E questo è, sicuramente, il primo elemento di
interesse – e di riflessione – proposto dall’opera di Fontana. La quale è,
sicuramente, un documento minore (si pensi ai documenti maggiori
della memorialistica bellica, cominciando, tanto per non andar lontano, da
Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu), ma può anche divenire, mutata
la prospettiva dalla quale osserviamo, un testo di maggior valore e, per certi
aspetti di stringente attualità: ad esempio se volessimo vedere da vicino la
realtà della guerra e gli effetti che produce sull’animo umano. Perché Fontana
ha, nella semplicità della sua prosa, la capacità di combinare una strategia
narrativa nella quale il racconto si dispone a seguire i ritmi della vita: il
dramma e la commedia, le gesta eroiche e gli atti della quotidianità.
Non era
facile raccontare in questo modo la Grande Guerra e le imprese della Brigata
Sassari; tanto più in un libro pubblicato nel 1934, e che quindi doveva fare i
conti con la retorica propria del clima politico e culturale allora vigente.
Certo, troviamo “S. M. il Re, primo soldato d’Italia, incurante del pericolo”
che rincuora “con l’esempio i suoi soldati”, ma troviamo moltissimi altri passi
nei quali si offre non un’interpretazione ma un racconto di fatti, ciascuno di
tali passi racchiude in sé una forte e tragica carica di autenticità.
Può
anche accadere che gli episodi narrati tradiscano gli intendimenti di chi
scrive e propongano al lettore spunti di riflessione riguardanti anche gli
aspetti sui quali si è soliti offrire interpretazioni univoche. Si pensi al
topos costituito dal valore dei sardi in guerra e dalla loro maestria
nell’impiego di un’arma assai poco convenzionale quale è sa leppa.
Giuseppina Fois molto opportunamente indica gli elementi contraddittori nei
clichés dei quali si nutre un’opinione generale tendente a coniugare
l’idea di virtù guerriera con quella della “primitività d’un
intero popolo e con la sua estraneità alla civiltà contemporanea”.
La qual
cosa ci induce a pensare, non solo e non tanto allo sfruttamento per fini
istituzionali di quella macchina da guerra che i sardi hanno costituito
al servizio della Brigata, quanto e piuttosto al gioco di specchi costituito
dall’immagine che i sardi hanno agli occhi del mondo e che essi accettano, non
senza soddisfazione, anche quando non sia effettivamente positiva.
Chi legga
i passi di Battesimo di fuoco riguardanti l’impiego del coltello
denominato sa guspinesa (li riportiamo di seguito, nella rubrica Terra
mala), chi legga senza lasciarsi vincere dalla suggestione del racconto, ma
riflettendo sulla sostanza della cosa, non potrà non rimanere perplesso. In quel
valore bellico c’è un evidentissimo disvalore sociale che i sardi (primitivi e
un po’ barbari, ma non stupidi; e qualche volta ironici) sintetizzano
nell’aneddoto in cui si dice di un coscritto che, arrivato al fronte, si fregava
le mani con soddisfazione, mentre affermava di essere arrivato nel luogo in cui
è finalmente possibile “ochidere e non pacare”. Come sognava di fare nella vita
civile.
Tutto questo c’è, implicito o esplicito, nel libro di Fontana, come
anche ci sono le notazioni riguardanti la “pietà fraterna” con la quale talvolta
vengono soccorsi i nemici feriti e le secche constatazioni sulla “completa
disorganizzazione” dei servizi riguardanti le truppe, un certo sguardo
umoristico che non aspetteremo di trovare nella difficile vita di
trincea.
Insomma, fatti tutti i conti, un documento complesso che
merita di essere raccomandato al lettore attento e che ami riflettere.