Il Centro di studi filologici sardi aggiunge un nuovo testo al suo già consistente numero di pubblicazioni. Si tratta del settecentesco Index libri vitae di Giovanni Delogu Ibba, curato da Giuseppe Marci, docente di Filologia italiana all’università di Cagliari. Anche l’edizione di tale opera rientra nell’ambizioso e impegnativo progetto di cui il Centro di studi si fa promotore insieme alla casa editrice Cuec: riportare alla luce e all’attenzione di lettori, specialisti e non, la produzione letteraria della Sardegna, con la consapevolezza che solo per questa via si possa rinsaldare una tradizione che di fatto esiste ma di cui troppo spesso si ignorano l’esistenza e l’importanza. Dopo i condaghes medievali, dopo le opere didascaliche, dopo l’edizione critica de Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, l’opera del Delogu Ibba si inserisce come nuova tessera in questo grande e variopinto mosaico. Essa infatti rende testimonianza prima di tutto della particolare fisionomia della cultura sarda nel Settecento, caratterizzata, come anche nei secoli precedenti, dalla mescolanza di lingue diverse: il latino, retaggio dell’antica dominazione romana e profondamente diffuso nella società, in particolare nell’ambito ecclesiastico; il catalano, introdotto con la dominazione catalano-aragonese; il castigliano, legato a quella spagnola, e l’italiano, che si rafforza con la presenza piemontese nell’isola.
Tutte queste componenti si fondono con disinvoltura nell’opera del Delogu Ibba, di cui non si conoscono con precisione né la data né il luogo di nascita. Di lui si sa solo che fu sacerdote e parroco di Villanova Monteleone, morì nel 1738 e due anni prima, nel 1736, fece stampare l’Index libri vitae. L’opera, dalla vasta mole, si compone di sette sezioni: le prime cinque, scritte in latino, sono epigrammi dedicati alla vita della Madonna, di Gesù, dei santi e ai misteri religiosi; la sesta parte contiene i Gosos, gli inni sacri, scritti in logudorese e castigliano, in onore a vari santi; l’ultima parte è costituita, invece, dalla tragedia sacra dal titolo Tragedia in su isclavamentu de su sacrosantu corpus de Nostru Sennore Iesu Christu.
Come Giuseppe Marci sottolinea, ciò che è davvero importante per riuscire a comprendere appieno il significato del testo del Delogu Ibba è non limitarsi a giudicare il valore stilistico dell’opera, ma cercare di osservare la nostra tradizione dalla giusta prospettiva.
Non si deve dimenticare che si tratta della produzione letteraria di un piccolo popolo – il curatore riferisce che nel censimento del 1688 il numero degli abitanti della Sardegna era di 229532; nel 1751 di 360805 – che è stato in grado di “esprimere figure intellettuali che operano nei diversi campi del sapere, letterati ed ecclesiastici che conoscono i panorami culturali, sanno e vogliono cimentarsi nella scrittura”. Così l’Index libri vitae è testimonianza di questo sapere che circolava in Sardegna e dei rapporti stretti che la nostra isola intratteneva con la Spagna: i Gosos, ad esempio, derivano dal genere letterario dell’innografia in lingua catalana, mentre la Tragedia in su isclavamentu ha i suoi modelli, poi liberamente rielaborati, nelle sacre rappresentazioni proprie della tradizione teatrale e del gusto per la festa del barocco spagnolo.
Così, inserendo l’opera nel giusto contesto, ci si rende conto che l’intrecciarsi delle lingue, delle culture, delle storie ha dato vita a un sistema sardo “compiuto e omogeneo, dotato di una forte consapevolezza di sé, della propria identità, di quella diversità che lo caratterizzava”. Se uno scrittore come Delogu Ibba aveva coscienza delle culture che si incrociavano in Sardegna e nella vita di ogni intellettuale e di ogni uomo, allora riproporre il suo testo ai lettori di oggi significa attingere a quella consapevolezza per contribuire alla costruzione di un’identità forte e moderna. In questo senso, una grande lezione di modernità Delogu Ibba la offre con il superamento del pregiudizio della purezza della lingua e tracciando una linea ideologica lungo la quale, dopo secoli, diversi scrittori sardi si sono inseriti – si pensi, ad esempio, a Sergio Atzeni – e che ancora oggi continua a essere seguita e fecondata, con modalità stilistiche del tutto personali, da uno scrittore quale Marcello Fois.
Infine va sottolineato e apprezzato l’intento del Centro di studi filologici sardi (è diretto da Paolo Maninchedda) di coinvolgere nella sua attività giovani studiosi: a Francesco Marco Aresu e Abdullah Luca de Martini è stata infatti affidata l’edizione e la traduzione rispettivamente delle prime cinque parti del testo, in latino, e della sesta, in logudorese e castigliano. Un lavoro, il loro, certamente impegnativo, condotto con grande competenza e rigore filologico.
Simona Serra