangibilità degli alti papaveri della burocrazia, che finora era fuori di discussione. Finché non si arriva a questo, non si avrà mai il terreno libero per attuare le riforme che costituiscono il punto cardinale del programma della Sinistra.
Ieri si tenne al Teatro Apollo un meeting promosso dall'Associazione Repubblicana Centrale, allo scopo di protestare contro la levata di scudi del clericalismo. Avrebbe dovuto celebrarsi dopo dimani, 3 giugno, anniversario dello Statuto e giorno del Giubileo Episcopale di Pio IX, ma intervenne a tempo un veto della Questura. Mercé un concordato fra l'Autorità ed i promotori, si anticipò di tre giorni e si sfoderarono le solite frasi delle grrrrandi occasioni, dette però in modo da non far né caldo né freddo.
Sulla guerra d'Oriente, poco ho a dire. La Rumenia ha proclamato la sua indipendenza dalla Porta coi Russi in casa. Si chiamerebbe in volgare, cascar dalla padella nella brage. La Serbia, il Montenegro, l'Erzegovina, la Grecia attendono che le cose si facciano più calde. Anzi quest'ultima, per ingannar la noia dell'aspettativa, ha mandato a casa il Ministero che era andato al potere 15 giorni prima; perché colà le crisi sono periodiche come la terzana. L'Austria concentra le sue truppe d'osservazione nella frontiera bosniaca; e Costantinopoli, dopo una rivoluzione dei Softas, fu posta in istato d'assedio. Intanto 300000 Russi preparano con calcolata lentezza il passaggio del Danubio, e per eseguirlo si attende che lo Czar in persona venga a porsi sulla testa della armata.
Le cose camminano più spiccie in Asia. Delle tre fortezze, Ardaghan, Kars ed Erzeroum, che sbarrarono loro la strada, i Russi espugnarono la prima, circondarono la seconda con un corpo d'osservazione, ed ora s'incamminano verso la terza. Senonché le cose si complicano mercé una ribellione di Circassi fomentata alle loro spalle dal celebre rivoluzionario Magiaro, il generale Klapka.
Chiudo la Cronaca con una notizia schiettamente paesana. La convenzione sulle nostre ferrovie, presentata alla Camera il 17 maggio, fu già esaminata dagli ufficii. La Commissione in due giorni ha terminato i suoi lavori, e fra breve vedremo il progetto all'ordine del giorno. È un miracolo d'attività parlamentare di cui va tenuto conto ai nostri deputati che ne hanno tutto il merito. Giacché in tutta la mia cicalata fui costretto a fischiar senza posa, mi si lasci almeno una volta la soddisfazione d'applaudire.
È anche prossimo a discutersi l'altro progetto pel pareggiamento della nostra Università a quelle di secondo ordine.
Ho finito. Scongiuro a mani giunte il Proto a non farmele sballar troppo grosse.
Roma, 1º maggio 1877.
Il Nipote

Anno III Num. 27 Sassari, 8 luglio 1877

CRONACA DELL'ISOLA
(copertina, vol. V)
Proveniente da Roma il 1º corrente si restituì a Cagliari il senatore conte Francesco Maria Serra, a cui noi dobbiamo essere riconoscenti per aver egli caldamente patrocinato la causa della nostra Università.
[...]
E un'altra cara esistenza spenta: l'onorevole nostro concittadino Francesco Sulis, deputato del Collegio di Ozieri, è morto il giorno 29 dello scorso mese a Roma. Era un ingegno che faceva onore alla nostra Sardegna, e tutti i Sardi devono versare una lagrima per la sua memoria!

 


NOTE ROMANE
(pagg. 22-23, vol. V)
Ed ora un po' di cronaca paesana.
Nato e cresciuto in Sassari, educato agli studii in quella simpatica città a cui tante memorie e tanti affetti mi legano, non potei anch'io non partecipare alle vostre ansie ed ai vostri timori in quei due giorni che la legge del pareggio dell'Università della mia patria era in discussione al Senato.
Si è lottato con onore, ed abbiamo vinto, non ostante ogni prevenzione, ogni malinteso principio di giustizia, ogni preconcetta osservazione d'opportunismo e di equità.
Ciò che per noi si voleva era il secomum ius fumma iniuria: e mentre noi si gridava: "Abbiam poco, ma questo poco è nostro", molti dicevano: "Per questo poco è meglio nulla: o tutto o niente"! Giustizia distributiva!
Lode al Ministro che primo ha saputo rivendicare il nostro nome e la nostra dignità al gretto raziocinio dell'opportunismo! Egli colla sua energia appianò ogni questione e noi sassaresi dobbiamo serbargliene eterna riconoscenza avendo fatto dell'approvazione della legge in Senato questione di portafoglio.
Lode ai deputati sardi, che tutti uniti risposero all'appello, e sostennero la causa, ma più che ad altri lode al vostro deputato Garzia ed al sindaco di codesta città commendatore Pasella.
Né può essere qui dimenticato il nome del senatore Serra: dacché egli associò la sua valida parola a quella del suo collega e dei deputati sardi. Voi forse conoscete di già le parole pronunciate dal Sella e dal Pasella in questa occasione, e mi passo dall'accennare alla forza degli argomenti e delle considerazioni che si sono svolte.
Io finisco coll'animo ben lieto di poter affermare che la Sardegna ha tali uomini degni delle sue tradizioni e della sua grandezza: tali uomini, che, qualunque sia il partito che rappresentano, il popolo deve stimare ed apprezzare altamente, perché li riconosce sempre uguali a sé stessi, sempre fermi ed attaccati saldamente alla dignità del loro paese ed al solo interesse del mandato che hanno ricevuto!
Gavino Musio

Anno III Num. 28 Sassari, 15 luglio 1877

CRONACA POLITICA
(da pag. 33 a pag. 36)
(Giugno)
I lettori della Stella mi perdoneranno se son costretto a cominciare la mia corrispondenza con una necrologia palpitante d'attualità.
Questa mane fu trasportata al Campo Varano la salma del prof. Francesco Sulis, deputato del Collegio d'Ozieri, morto la sera del 29 giugno. In poco volger di tempo la Sardegna ha dato al Cimitero della Capitale l'ingente tributo dei cadaveri di tre illustri suoi figli. Li registro per ordine di data. Musio, Asproni, Sulis. Una trinità di cui possiamo andar superbi.
Gli ultimi giorni dell'esistenza del Sulis furono amareggiati dall'insulto di cui una stampa partigiana volle macchiarne la fama intemerata. Vistosi impotente ad adempiere i doveri dell'insegnamento per la malattia che l'incalzava, colla coscienza dell'uomo onesto chiese d'essere collocato a riposo. Poco tempo prima, sette deputati professori (fra i quali il nostro Umana) in eccedenza al numero fissato dalla legge elettorale, uscirono dalla Camera per sorteggio. Erano quindi tutti sette ineleggibili se non rinunziavano alla cattedra. Per disgraziato incidente, o per cattiveria, altrui non voglio discutere, il decreto che collocava a riposo il Sulis comparve nella Gazzetta Ufficiale un giorno prima delle elezioni suppletorie. Chi ne profittò fu il Baccelli deputato del terzo Collegio di Roma. Le grida della stampa moderata andarono al cielo. I tre nomi del Sulis, del Baccelli e del Coppino furono coinvolti in una stessa maledizione. Si disse spudoratamente che il Sulis si ritirò colla promessa d'esser nominato senatore. Si sussurrò sottovoce anche la schifosa parola: mercimonio.
Chi, come me, conoscea profondamente la fierezza di quell'anima antica, ne rise. Ricordo ancora lo sdegnoso cipiglio ed il fulmineo baleno di quegli sguardi allorché alcuno osava parlarne in sua presenza. Ad ogni modo, per quei poveri di spirito che bevono grosso e credono vangelo le fiabe del giornale cui sono abbonati, voglio accennare a qualche prova che delinea la tempra d'acciaio dell'illustre estinto.
La nomina a senatore non venne; ma non venne neppure una delle settantadue commende politiche piovute sulla maggioranza parlamentare in occasione dello Statuto. Quello stesso ministro Coppino col quale egli avrebbe, come si afferma, mistificato le urne, collocandolo a riposo non gli fu larga di alcuna di quelle distinzioni con cui s'indora sempre la pillola del dimezzato stipendio. Anche agli scaccini delle Università si dà se non altro, il titolo d'uscieri capi.
Ma v'ha di più. Egli era oramai tre mesi attendendo che gli liquidassero la pensione. Sopravvenne la baraonda dell'ultima malattia, e quindi il raddoppiamento delle spese. La desolata Vedova dovette ricorrere al Ministero di pubblica istruzione che antecipò una somma per sopperire ai bisogni urgenti. E la Questura della Camera s'incaricò del funerale. Mi si taccerà da alcuni come poco delicato per la pubblicazione dei particolari così intimi. Il pubblico intelligente comprenderà il mio pensiero, e i Sardi manderanno un mesto saluto alla lontana tomba di lui che, morendo povero, volle dare una mentita a chi avea attentato alla sua fama.
Detto tutto questo che mi faceva gruppo alla gola, passo a cose più allegre.
Gli occhi dell'Europa sono rivolti verso la Francia. In quello sfortunato paese in cui facilmente attecchiscono le utopie politiche di tutti i colori, dalla rossa alla nera, si combatte ora una lotta decisiva fra libertà e reazione. Legittimisti, Bonapartisti, Orleanisti giurarono nelle mani del prete la tregua di Dio per gettarsi uniti contro la repubblica conservativa del signor Thiers. Tutti si strinsero attorno al maresciallo Mac-Mahon, il quale inconsciamente si presta alla parte di Mouk in sessantaquattresimo a favore di Enrico V, di Napoleone IV o di Luigi Filippo II, a scelta, dopo i risultati della guerra civile.
Come dissi nella cicalata dello scorso mese, dopo aver bruscamente rinviato Giulio Simon e data la vice-presidenza del Consiglio al Duca di Broglie, il Maresciallo prorogò l'Assemblea. Riprese le sedute, si ebbe una discussione di tre giorni in cui le più basse passioni ebbero sfogo triviale, e si creò una nuova eloquenza parlamentare a beneficio dei Cossagnac e dei Larochefaucauld. Il gruppo delle tre sinistre, soggiogato dalle brillanti requisitorie di Bethmont, di Giulio Ferry e di Leone Gambetta, votò compatto un ordine del giorno di solenne biasimo al nuovo indirizzo della cosa pubblica. Ma il Ministero, valendosi della facoltà data dalla Costituzione al Maresciallo, avea già proposto al Senato lo scioglimento dell'Assemblea. Anche in questo Consesso il Duca di Broglie dovè sostenere un'aspra guerra colla Sinistra capitanata da Giulio Simon, da Laboulaye, e sopratutto da quel vulcano d'eloquenza che si chiama Victor Hugo. Ad onta di ciò lo scioglimento fu approvato con venti voti di maggioranza. Ora il Ministero ha tre mesi dinnanzi a sé per prepararsi alle elezioni generali. Le Sinistre dell'Assemblea e del Senato fecero già il loro manifesto al paese. Il Ministero manipola i Prefetti e si prepara ad influir col Clero sugli elettori delle campagne. Ma le urne in Francia sono boîtes à surprise. Basta ricordare lo scacco subito dal Buffet nel 1875 sebbene si fosse appoggiato agli stessi elementi ed avesse giuocato le stesse pedine.
Non c'illudiamo. Lo scioglimento della crisi francese interessa l'Europa. La vittoria della reazione avrebbe il suo contraccolpo a Berlino e a Roma. Il maresciallo Moltke ed il Solitario di Varzin si preparano alla chetichella ad ogni evento, e scrutano pensierosi l'orizzonte facendo gl'indiani. Il nostro Melegari invece tesse una lirica litania di complimenti all'indirizzo del Duca di Broglie facendolo chiamare ufficialmente dal nostro ambasciatore, illustre uomo di Stato. In questi giorni non ho veduto il muso degli onorevoli Brin e Mezzacapo, per misurare di quanto si sia allungato contemplando i platonici amori del loro Collega.
Il secondo grattacapo europeo è l'eterna e noiosissima questione di Oriente. Pare che i ferri si scaldino, e che pei Turchi l'ora di pigliarle sia suonata. In Asia i Russi si arrovellano attorno alle due piazze forti di Kars e d'Erzeroum. Anzi ieri circolava la voce, poi non confermata, che la prima avesse già capitolato. Ad ogni modo una tal catastrofe poco potrà tardare. E tolto questo, nessun altro ostacolo d'importanza potrà arrestare la marcia trionfale dei Russi attraverso l'Armenia.
In Europa i Russi hanno passato il Danubio in due punti: nella Dobrutscia, impadronendosi di Matschin e delle colline circostanti; e più giù dirimpetto a Sistova. Così la prima linea di difesa è superata, e la guerra della Rumenia passò in Bulgaria. Rimane la seconda del quadrilatero di fortezza di primo ordine, e la terza dei Balcani. Ma col passaggio del Danubio, entrano in ballo i rivoluzionarii bulgari, erzegovesi, e giù giù fino alla frontiera greca, i quali coi Turchi in casa e coi soccorsi troppo lontani, non osarono finora muoversi. Non parlo dei Serbi e dei Bosniaci, che devono attendersi da un giorno all'altro un'occupazione austriaca. Tutte queste sarebbero rose e semplificherebbero il problema della localizzazione della guerra, se la diplomazia non si preoccupasse del contegno sibillino dell'Austria e della Germania e di quello forse troppo esplicito dell'Inghilterra. Incorreggibile nelle sue manie, fra una battosta e l'altra si sforza a pronunciare la parola pace, che le viene subito soffocata in gola dal rombo del cannone. Tutto calcolato, la situazione dell'Europa non è delle più ridenti.
All'interno, colla chiusura delle Camere vi è poco da spigolare. Da questo lato, fino novembre il mio compito è arduo assai.
Nel giorno dello Statuto Roma diede al mondo civile uno spettacolo inaudito di tolleranza e di libertà ben intesa. Due correnti diverse camminarono parallele per tutta una giornata senza che ne risultasse la più leggera confusione. Da un lato l'Italia nella sua rappresentanza, accompagnata dal suono della campana di Montecitorio e dei plausi di un popolo festante, risaliva il Corso e si portava al Quirinale onde presentare ancora una volta al Re Galantuomo la fede della Nazione nella sua unità, nella sua libertà, nel suo splendido avvenire. Dall'altro, una folla internazionale capitanata da cento vescovi, dopo essersi ubbriacata d'incenso e di preci liberticide sotto le volte del Tempio di S. Pietro in Vincoli, moveva al Vaticano per deporre ai piedi d'un altro trono i voti per lo sfasciamento della patria nostra. Solo verso sera alcuni troppo caldi, cui non cape nel cervello tanto raffinamento di libertà, tentarono una dimostrazione tosto repressa.; come lo fu quella più generosa ed anche più provocata degli studenti di Torino.
In questi giorni si sollevò un problema scottante che, ora che è cominciato, non si sa quando avrà a finire e quali nuovi carichi porterà alla Nazione. Il Comune di Firenze oberato di debiti, la maggior parte contratti per soddisfare le esigenze impostegli quando era Capitale, non sa più come distrigarsi neppure a passar l'annata. Dicesi che, per soddisfare alle istante del Peruzzi, Digny e compagnia, sia già pronto un progetto di legge da discutersi d'urgenza al novembre, e che contiene il rimedio per scongiurare il fallimento. Intanto si presteranno al Comune cinque milioni in buoni del Tesoro per provvedere al servizio di cassa del corrente esercizio.
Se la questione si chiudesse qui, sarebbe meno male. L'Italia ha da scontare un debito di riconoscenza con Firenze, ed è giusto che lo paghi. Ma dopo questa città viene Napoli, indebitata anch'essa in modo da far spavento. Vengono i tanti Comuni e Provincie paralizzati nel loro sviluppo por la stessa ragione. Viene Roma la Capitale definitiva che, tolti i monumenti di celebrità mondiale, è inferiore a molte città sorelle anche di secondo ordine. Il Ministero ha quindi sollevato una questione ardente; ha preso, come suol dirsi, una mala gatta a pelare. Io però non sono del parere di quelli che credono la si debba soffocare in sul nascere. È un'utopia ritenere che col pareggio materiale del bilancio dello Stato, siamo arrivati in porto. La Destra nei suoi sedici anni di governo tolse a Comuni e Provincie tutti i cespiti di entrata alquanto fruttiferi, e caricolle invece d'una falange di spese obbligatorie insopportabili. Finché non rientri l'ordine e le società minori non siano politicamente e finanziariamente ricostituite, come mai la società maggiore che ne è il riassunto potrà proclamare il suo pareggio economico? Coraggio adunque. Giacché la gatta si pela, non si badi agli strilli ed alle unghiate, e si metta a nudo addirittura la pelle.
Comincia lo sciopero dei Ministri. Nicotera, Brin, Mezzacapo, Coppino sono tutti in vacanza. Rimangono sulla breccia Depretis, Zanardelli e Majorana per definire gli affari, ferroviario e dei trattati di commercio, che si dicono prossimi a soluzione.
Chiudo con una notizia scientifica. Nel Congresso tenuto a Bruxelles sotto la presidenza di Re Leopoldo del Belgio, i rappresentanti dell'Italia, comm. Correnti, maggiore Baratieri ed ingegnere Adamoli fecero uno splendido rapporto della spedizione italiana nell'Africa Centrale guidata dal marchese Antinori, e dell'impianto della stazione geografica di Sehoa. Gli egregi uomini riscossero gli applausi degli scienziati di tutta Europa. Chiunque senta battere in cuore palpito di affetto per questa terra che ci vide nascere, non potrà non commuoversi vedendola conquistar passo passo il posto che le compete fra le nazioni sorelle.
Roma, 4 luglio 1877.
Il Nipote


Anno III Num. 29 Sassari, 22 luglio 1877

CRONACA DI CITTÀ
(copertina)
Elezioni. L'urna ha finalmente parlato: i due partiti così detti moderati e progressisti si sono battuti da valorosi, il paese gli ha applauditi, dando ad entrambi un voto di fiducia. Il nostro Consiglio Comunale sarà misto, vi sono uomini per tutti i gusti. Facciamo voti perché le nostre cose vadano bene.

Anno III Num. 30 Sassari, 29 luglio 1877

CRONACA DI CITTÀ
(copertina)
Rinunzia a consigliere. L'egregio nostro concittadino Conte di S: Elia ha rinunciato alla carica di Consigliere Comunale cui fu testè eletto. Pubblichiamo la lettera che egli scriveva il 20 corrente al Presidente della Commissione di scrutinio, spiacenti che il comune perda un ottimo Consigliere.
"Dall'elenco dei nuovi Consiglieri Municipali testé pubblicate rilevo come il mio nome figuri fra gli eletti.
Riconoscentissimo agli amici che si compiacquero dimostrarmi la loro stima in questa circostanza, io devo pregarli di dispensarmi per ora d'accettare l'onorifico mandato in vista delle gravi cure impostemi dal comando del Distretto Militare. Porrò ogni studio per non demeritare mai della stima e della fiducia che mi vennero ora dimostrate, e nella speranza di riuscirvi io li assicuro che quando avrò portato a termine la mia carriera militare accetterò con gratitudine qualunque incarico del quale vorranno onorarmi e pel quale mi offrano l'occasione di continuare a servire il mio paese con quella fedeltà e con quell'amore coi quali lo ho servito fino ad ora.
Spero che questa mia dichiarazione pervenga alla S. V. Ill.ma abbastanza in tempo perché si possa far occupare il mio posto da uno dei quattro eletti che trovo uniti sotto il Nº 40, ciascuno dei quali potrà rendere a questa cara città non più affettuosi, ma più intelligenti e più pratici servigi".

Anno III Num. 31 Sassari, 5 agosto 1877

CRONACA DI CITTÀ
(copertina)
Giunta comunale. Nella votazione a scrutinio segreta fatta dal Consiglio il 30 del passato luglio, vennero eletti i seguenti signori, che compongono la nostra Giunta: Crispi prof. Cav. Antonio, Fantini marchese Pietro, San Saturnino marchese Cristoforo, Nurra don Luigi, Bargone negoziante Michele e Soro Pirino avvocato. Supplenti: Sanna cav. Giuseppe, Sechi cav. Diego.

Anno III Num. 32 Sassari, 12 agosto 1877

CRONACA POLITICA
(da pag. 81 a pag. 83)
(Luglio)
Siamo alla canicola. Trentasei gradi centigradi in tutte le parti del corpo cui possa applicarsi il globicino misuratore. Gli undici palazzi politici della Capitale hanno tanto di chiavistello. Viceversa si fa la politica spicciola di campanile a Montecatini, Viareggio, Napoli, Cossila, Venezia, fra una boccata di brezza marittima od alpina ed un voluttuoso tuffo nelle onde. Ed io, dall'alto della colonna traiana invio un saluto giulebbato d'invidia in tutte le direzioni ai nostri politicanti in isciopero, affrettando col desiderio i primi freschi autunnali onde impedire che le mie povere corrispondenze muoiano d'anemia.
Davvero, non so come cominciare. Sarò costretto ad essere breve con immensa consolazione del proto e delle gentili lettrici. Veggo già il sorrisetto malizioso di queste ultime, le quali almeno per un mese hanno diminuita la narcotica dose della mia prosa obbligata. D'altra parte m'impensierisce il muso ingrugnato del Direttore che, per coprire i vuoti, dovrà ammanire all'improvviso due colonne di materia.
Bravo!... Non ha ancor cominciato ed è già venuta fuori una colonna a misura di spago. Chiedo perdono e comincio.
Tanto per non parere, prendo le mosse da lungi; per esempio... dall'America. Strano paese l'America!... Tutto ivi si manifesta in modo nuovo e colossale. L'amor di patria è in contrapposto col dispotismo di razza: il culto eccessivo di tutte le libertà gareggia colla più sfrenata corruzione: lo sviluppo di tutte le leccornie della civiltà moderna confina collo scetticismo e colla sete d'arricchire ad ogni costo. Ivi gli incendii annientano città intere, le guerre distruggono milioni d'uomini ed accrescono a miliardi il debito nazionale.
Secondo le ultime notizie, gli impegati e lavoranti delle ferrovie si sono posti in isciopero. L'esempio fu seguito dalle altre classi d'operai incoraggiati con numerosi meetings dal popolo delle grandi città, compresa la Capitale. Gli scioperanti uscirono in campo provvisti d'ogni sorta d'armi, perfino d'artiglieria; diedero battaglia alle truppe federali, ed in qualche scontro le vinsero; distrussero a colpi di cannone stazioni, treni, opificii rappresentanti vistosi capitali. Ora l'agitazione, sebbene non del tutto domata, pare abbia rimesso del suo primo vigore.
Coloro che hanno occhi soltanto per vedere il bello fuori di casa, gridano di continuo a squarciagola: "Guardate l'Inghilterra e l'America"! Gli spettacoli che l'una e l'altra di tanto in tanto ci offrono, persuadono a primo acchito che tutto il mondo è paese; e che se noi abbiamo delle questioncelle politiche di poco momento, non siamo però minacciati dalla questione sociale in permanenza.
Del resto lo zampino dell'internazionale pare abbia organizzato il gigantesco sciopero. Battuta a Parigi e a Barcellona, passa l'Atlantico e cerca nuove imprese nel Nuovo Mondo.
Facciamo anche noi un piccolo salto, e portiamoci nella valle del Danubio. Veramente non so se debba fermarmi là, o passare i Balcani e scendere nella valle più ridente della Maritza. Per me è indifferente, perché da Sistova ad Adrianopoli, per la bellezza di cento sessanta chilometri di linea retta, sono sicuro di trovare disseminati Russi e Turchi. I garretti d'acciaio dei cavalli Cosacchi presero la corsa, e non si fermarono che a poche leghe da Filippopoli. E mentre il mondo militare è ancora trasognato d'una marcia tanto ardita, essi attendono tranquillamente a fortificarsi nei paesi conquistati, chiudono in cerchi di ferro e bloccano le piazze del quadrilatero, dividendo in due l'esercito ottomano onde soffocarlo alla spicciolata. Inghilterra ed Austria fremono. La prima minaccia d'occupare Gallipoli e Costantinopoli; la seconda, la Bosnia e la Serbia. Viceversa poi non ne fanno nulla, ed i Cosacchi continuano il loro giuoco come se nulla fosse. A Londra si teme d'aggredir la Russia senza aver per alleata una potenza che abbia un'armata di primo ordine. E questa potenza non la si trova, perché tutte fanno lo gnorri. In Austria, se a Buda-Pest sono turcofili facendo della prosa mittingaia che lascia il tempo che trova; sono invece russofili a Vienna, massime nel partito militare. Eppoi si ha paura della sfinge tedesca. Nessuno sa che cosa si pensi a Berlino; e finché l'oracolo non parli, tutti hanno paura di muoversi. Anche quest'ultimo fenomeno è facile a capirsi. A Pietroburgo si dormiva dalla grossa nel 1866 e nel 1870. Ora si dorme, o si va ai bagni in riva alla Sprea. Una mano lava l'altra. Una volta il nordico pugno sfondò Parigi. Ora sfonda Costantinopoli. Et voilà tout.
La parte più ridicola della tragicommedia la godemmo quando i giornali austro-ungarici, anche ufficiosi, come il Pester-Loyd, si sbracciarono a seminar sospetti sulla politica italiana nella questione d'Oriente. Sognarono non so quali progetti di avventure e di conquiste in contraddizione con tutta la nostra storia e con tutti gli atti nostri. Se una causa di diffidenza impedisce ancora di stringere in modo più fraterno italiani ed austriaci, questa è causa di nazionalità non di conquista. Ma in confratelli della stampa d'oltr'Alpi dovrebbero capire dagli esempi del passato, che per quanti sforzi si facciano, la pera matura conviene che caschi. Dicono che il Beato Amedeo Melegari abbia sentito i brividi nella grotta di Monsummano in cui si trovava. E fu allora che concepì la celebre smentita, la quale valse a convincere tutti quelli che erano già convinti anche senza di essa.
In Francia continua la confusione delle lingue. I Prefetti, i Sindaci, i funzionarii tutti sono cucinati in tutte le salse e serviti caldi caldi nel banchetto dell'ordine. I signori Broglie, Fourton e compagni, servitori d'ogni interesse, escluso quello della Francia che li paga, sono per ora padroni del campo. Ma il piccolo Thiers lavora furbescamente sott'acqua col suo luogotenente generale Gambetta, e colla schiera dei trecento sessantatré che passeranno alla storia come i trecento delle Termopili. È da sperarsi per l'avvenire della Francia che le elezioni generali, fissate oramai al 14 ottobre, siano tali da far entrare per sempre nell'oscurità i campioni del clericalismo.
E in Italia? Abbiamo sottoscritto il trattato di commercio colla Francia, ma viceversa non ne conosciamo i particolari. Abbiamo la questione ferroviaria mezzo risoluta, ma chi la trova? Zanardelli se l'ha portata a Brescia, ed ora Depretis à son tour la porterà a Stradella. Auguriamoci che in un momento di distrazione non la imbotti nelle prossime vendemmie. Dovremmo per spillarla aspettar la primavera.
Circolò giorni or sono la sinistra notizia di una disgrazia toccata a Torino al Principe Amedeo. Conducendo da sé una nuova pariglia di briosi cavalli, fu rovesciato dalla vettura ed ebbe grave offesa al capo ed alla spalla. Vennero subito a tranquillizzare gli animi i telegrammi dei medici curanti che allontanarono ogni idea di pericolo ed assicurarono il progressivo miglioramento.
Lettrici, che il caldo vi sia leggero. Vi prego soltanto a non desiderare che continui per aver delle corrispondenze cortine, perché possa contentarvi anche nel fresco col beneplacito del Direttore.
Roma, 1º agosto 1877.
Il Nipote

Anno III Num. 36 Sassari, 9 settembre 1877

CRONACA POLITICA
(pagg. 129-130)
(Agosto)
Continua la cronaca del caldo.
Quaranta gradi centigradi all'ombra alle quattro pomeridiane, e trentatré gradi di notte!!... È addirittura lo stato febbrile. Per chi non ha preso il volo e non ha messo tra la sua persona ed il mare qualche migliaia di metri di distanza perpendicolarmente, se ne vedono delle belle. Giornali che rincarano la dose delle legnate da orbi che sono soliti a somministrarsi ogni giorno fra loro; il Fanfulla che, confessando d'aver caldo, depone per una giornata intera il suo caustico scettro; dieci donnette svelte e robuste (stile del cartello) che domani sera all'Esquilino, montate sui velocipedi, ci faranno vedere il mondo... orientale; progressisti che tirano a sassate contro gli amici (vedi il Diritto), e viceversa moderati che di tanto in tanto sentono il bisogno, non richiesto di dir mea culpa (vedi il Pungolo di Milano ed il Piccolo di Napoli). Se la dura ancora un mese, la Capitale del Regno sarà affetta da pazzia ragionante, ed il senatore Verga ne sarà il Sindaco.
Intanto le passeggiate dei ministri su e giù per l'Italia non hanno diminuito. Il Depretis trovasi da otto giorni a Stradella onde inaugurare i doveri della paternità incipiente; perché egli è padre d'un bel maschiotto, cui io senza ironia ed in tuono di profonda convinzione faccio l'augurio che Parini dirigeva al figlio del marchese Colombi. Lo Zanardelli scappò a Brescia per rinfrancarsi della patita risipola, e ritornare arzillo e fresco a conchiudere prima dell'apertura delle Camere l'affitto delle ferrovie colle società che stanno sul tirato. Mancini a Capodimonte e Brin a Livorno meditano sulle fresche aure... di là da venire.
A Roma è presente il Mezzacapo che, circondato da una doppia batteria di cannoni, fa inarcare le ciglia all'Europa preparandosi a sciogliere con fiero cipiglio il problema delle fortificazioni della Capitale. Vi si trova anche il Majorana che, aiutato da quei due omenoni del Mamiani e dello Scialoja, spezza ai rappresentanti degl'Istituti Tecnici di tutta l'Italia il pane della scienza del Diritto e dell'Etica Civile. Lettrici della Stella; sapete voi che cos'è l'Etica Civile?... No?... Meglio così. Soprattutto vi prego a far in modo che non lo sappiano mai i vostri padri, mariti, fratelli ecc. Sarebbero noiosi come un articolo di fondo dell'Opinione.
Il Nicotera poi, il Briareo del Ministero, dopo essersi purgato il fegato nelle acque di Cossilla, dopo aver dichiarato definitivamente chiusa la questione della pubblica sicurezza in Sicilia; se la vede cascar sulle braccia sotto nuova forma, coll'aggiunta di un'altra non meno difficile ed intricata. La Sicilia reagisce contro il sistema troppo spiccio con cui il prefetto Malusardi mette i briganti all'ombra. Si parla di abusi di potere, di legnate fioccanti sulle spalle di pacifici cittadini, ed altre bazzecole simili. Una recente circolare della Procura Generale di Palermo arieggia a rinnovellare la questione Tajani Medici d'infausta memoria. E a Napoli la camorra organizzata si slancia petulante nelle vie, condanna una vittima ed eseguisce la sentenza in pieno giorno, getta fiori e confetti all'assassino ed insozza di lordure il cadavere del condannato.
Conviene confessare che abbiamo da guarire due gran brutte piaghe. Ed il mondo civile ci dà la baja. Esempio il Governo Inglese che avverte i suoi connazionali di andare ben guardinghi viaggiando in Italia. La questione è seria e scabrosa, perché tra briganti accoppati o tradotti alle Assisie e quattro camorristi o maffiosi mandati a domicilio coatto potranno attutire la cosa per pochi mesi, ossia finché dura il periodo dell'intimidazione. Intanto l'Italia sacrifica le migliori vite dell'esercito e spende tesori per ottenere risultati così meschini. Si gridò tanto contro i moderati perché dal 1860 a questa parte non mossero un dito per trasformare e ridurre a civiltà il popolino delle provincie meridionali, che hanno pur tanti elementi per essere una forza della nazione, mentre finora ne furono il calcagno d'Achille. Che hanno fatto o accennano di fare i progressisti? Se in ogni Comune si avesse per Sindaco un Duca di San Donato, il quale a Napoli afferrato il martello della civiltà cominciò a demolire quei luridi fondaci di Porto e Mercato che erano l'obbrobrio dell'umana natura; metto pegno che la maffia e la camorra sparirebbero come per incanto. Vedremo quali strade batteranno il Nicotera ed il Mancini onde cicatrizzare la piaga, già tanto vecchia eppur sempre nuova, che si fa al nostro onore in faccia all'Europa.
La crisi francese s'approssima al suo termine. Il popolo che dal 16 maggio a questa parte dovette sopportare in mille modi la cuffia del silenzio, nel venturo ottobre dirà l'ultima sua parola. Intanto il brutto sistema delle demolizioni personali, che trovò facili imitatori anche da noi, continua in larga scala. Un giorno è Thiers che i giornali moderati trattano da vecchio rimbambito. Un altro giorno sono i famosi trecentosessantatré, che vengono qualificati cogli epiteti di canaglia ed altre simili gentilezze. Ora è il turno di Leone Gambetta chiamato a rispondere nanti i tribunali per ordine del Governo per attacchi al maresciallo ed ai ministri nei suoi discorsi politici. Coi processi e colle ingiurie la popolarità dei repubblicani si rafforza. Questo non capisce il gruppo De-Broglie - Fourtou, come non fu mai capito dacché mondo è mondo da tutti quelli che ebbero in mano il potere.
L'Inghilterra è afflitta da una crisi economica che, sebbene indirettamente, ne attenua la potenza ora che ne avrebbe bisogno per dedicarsi alle cose orientali. Nell'impero delle Indie si è rinnovellato il terribile fenomeno della fame che lo devastò due anni or sono. Si tratta di milioni di famiglie mantenute completamente dal Governo. Sono miserie di cui in Europa non si ha idea. Si concentrano derrate e generi di prima necessità nei punti più minacciati, per distribuirli gratis con un faticosissimo servizio in vastissime regioni prive di strade... E dove non arrivano i soccorsi? La statistica più diligente non accudisce a registrare le vittime. Dicesi che l'impero delle Indie sia un elemento di forza per la Gran Brettagna. Ne riparleremo quando i sue colossi si troveranno a fronte, il che tardi o tosto dovrà fatalmente avvenire.
Le cose nella penisola dei Balcani si fanno serie. La Turchia, battezzata dappertutto come un cadavere, dopo la destituzione del generalissimo Abd-Ul-Kerim ha ripreso fiato, ed ora mostra i denti con una forza di cui non vorrei gratificare i cadaveri dei miei nemici. Dopo l'audacissima marcia in avanti eseguita dai russi che, passati i Balcani con una forte avanguardia di Cosacchi, minacciavano Adrianopoli; per un inesplicabile errore del quartiere generale si lasciarono fortificare 70000 turchi a Plewna, situata tra Tirnova ed il Danubio, alla destra delle linee russe. Accortisi troppo tardi dello sbaglio, mossero i russi per tre volte all'assalto della posizione; ma respinti con gravi perdite che scompigliarono il loro piano, rinunciarono all'impresa. Il primo scacco li costrinse a restringere la loro linea troppo estesa, richiamar l'avanguardia dai Balcani di cui conservarono un solo passo, quello di Schipka, che fortificarono. Ne seguì quasi un mese di inazione, impiegato dai Russi a riparare i vuoti delle file, ricoverare in luogo sicuro i feriti, richiamare l'esercito di seconda linea sul luogo dell'azione sostituendola colle riserve. Da sette giorni si combatte ora nel passo di Schipka, ove l'eroica resistenza dei russi è pari alla cocciutaggine dei turchi per rendersene padroni. Se quest'ultimi riescono, come ne correva voce ieri, sebbene non siasi ancora confermata, i tre eserciti di Osman Pascià, Suleyman Pascià e Mehemed Bey potranno congiungersi e formare una barriera di ferro al di qua dei Balcani. Né rimarrebbe ai russi che ripassare il Danubio ed attendere la primavera in Rumenia, salvo che la diplomazia non profitti dell'inverno per lavorare a... far nuovi fiaschi.
La Serbia e la Grecia hanno i loro microscopici eserciti alla frontiera, ed attendono il momento opportuno per entrare in ballo. L'Austria e l'Inghilterra che s'agitarono tanto quando la Russia minacciava di andare in 15 giorni a Costantinopoli; ora che vedono tutto rimesso in dubbio, si sono accocolate di nuovo nella loro specola neutrale.
Ed io che ho detto tutto, proprio tutto, prendo congedo.
A rivederci ai primi freschi.
Roma, 1º settembre 1877.
Il Nipote

Anno III Num. 41 Sassari, 14 ottobre 1877

CRONACA DI CITTÀ
(copertina)
Tassa sul fuoco. Mancheremmo al dovere, se non parlassimo anche noi della nuova tassa comunale, che provocò le lagnanze generali dei cittadini, i quali non si rifiutano di pagare ciò che spetta. La base, il così detto criterio della tassa fu tutto errato. Il primo errore fu quello di comprendere la classe povera che non pagherà, perché non può pagare. Coloro dunque che hanno un reddito annuale inferiore a 400 lire devono considerarsi morti per la cassa municipale. Malissima la ripartizione delle classi in nove soltanto; ed è per questo che la tassa viene tutta pagata dal ceto medio, cioè dagl'impiegati, dai piccoli proprietari, dai modesti negozianti e dagli operai e artigiani; pochissimo dai ricchi che sono superiori alla tassa; nulla dai poveri, i quali nulla possiedono.
E perché uno ha il reddito di 1100 lire dovrà pagare la tassa di 25 lire, come colui che ha il reddito di 2000 lire annuali? Perché uno che ha il reddito di 8020 lire dovrà pagare 100 lire di tassa, e 100 dovrà pure pagarne chi ha un reddito di 10, 15, 20 e 25000 lire?
Il contribuente non guarda soltanto a ciò che egli è costretto di pagare, ma a quel che pagano gli altri, i quali, con un reddito 100 volte maggiore del suo, pagano una tassa tripla o quadrupla solamente.
Il Municipio deve ripararvi subito; e se i vecchi consiglieri hanno sbagliato, i nuovi devono correggere lo sbaglio, perché la responsabilità è tutta di loro. Qui non è questione, né di partito, né di colore, perché i danari dei contribuenti sono tutti d'uno stesso colore; e dinanzi alla borsa siamo tutti uguali, più che dinanzi alla legge.
Il Municipio, forse, dirà, che ora non è più in tempo di modificare le liste. Noi rispondiamo che a riparare al mal fatto e all'ingiustizia dev'essere sempre in tempo.
E se non provvede, la colpa è tutta sua.

 


CRONACA POLITICA
(da pag. 184 a pag. 186)
(Settembre)
Per più di due settimane i giornali di tutta Europa non ebbero che un tema obbligato: la morte di Adolfo Thiers. Sulla tomba del grande storico francese, che dopo il 1870 fu anche il salvatore e riorganizzatore della sua patria, risuonarono note discordi, svariati commenti, applausi e disapprovazioni.
Adolfo Thiers è a mio parere uno di quegli uomini che non può essere giudicato dai suoi contemporanei. Sul suo valore come storico nessuno più discute, ed egli ha oramai un incontestato altissimo posto fra i valenti scrittori della Francia. Dirò anzi che forse neppur in Germania si trova chi, come lui, abbia fatto della storia un'opera d'arte. Lo stesso non può dirsi della sua vita politica militante, la quale si immedesima colle vicende del suo paese negli ultimi cinquant'anni. Ispiratore ed attore della rivoluzione del 1830, che scacciò Carlo X dal trono, la corona di Luigi Filippo d'Orleans fu nella massima parte di sua fattura. Venne allora alla direzione della cosa pubblica, e prese parte con varia fortuna alle acerrime lotte che vi si combattevano, finché il 1848 lo trovò, non si sa come, repubblicano. Ebbe un barlume di bonapartismo nel 1850; ritornò orleanista dopo il Colpo di Stato; si convertì alla repubblica per una seconda volta nel 1871. Questo variegato assortimento di colori dovrà ascriverglisi a colpa, o non sarà piuttosto il fondo del carattere che contraddistingue tutti gli uomini di Stato Francesi dal 1814 ad oggi e che ha riscontro colle fasi politiche attraversate da quella nazione? Ecco il punto sul quale io stimo non si possa decidere nel secolo XIX.
Nella lotta che ora si combatte fra repubblicani e conservatori, e che avrà termine colle elezioni del 14 ottobre, Thiers era l'avversario più deciso di Mac-Mahon. La sua morte rianimò la speranza degli avversarii, i quali costrinsero il maresciallo a dettare un manifesto elettorale, modello d'autocrazia militare e sfida audace al libero esercizio dei diritti più gelosamente esclusivi d'una nazione. Il morto si levò per un istante dalla sua tomba onde rispondere, ed in questi giorni si pubblicò un manifesto trovato in abozzo fra le carte del Thiers; il quale colla vivacità polemica che ne caratterizza lo stile, riassume le fasi trascorse dal 1871 in poi, ed addita alla Francia la via da percorrere se vuol costituirsi definitivamente. Ora non rimane che attendere il responso delle urne.
La prima campagna in Bulgaria dovrà forzatamente terminare fra pochi giorni, giacché la stagione delle piogge colà è già cominciata; anzi nei Balcani si annunciano le prime nevi. L'insipienza nella direzione della guerra fu colossale da entrambe le parti; ed è uno spettacolo, degno d'impensierire la diplomazia, il macello di centinaia di migliaia di vittime per ottenere risultati così meschini. È vero che l'Europa ha oramai pretensioni troppo strane dopo le due epiche guerra tedesche del 1866 e del 1870. Ma si ha diritto anche a richiedere da una potenza di prim'ordine come la Russia, di non essere ricacciati indietro di mezzo secolo in materia di strategia e di scienze militari. I turchi se non altro, se furono impotenti a ricacciare gl'invasori al di là del Danubio, addimostrarono sufficiente abilità per confinarli al di qua dei Balcani e per sbarrar loro tutte le strade verso Costantinopoli, ponendoli per giunta in una falsa posizione.
L'Europa è però preoccupata, in questo momento, dei probabili risultati d'un recentissimo convegno tenuto a Salisburgo fra il Principe di Bismark ed il Conte Andrassy. Le dichiarazioni di quest'ultimo al Parlamento di Vienna, e del Barone Tisza alla Dieta di Buda-Pest che ne costituiscono l'eco, danno luogo a sospettare che gl'insuccessi dei Russi dinnanzi a Plewna abbiano alquanto scossa l'alleanza dei tre Imperatori. Si dubita insomma che, continuando la cosa di questo piede, ad una tal alleanza non si sostituisca qualche cosa d'altro che rompa le dighe alla guerra generale profetizzata dal Bismark per la prossima primavera. Salvo il rispetto che si deve al suo genio, si potrebbe anche dire: crepi l'astrologo.
Il Presidente della nostra Camera dei deputati onorevole Crispi, è in via di compiere un viaggio all'estero. In Francia comparve come privato, ed ebbe soltanto relazioni con Gambetta e col suo partito. Viceversa in Germania ebbe accoglienze oneste e liete dalla fine fleur del parlementarismo tedesco, con a capo il Benningsen Presidente del Reistag. Ora trovasi in Inghilterra. Questo viaggio ed i suoi motivi, finora ignoti, sono soggetto di vivaci commenti per parte del nostro giornalismo d'opposizione, cui fa contrasto il silenzio tenacemente serbato da quello ufficioso. Intanto i più grossi problemi della nostra politica interna, parte per le malattie che minacciano di diventare endemiche nei ministeri, parte pel lavoro sotterraneo delle varie gradazioni del partito progressista, attendono invano una soluzione. Il gruppo Cairoli fa a tutti l'effetto della pallottola di neve che diventa valanga. Ricominciano le sorde voci di rimpasto ministeriale con un rinforzo di Sinistra accentuata, e dicesi che non sia estraneo ad un tal fatto la missione Crispi. Io non so capacitarmi della verità della cosa, giacchè sarebbe la prima volta, ed anche questa in modo non molto corretto costituzionalmente parlando, che si va a tastare il terreno fuori d'Italia onde trovar la norma che regoli le questioni dei nostri partiti e delle nostre difficoltà interne. Piuttosto inclino a credere ad una missione che abbia attinenza coll'arruffata matassa orientale. In questo caso mi pare che l'onor. Melegari sia stato servito piuttosto maluccio.
I nostri trattati di commercio non hanno fatto più un passo dopo quello colla Francia. Lo stesso si dica delle convenzioni ferroviarie, sebbene nei giorni scorsi si annunciasse la firma dei preliminari, tosto smentita dal Diritto. Le vacanze sono al loro termine; appena un mese ci separa dalla riapertura delle Camere, e niuna cosa accenna ai preparativi per un'utile sessione. E dovremo rassegnarci a far rientrare in corpo per qualche tempo la curiosità, non rinnovandosi per quest'anno il diluvio dei pranzi e discorsi politici dello scorso autunno.
Chi continua per la sua strada, ciarli chi vuole, è il Nicotera. Dopo gli attacchi al Prefetto Malusardi ed all'Ispettore di pubblica sicurezza Lucchesi, la Sicilia è diventata una fornace. Il giornalismo palermitano si è sguinzagliato contro il Ministro dell'Interno, e si disegnano già sull'orizzonte parecchi scandalucci sotto forma d'interpellanze. Il che, col carattere del Nicotera, è oltremisura pericoloso se vogliamo lavar il bucato in famiglia e conservare quella temperanza che può salvarci dal ridicolo in faccia agli stranieri.
Chiudo salutando le ceneri di Nino Bixio che, dopo tanto tempo d'esilio, ritornano in Genova a riposare nel Cimitero monumentale di Staglieno. All'eroe di tempra antica; al penultimo dei titani della nostra rivoluzione; a colui che, soldato, deputato, senatore, marinaio, si rivelò sempre uomo completo con tutti quei virili propositi che fecero della vecchia razza ligure la dominatrice di tutti i mari conosciuti nel Medio Evo; Italia manda un plauso ed un rimpianto per l'immatura sua perdita. Auguriamoci d'averne uno ad ogni quarto di secolo, onde rinvigorire il fiacco carattere delle nuove generazioni.
Roma, 1º ottobre 1877.
Il Nipote

Anno III Num. 42 Sassari, 21 ottobre 1877

CRONACA DI CITTÀ
(copertina)
Tassa del fuoco. Per chi vi avesse interesse (e crediamo che interesse vi abbiano tutti!) diamo le basi che hanno servito di criterio al nostro Municipio per l'applicazione di una tassa che si presenta sotto l'insegna del fuoco, ma che realmente appartiene all'acqua (di ciò però poco c'importa, protesti pure Plutone o Nettuno). Eccovi le rendite colle relative tasse: fino a L. 500 di rendita L. 3 di fuoco per brucciarla; da 500 a 1000, L. 10; da 1001 a 1500, L. 15; da 1501 a 2000, L. 25; da 2001 a 3000, L. 35; da 3001 a 4000, L. 50; da 4001 a 6000, L.65; da 6001 a 8000, L. 80; da 8000 fino a 1000000, sempre L. 100. Abbiamo fatto qualche piccolo errore di cifre parlando di questa tassa nel numero precedente, ma manteniamo ferme le nostre osservazioni sopra il nessun criterio nel riparto degli oneri. Per una di quelle combinazioni, che sembrano talvolta combinate, la legge sulle imposte esonera dal pagamento moltissimi ricchi cittadini che potrebbero pagare perché ne hanno e non pagano perché non devono pagare!

Anno III Num. 45 Sassari, 11 novembre 1877

CRONACA POLITICA
(pagg. 235-236)
(Ottobre)
Come era da prevedersi, la vittoria dei repubblicani in Francia nelle elezioni del 14 e 28 ottobre, fu addirittura esplendida. Il sistema delle pressioni e delle violenze ufficiali per assicurare il trionfo di tutti i partiti monarchici stranamente coalizzati erasi elevato ad un'altezza non mai raggiunta nei tempi più tristi del governo personale del terzo Impero. Candidature ufficiali imposte ai pubblici funzionari e tutti gli stipendiati dello Stato con circolari minatorie. Prefetti e Sotto-Prefetti creanti fino all'ultimo momento un'opinione pubblica fittizia, e soffocanti qualunque tentativo contrario all'indirizzo governativo. Multe, processi e bavaglio alla stampa indipendente, sfrenata licenza alla ufficiosa. In una parola, intimidazioni, arbitrii, corruzione. Ad onta di ciò la Francia inviò alla nuova Assemblea una maggioranza di 117 liberali. Non sono i celebri 363 dell'Assemblea defunta, sorti dopo infinite combinazioni chimiche di cui la Francia è maestra. Ad ogni modo, è un verdetto senza esempio che farà aprir gli occhi ai più ostinati. Il Maresciallo non ha ancora deciso la sua futura linea di condotta. È però certo che il celebre motto di Gambetta "sottomettersi o dimettersi" caratterizza la situazione. Conviene attendere le prime avvisaglie parlamentari per giudicar dell'atteggiamento dei partiti.
I russi sono tuttora arenati nello scoglio di Plewna. Senonché alcuni cambiamenti nello Stato Maggiore Generale cangiò la situazione a loro favore. Si chiamò da Pietroburgo il vecchio generale Totlebeu, il prode, difensore di Sebastopoli. Caduto in disgrazia del partito slavo e dello Czarevich che ne è l'augusto protettore, fu tenuto finora in un ozio non corrispondente al suo splendido passato. La necessità di porre riparo alle sofferte sconfitte impose silenzio agl'intrighi di corte, e costrinse ad accettare i lumi dello sperimentato capitano. Se ne fecero sentir subito gli effetti. L'esercito dello Czarevich sul Lom fu destinato a tenere in iscacco le forze del generalissimo turco Suleyman Pascià, di recente surrogato a Mehemet-Alì che cadde in disgrazia senza motivo apparente. L'altro esercito russo-rumeno che investiva Plewna, fu diviso in due parti: la prima, sotto gli ordini del principe Carlo, per accerchiare la piazza con regolare assedio; la seconda, comandata dal generale Gourko, per impedire i soccorsi. Anzi quest'ultimo conseguì una splendida vittoria che tolse ai turchi il mezzo di approvigionar la piazza. Infine il terzo esercito della Dobrutscia che ubbidisce al generale Zimmerman, si prepara ad investire le altre fortezze del quadrilatero. Plewna fu circondata, si rinuncia ad attacchi inconsulti, ed ora si attende da giorno a giorno la resa per fame.
Anche in Armenia la fortuna si converse in favore dei russi. Il vittorioso Mouktar Pascià, fu ad un tratto sconfitto in una sanguinosa battaglia, e tagliato fuori dalla linea di Kars. Questa, con Erzeroum, si trova in pericolo, ed è probabile che la loro caduta segnali la fine della presente campagna.
Dopo questi fatti, si rinnovano i timori delle due potenze interessate, Inghilterra ed Austria. Circola di nuovo la voce di armistizii, di trattative di pace, di statu quo ante bellum ecc. Curiosa la diplomazia!... Assiste impassibile a tante stragi, distruzioni, sofferenze di popoli; e poi pretende con mano malferma regolare il corso della vittoria e disporre in prevenzione dei frutti. Ma, come la Russia dichiarò la guerra a dispetto dell'Europa; così terrà ora dei consigli e minaccie dell'Europa il conto che converrà ai suoi interessi. La disparità di vedute fra le potenze garanti fu buon giuoco per la Turchia, ed ora lo sarà per la sua fortunata rivale: Dum Romae consulitur... con quel che segue.
Delle cose nostre poco ho da dire. Gran lotta in seno al Ministero e fra questo ed i capi più influenti della maggioranza a proposito delle convenzioni ferroviarie. Lo Zanardelli, relegato a Brescia dalla sua malattia, non volle sapere delle trattative preliminari conchiuse dal Depretis. Vi fu uno screzio tale che si dubitò perfino d'una crisi extra-parlamentare. Rientrato lo Zanardelli a Roma, continuarono le discussioni, e le notizie del Consiglio dei Ministri tenuto avant'ieri accennano ad un accordo di cui non si conoscono ancora le basi.
Intanto l'apertura delle Camere è designata pel 22 corrente. Oltre i bilanci, la legge comunale e provinciale, il primo libro del codice penale già posti all'ordine del giorno, si annunciano molti progetti di riforme tributarie, le convenzioni ed il trattato di commercio colla Francia. Si prevede però che la Maggioranza prenderà fin dal bel principio un'attitudine riservata ed osservatrice, e se anche in quest'occasione vedrà inapplicato il programma della Sinistra, provocherà inesorabilmente la crisi. Si preparano quindi scene tempestose; e nella confusione di lingue che regna fra le varie gradazioni dei due grandi partiti nazionali, la bussola politica non accenna fin d'ora il polo prevalente. Chi vivrà vedrà, diceva Giovanni da Procida quando, travestito da mercante di occhiali, trascorreva le città siciliane per preparare i famosi Vespri.
In attesa della battaglie parlamentari che mi daranno materia da rendere meno monotone le mie corrispondenze, dichiaro chiusa col mese d'ottobre l'uggiosa stagione delle vacanze.
Roma, 4 novembre 1877.
Il Nipote

Anno III Num. 49 Sassari, 9 dicembre 1877

CRONACA POLITICA
(da pag. 282 a pag. 284)
(Novembre)
Nel 22 novembre una nebbia densa, grigia, fredda, uggiosa nascondeva l'imponente massa del nostro palazzo legislativo; cosicché i rari passanti distinguevano appena la bandiera tricolore che indicava la ripresa degli interrotti lavori parlamentari. Io sono tutt'altro che superstizioso, ma un senso intimo che oso appena confessare, ingenerava nell'animo mio il dubbio se, dalle future lotte dei partiti, le istituzioni che ci reggono, e che ci costarono tanto, siano per uscirne rafforzate.
Il disparere fra lo Zanardelli ed il Depretis, a proposito delle convenzioni ferroviarie, si conchiuse colle dimissioni del primo. Queste furon seguite dal ritiro di tre Segretarii Generali, tuttora non surrogati: il Ronchetti dei Lavori Pubblici, il Seismit-Doda delle Finanze, il La-Francesca del ministero di Grazia e Giustizia.
Intanto la confusione è al colmo. Si disciolse l'antica maggioranza di quattrocento voti, parte snervata dallo stesso suo peso, parte perché le popolazioni sono stanche di sentirsi sempre ed inutilmente zufolare nell'orecchio il programma di Stradella come l'elisire del dottor Dulcamara. Subentrò al suo posto una miriade di gruppetti riflettenti tutti i colori dell'iride.
Ricomincia quindi naturalmente un periodo d'incubazione per ricostituire i partiti; periodo che non sarà breve e che farà perdere un tempo prezioso. Le convenzioni passeranno, perché gli interessi bancari e regionali che vi sono in giuoco parleranno più alto dei grandi principii economici. Ma le grandi battaglie le avremo colla discussione delle leggi esclusivamente politiche, se pure il Depretis non creda opportuno di ritirarle e di procedere risolutamente ad un rimpasto, come ne corre la voce.
L'attenzione pubblica si converge tutta sul gruppo Cairoli, in seno al quale rientrarono lo Zanardelli, il Doda ed il Ronchetti. Si staccò con atto pubblico dalla maggioranza ed atteggiossi a nucleo di nuovo partito. Ora però, venendo in più miti propositi non dichiara guerra immediata, ma si concentra in una benevola osservazione.
I partiti quindi sono:
1º OPPOSIZIONE
Destra;
Centro Destro (parte);
Estrema Sinistra.
2º MAGGIORANZA
Centro Sinistro;
Sinistra moderata (parte).
3º RISERVISTI
Sinistra Moderata (gruppo Cairoli).
4º INCERTI
Centro Destro (parte).
Così sfumò la troppo classica divisione dei partiti in Moderati e Progressisti. Così ci allontanammo dal vagheggiato parlamentarismo Britannico, e ci accostammo a quella veste d'Arlecchino che si chiama l'Assemblea Francese. Sarà bene o male? Ce lo dirà il tempo.
La resistenza del Maresciallo Mac-Mahon dura ancora. Dopo i replicati attacchi della nuova Assemblea i ministri del 16 maggio furon costretti a ritirarsi fra le fischiate universali. Venne allora in mente al maresciallo ed ai suoi consiglieri di creare un ministero di affari con uomini estranei alla Camera ed al Senato e del più bel colore legittimista ed ultramontano che possa immaginarsi. Era un sanguinoso insulto contro la volontà del paese. La camera rispose con un ordine del giorno di sfiducia, malgrado il quale i nuovi ministri restano al potere. Si attende che la Assemblea rifiuti di approvare il bilancio, come già lo fece presentire la République Française, organo di Gambetta. Non v'ha quindi altra soluzione possibile che le dimissioni del Maresciallo e la nomina di Grevy, oppure il colpo di Stato e... le barricate.
Nel teatro della guerra la fortuna continua a sorridere ai Russi. Plewna resiste sempre, ma è completamente circondata; cosicché la sua caduta è questione di tempo. In Armenia si hanno fatti più decisivi, cioè la presa di Kars dopo un brillante assalto di dodici ore e l'investimento di Erzeroum già prossima a capitolare. I russi han fatto dunque senno. Moderando il loro impeto inconsiderato, si adattarono alla stretta osservanza delle regole strategiche che non si violano mai impunemente, e si prepararono la rivincita colla costanza e coll'abnegazione.
La Serbia, come al solito, ogni quindici giorni annunzia l'entrata in campagna, poi si ferma per ricominciare più tardi. La vicinanza dell'Austria e le minaccie inglesi controbilanciano nell'animo del Principe Milano l'oro e le insinuazioni dei Panslavisti. Viceversa il Montenegro, non ascoltando alcuno, e senza aiuti palesi, si copre di gloria in Albania. Toccò già l'agognato mare, arrivando fino alla spiaggia d'Antivari. Non è a dire quali furon le grida dei giornali turcofili che minacciando una irradiazione dello Slavismo in Occidente attraverso l'Adriatico, fanno carico all'Italia di non aver protestato. Ma l'onorevole Melegari, ritenuto che il conte Andrassy e lord Derby sono muti come pesci crede opportuno di far lo stesso.
Domenica, giorno 25 novembre, s'inaugurò a Mentana, il monumento ai caduti nelle battaglie del 1867. Accorsero da tutta l'Italia rappresentanze di Municipii, di Società Operaie e politiche, e Roma, ad onta del pessimo tempo, si riversò tutta su quelle colline a deporre una corona sul sepolcro dei precursori del 20 settembre 1870. Era sublime spettacolo quello di più che ventimila persone vagolanti sotto una fitta pioggia ed in mezzo alle pozzanghere per attestare una fede comune a tutti gli Italiani: l'unità della patria. Allorché tutti i partiti fanno tregua, almeno per un giorno, dalle sterili lotte, onde commemorare le varie epoche della nostra redenzione, vi è da rimaner soddisfatti perché si acquista la certezza che il sangue di tanti martiri non si è sparso invano.
Roma, 1º dicembre 1877.
Il Nipote

 

 
Centro di Studi Filologici Sardi - via dei Genovesi, 114 09124 Cagliari - P.IVA 01850960905
credits | Informativa sulla privacy |