Gianfranco Contini lo definì il Proust sardo. Era ancora il 1939 e Giuseppe Dessì aveva appena pubblicato “San Silvano”, il suo primo romanzo, lontano da “Paese d’ombre” (1972), considerato il suo capolavoro. Oggi al romanziere, nato a Cagliari ma con “radici” a Villacidro, sono intitolati una fondazione e un premio di prestigio che si è concluso di recente. Sempre di recente, è uscita per i tipi della Cuec, a cura di Dino Manca, filologo dell’Università di Sassari, la prima edizione critica di un suo romanzo: “Le carte di Michele Boschino”, pubblicato nel 1942.
Al centro del racconto il contadino Michele Boschino, la sua storia, la visione del mondo; alla confluenza di una doppia narrazione, una in terza, una in prima persona, rispettivamente di un narratore che si pone al di fuori della vicenda e del matematico Filippo. Due mondi, due prospettive, due istanze narrative con un proprio orientamento ideologico, dietro a eventi non sempre collegati eppure complementari e convergenti. Una scelta complessa e audace, quella di ammettere in successione due punti di vista per arricchire il personaggio, tanto temeraria da essere considerata un caso unico nella narrativa del ’900. Una soluzione in linea col relativismo conoscitivo e col profilo di autore moderno che Dessì si ritagliava all’interno di una cultura raffinata, aperta agli stimoli europei e americani.
Il viaggio memoriale che nel libro si snoda è, anch’esso, aderente a un altro interesse dello scrittore che della memoria fa una costante semantica. D’altra parte, i modi in cui i ricordi si dispongono sulla pagina confermano l’uso sapiente delle tecniche di variazione in una narrazione ricca di sfasature temporali, mentre, lungo il crinale della memoria, si costruisce la coscienza di sé, alla base della conoscenza. Un’ancora salvifica per “non sentirsi sospesi nel nulla”, come dice lo stesso Dessì nei Diari del ’48. Sullo sfondo una Sardegna terra di “permanenza e non di viaggio”, la Cagliari di Filippo e la G Sigalesa e Mamusa di Boschino.
Dietro le scelte linguistiche, l’accurato lavoro di selezione sui dizionari, il Tommaseo primo fra tutti, il lessico sofisticato e la pertinenza terminologica. Ma i due mondi e le due culture si manifestano anche attraverso l’intento mimetico che Manca puntualmente segnala con l’indicare, fra gli altri, i modi di dire idiomatici, le soluzioni bilingui, la presenza di figure retoriche che rimodulano il parlato. Innesti sul tronco della lingua italiana, a significare, ancora, la capacità di trasfigurare artisticamente l’isola.
Coerentemente, dietro la visione del mondo di Dessì c’è il supporto di letture importanti: Spinoza, Leibniz, Kant, Shopenhauer, Nietzsche, Bergson, Einstein, Husserl, Merleau Ponty, Heidegger. Filosofi che spiegano l’adolescenza curiosa e inquieta e la presenza di importanti figure di riferimento come quella di Delio Cantimori al Liceo Dettori di Cagliari. Una passione, quella per la filosofia, che giustifica il gioco dialettico dentro il romanzo, dove la verità continuamente si ridefinisce nello sforzo di comprendere l’altro e di cui testimonia la stessa divaricazione strutturale. Un approdo evidente alla fenomenologia e all’esistenzialismo di Kierkegaard, Nietzsche e Merleau Ponty, che concorre a rendere il romanzo lettura moderna di un’isola variegata e complessa.
L’opera è stata trasmessa attraverso tre quaderni di abbozzi, tre elaborati dattiloscritti, due articoli, un’ultima bozza di stampa e due edizioni autorizzate, che Dino Manca ha messo a confronto. Si scopre così che è con l’edizione del ’75 che si arriva alla lezione definitiva con interventi diversi: dagli errori di battitura, alle riconsiderazioni morfo-sintattiche, fino alle operazioni sulla narrazione e lo stile. A corredo di questa edizione critica la ricca introduzione e un pregevole doppio apparato: genetico, e di note esplicative e di commento storico, filologico e linguistico.
Angela Guiso