Adesso si può dire: abbiamo una storia della letteratura sarda. L’ha scritta il professor Giuseppe Marci, docente di Filologia italiana all’Università di Cagliari (dov’è nato nel 1948), giornalista pubblicista dal 1977, critico letterario e narratore a sua volta, direttore del Centro di studi filologici presieduto da Nicola Tanda. In 375 pagine Marci abbraccia sedici secoli di scrittura in cinque lingue: latino, sardo, castigliano, catalano, italiano. Si va dai vescovi Eusebio e Lucifero, quarto secolo, ai romanzi di Salvatore Niffoi. C’è un mito resistente, antico quasi quanto la Sardegna: il presunto isolamento in cui gli scrittori sardi sarebbero sempre vissuti. ”È vero il contrario”, dice Giuseppe Marci. ”Ho provato a dimostrarlo”. Il lavoro del professore, appena uscito in edizione Cuec (doppia confezione, cartonato e brossura), ha un titolo lungo In presenza di tutte le lingue del mondo e una dicitura breve: Letteratura sarda.
Perché questo titolo?
"La frase non è mia ma una citazione di Edouard Glissant, uno studioso caraibico che auspica una comunicazione non più monolingue ma, appunto, in presenza di tutte le lingue del mondo. Come se noi idealmente pensassimo ad un interlocutore che sta in tanti posti diversi".
Riferito alla Sardegna, che cosa significa?
"Pensare ad una letteratura sarda che si è espressa in varie lingue, non con una meccanica coincidenza della lingua utilizzata con il periodo storico ma con l’uso di queste lingue in momenti diversi e l’impiego di più lingue. Abbiamo avuto scrittori che impiegano contemporaneamente il sardo e il latino o il castigliano. O l’italiano. Idealmente, dunque, tutte le lingue del mondo".
Come definiresti, in altre parole, questo tuo studio?
"Un ragionamento sulla scrittura dei sardi, dal momento più lontano in cui abbiamo attestazioni di scrittura: mi riferisco soprattutto al vescovo Lucifero di Cagliari, che Camillo Bellieni chiamava padre di noi sardi, il primo del quale abbiamo memoria".
Lucifero come punto di partenza, dunque. Per proseguire come?
"Sono partito da lui, cercando di vedere lo sviluppo di un’idea per capire se c’è una continuità che ci consenta di parlare della scrittura dei sardi come di un sistema con caratteristiche sue proprie, individuabile con l’aggettivo etnico sardo".
Hai tenuto conto di tutti gli intellettuali sardi che hanno prodotto?
"Di quasi tutti. Li abbiamo anche sintetizzati in una cronologia e in un indice di titoli. I sardi hanno avuto la disponibilità di varie lingue. A monte ci sono le dominazioni: quella dei Romani è stata così feroce da somigliare talvolta a un genocidio. Ma alla fine delle dominazioni restano le competenze linguistiche del latino, castigliano, catalano, italiano e sardo. I nostri scrittori le usano tutte, queste competenze".
Chi parla di sardo-muto è servito?
"Altro che mutismo! È un grido forte per dire di sé, dell’amore per la propria terra e del dolore per le oppressioni e manomissioni subite nei secoli da altri e in tempi più recenti anche per mano propria. Qualche anno fa chiesi a Nereide Rudas di occuparsi di alcuni scrittori sardi come fossero suoi pazienti psichiatrici. Lei fece una brillante lezione, affascinò gli studenti e rappresentò loro quest’idea: la nostalgia in genere si manifesta nella lontananza, ma il caso dei sardi è diverso. Il sardo che sta in Sardegna parla della nostalgia come se vivesse lontano dalla sua terra".
Tu come lo spieghi?
"Pur vivendo nella sua terra, il sardo non ne ha il possesso e non può governarla in autonomia. Il poeta arabo Ibn Hamdis, citato da Leonardo Sciascia per parlare del concetto di cultura siciliana, ha scritto un verso nel quale dice: pieni gli occhi, vuote le mani di lei. Hamdis non parla di una donna ma della Sicilia, terra che sentiva come sua, ed esprime il dolore del disterramento, della cacciata da quella terra: su disterru".
A quando risale la prima idea del tuo libro?
"Ci lavoro da trent’anni. In buona misura le ho dedicato la mia vita di studio. Il tema riguarda da vicino la nostra duplice o triplice identità di sardi, di italiani, di europei, di cittadini del mondo, nell’insieme delle relazioni di questa identità composita".
Sotto l’aspetto prettamente letterario?
"Dal punto di vista della letteratura italiana, ad esempio, il sistema è complesso: ce l’ha insegnato Nicola Tanda, con grande precisione e coraggio, parlando di letteratura degli italiani e degli apporti delle culture regionali dal Medioevo all’Unità. Che cosa avrebbero detto nel 1300, 1400, 1500 gli antenati di abruzzesi, siciliani, valdostani? Ognuno di loro avrebbe avuto una sua diversa identità culturale".
Sì, ma oggi?
"Oggi la filologia italiana inizia a definirsi disciplina di frontiera che scopre di non aver esaurito la sua funzione ma se la ritrova moltiplicata per il numero delle regioni e delle situazioni linguistico-culturali che rendono affascinante la filologia".
Trent’anni fa la letteratura sarda non esisteva neppure come definizione, oggi tu insisti sull’aggettivo.
"Sì, io scrivo letteratura sarda e non mi sembra un gesto eversivo. Chi non lo fa vuole negare l’esistenza di un soggetto etno-storico".
Chi prende in mano questo libro cosa ci trova?
"Un’idea che dichiaro: vorrei si prestasse attenzione a questa ipotesi confrontandola con gli scrittori qui elencati. Credo sia la prima volta. E allora si confronti quell’idea con gli esempi di questi scrittori. Io mi sono preso la libertà di non soffermarmi su autori importantissimi per i quali già molto è stato detto e mi sono tolto il gusto di mettere in evidenza una serie di autori poco noti".
Ad esempio?
"Vincenzo Sulis. Secondo me è uno dei grandi scrittori sardi".
Hai capovolto gerarchie consolidate?
"No, sto cercando di presentare un panorama più ampio. Sono convinto che siamo in una fase pionieristica di studio di questa materia, quindi non escludo nessuno. Per tutta la mia vita ho cercato di fare il sardista nel senso di studiare la letteratura sarda".
Quasi una scommessa: partiamo dalla Sardegna, ha poco senso studiare gli autori sardi come appendici di quelli che usano l’italiano. È così?
"Non c’è dubbio. Ho sempre pensato, da ragazzo, leggendo i libri degli storici sulla Sardegna sabauda, o aragonese: quando le prime loro navi sono arrivate in Sardegna, i sardi c’erano? Cosa facevano? Io riporto in epigrafe una bellissima frase di Lilliu: l’archeologia è un lavoro di introspezione. Come uno scavo interiore. Alla fine sai qualcosa di più su te stesso, non tanto come individuo ma come popolo. I giovani l’hanno scoperto con Sergio Atzeni che in un articolo del 1994 scriveva: sono sardo, italiano, europeo. Prima ancora l’aveva detto Emilio Lussu, al rientro in Sardegna dall’esilio, nel primo comizio di piazza: ci attendono momenti importanti e li vivremo da sardi, da italiani, da europei".
Cosa può dire un autore, una volta terminato un lavoro del genere?
"Ho impiegato trent’anni a scriverlo e l’ho pubblicato perché a un certo punto diventa necessario. Ma la mia impressione è questa: ci vorrebbero almeno altri trent’anni per poter raccontare con più sicurezza questa storia".
Con la sapienza degli antenati, Andrea Manca dell’Arca avrebbe detto: su tempus at a esser mastru, il tempo sarà maestro.
Paolo Pillonca