Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, a cura di Maurizio Virdis, offre una nuova edizione critica, dopo quelle curate dal Besta e dal Carta Raspi nel 1937, di uno dei più importanti condaghi sardi: in esso sono raccolte le registrazioni di una serie di atti giuridici relativi alle proprietà del monastero benedettino camaldolese di Bonàrcado lungo un arco di tempo che si snoda tra il 1110 - data alla quale risalirebbe la fondazione dell'abbazia da parte del giudice d'Arborea Costantino I - e la metà del XIII secolo.
L'attenta analisi dei singoli documenti permette la formulazione di una serie di originali ipotesi sulla loro collocazione cronologica: alcuni atti si rivelano infatti sospetti di falsificazione o frutto di 'contaminazione' fra documenti diversi, altri risultano rivestiti da una patina arcaizzante che cela l'intento di far risalire ad un'epoca anteriore a quella reale alcuni diritti esercitati dai sovrani arborensi sul monastero. Tali manipolazioni risalirebbero ad epoca spagnola e troverebbero la loro giustificazione nella necessità dei sovrani iberici, eredi naturali dei giudici arborensi, di rifabbricare, laddove mancassero gli originali di epoca giudicale, quegli atti formali ritenuti necessari alla legittimazione di una serie di prerogative da essi esercitate sul monastero.
Assieme all'edizione di una delle principali fonti della storia sarda medioevale, viene fornito inoltre per la prima volta uno studio linguistico accuratissimo sulla lingua dell'area arborense, caratterizzata sia dall'addensarsi delle isoglosse che segnano il confine tra i dialetti del settentrione e quelli del meridione dell'isola, sia da quell'intensa, e tuttora irrisolta, variabilità sincronica che caratterizza, in modo rilevante, le scritture medioevali arborensi.
Il Condaghe di San Michele di Salvennor, a cura di Paolo Maninchedda (autore dell'Introduzione e dell'edizione delle prime 158 carte) e Antonello Murtas (a cui si devono l'edizione delle carte 159-321, i glossari e gli indici), fornisce l'edizione di una traduzione in castigliano, risalente al 1599, del registro patrimoniale dell'abbazia vallombrosana che sorgeva nei pressi di Ploaghe. Nonostante la perdita dell'originale in lingua sarda del XII secolo, il testo castigliano riveste ugualmente un notevole interesse per gli studi di linguistica sarda in quanto contiene un numero rilevante di elementi lessicali dell'antico logudorese: di grande utilità risulta dunque il doppio glossario, dei termini sardi e dei termini spagnoli, che correda l'edizione.
Rilevante inoltre per gli studi storici, ma anche per la storia e la genesi del testo stesso, la attenta ricostruzione, permessa dall'acquisizione di materiali recenti, della causa che oppose Ciprario, il monaco vallombrosano abate di san Michele, e don Joan de Castelví, procuratore del conte di Oliva, accusato di essersi indebitamente appropriato dei salti di proprietà dell'abbazia. Proprio nell'ambito di tale controversia trovò ragione la necessità di tradurre in castigliano il Condaghe: necessità dettata dalla volontà di rendere comprensibile anche alla controparte spagnola, che ne contestava l'illeggibilità, il testo originale sardo, che verrà poi di fatto - e soprattutto nel settore della toponomastica e delle istituzioni medioevali sarde - in più punti frainteso dai traduttori. Tali fraintendimenti sono studiati accuratamente e acutamente da Paolo Maninchedda che così recupera la leggibilità e l'intelligenza di un documento più complesso di quanto finora non sia apparso.
Il Registro di San Pietro di Sorres, con introduzione storica di Raimondo Turtas ed edizione critica a cura di Sara Silvia Piras e Gisa Dessì, costituisce una ricchissima fonte documentaria delle vicende della diocesi di Sorres negli anni 1422-1505; da esso emerge un quadro vivo e composito sia della situazione economica, non molto florida - almeno rispetto agli 'splendori' dell'XI secolo, quando era stata iniziata la costruzione della cattedrale di S. Pietro - sia dello stile di vita del clero locale. Vengono così messi in luce una serie di fenomeni che caratterizzavano la realtà ecclesiastica della diocesi, come l'esistenza - nonostante il divieto vigente per i parroci di ingaggiare altri preti che si dedicassero, al loro posto, alla cura animarum - di un rapporto, subordinato, tra il beneficiato-rettore e un "officiante" o "curadu"; o il tentativo di limitare il numero degli ecclesiastici, troppo numerosi in rapporto alla diminuzione dei benefici, attraverso la richiesta di versamento, da parte delle famiglie dei candidati, di una rendita destinata a garantire al neo-ordinato la dignità necessaria all'onore connesso allo stato ecclesiastico. Ancora, dall'esame delle carte, emergono testimonianze sulla corruzione dei costumi e disposizioni atte a contrastare la diffusione di pratiche da essa derivate, come quella del concubinato, o del crescente disinteresse per la cura delle anime, o delle frequenti ed aspre inimicizie, spesso sfociate in vere e proprie violenze, tra gli ecclesiastici: frammenti di vita vissuta, la cui immediatezza viene resa attraverso una lingua, riconducibile al logudorese settentrionale, estremamente varia e ricca di espressioni quotidiane e gergali, che ricorre frequentemente al discorso diretto.
Un patrimonio documentario dunque che, seppure già ben conosciuto dagli studiosi di materia sarda, restava fino ad ora per lo più ignorato dal pubblico più vasto dei cultori, degli appassionati e dei curiosi, e che fino a questo momento aveva visto la sua diffusione veicolata da edizioni parziali o poco curate e comunque invecchiate, entra così rigorosamente a far parte dell'orizzonte storico-scientifico isolano: atto di appropriazione del nostro passato e delle radici di quella fisionomia a noi intima e propria che la storia ha determinato e ci ha consegnato; atto che, pensato e voluto da intellettuali sardi, contribuisce alla formazione di una nuova e più consapevole identità culturale.
Patrizia Serra