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Tra moderatismo filomonarchico e suggestioni libertarie

A molti sarà accaduto, nell’udire parole o note del celebre inno Procurade ‘e moderare, Barones sa tirania, di essere attraversati da un sottile fremito di compiaciuto nazionalismo e di provare un senso di orgogliosa appartenenza ad una terra antica e gloriosa, culla di una millenaria civiltà originale ed evoluta.
Ma proprio in virtù di questo intenso e tuttora largamente percepito sentimento comune in senso patriottico ed autonomistico, c’è da chiedersi se oggi, in tempi di feste e ricorrenze in cui non di rado prevalgono, o quantomeno persistono, logiche di facciata e finalità meramente promozionali e commerciali, non si sia completamente o in parte travisato il significato profondo dell’inno, attribuendo valenze politiche ad esso del tutto estranee. Se così fosse si finirebbe per strumentalizzare maliziosamente il senso e la portata dell’opera, che va contestualizzata entro confini storici e sociali ben delimitati, onde non cadere in facili e gratuite manipolazioni di natura culturale.
Questo è il grande merito di Luciano Carta, curatore del testo Su Patriota sardu a sos feudatorios, il quale con un ponderoso quanto puntuale apparato introduttivo sgombra il campo da malintesi ed equivoci attribuendo a ciascun personaggio e fazione in campo ruolo e funzioni, definendo senza chiaroscuri la verità storica del turbolento triennio rivoluzionario sardo, soltanto recentemente liberato da certi romanticismi edulcoranti o da vere e proprie distorsioni interpretative del passato più e meno recente.
Nella presente versione editoriale l’opera viene proposta al pubblico con alcune utili sezioni di supporto: oltre alla già citata introduzione, costituiscono un sostanzioso contributo la storia della tradizione del testo, le considerazioni in calce alle strofe in merito a risvolti linguistici e grafici, la libera traduzione in prosa e, in appendice, il glossario e l’indice toponomastico.
L’ampia e analitica introduzione consta di cinque paragrafi dedicati i primi due rispettivamente ad un sintetico profilo biografico di Francesco Ignazio Mannu, autore dell’inno, e alle caratteristiche formali del testo; i tre restanti approfondiscono l’evoluzione storica del periodo rivoluzionario di fine XVIII secolo.
Il Mannu, ci appare come un prestigioso e autorevole rappresentante dello stamento militare (vero motore propulsore della rivoluzione sarda), politicamente del tutto moderato pur se animato da una certa qual avversione per la corona piemontese. Tale sentimento nasce però non tanto da convinzioni repubblicane e giacobine quanto piuttosto dal rincrescimento per l’incapacità o la mancata volontà dimostrata dalla monarchia sabauda di rispettare le prerogative e le leggi fondamentali del Regnum Sardiniae (e soprattutto di coinvolgere la borghesia intellettuale sarda nel governo dell’isola secondo la formula della monarchia mista) e di assicurare un’amministrazione equa frustrando la grettezza e la rapacità dei propri funzionari.
Il notabile ozierese cresciuto e formatosi nell’ambito del riformismo boginiano (ovvero durante il trentennio che va all’incirca dal 1759 al 1789) è fautore convinto della cultura illuministica e dei principi ad essa associate come la fisiocrazia e il liberismo economico che mal si applicavano presso un contesto in cui regnava ancora indisturbato il sistema feudale, obsoleto e vessatorio.
Ecco dunque il vero leitmotiv dell’inno: la denuncia di un sistema corrotto e ormai anacronistico, peraltro illegittimo per motivazioni de jure e de facto, e la connivenza con la burocrazia piemontese, anch’essa dispotica ed opprimente, con cui aveva deciso di fare cartello per salvaguardare i propri interessi privati e non certo per fedeltà alla corona.
L’ostilità del Mannu è senz’altro rivolta contro i tirannos minores (feudatari), lungamente e pittorescamente dileggiati, soprattutto in virtù di argomentazioni di natura contrattualistica: avendo l’istituzione feudale carattere pattizio e non essendo state coinvolte le comunità dei villaggi, i diritti dei feudatari risultano arbitrari.
Come afferma significativamente il curatore, perciò, “l’inno è espressione di una visione politica moderatamente riformista, che non mette in discussione la forma politica dello Stato monarchico, il fondamento contrattualistico di questa forma di governo, l’organizzazione cetuale della società, vuole semplicemente che venga asportato dall’organismo politico e sociale della Sardegna un sistema di governo perverso e degenerato, irrispettoso della legge di natura, qual è appunto il sistema feudale”.
È questa dunque la chiave di lettura che deve informare l’approccio del lettore ai versi in questione. L’inno è, infatti, non solo narrazione poetica ma al contempo progetto di riforma politica e sociale.
Il curatore, opportunamente, sospende giudizi sul valore letterario e la pregevolezza poetica dell’inno: altri in passato avevano formulato valutazioni anche taglienti e comunque particolarmente parziali, come lo Spano che afferma trattarsi di “una di quelle solite produzioni di cui sogliono essere fecondi i tempi di anarchia”. Più equilibrati, in tempi diversi, Giuseppe Manno e il Siotto Pintor, che ne apprezzano la straordinaria intensità narrativa e morale.
L’inno conserva, a tutt’oggi, un potere evocativo singolare, una suadenza senza tempo, una forza narrativa prepotente e, al contempo, acutissima per soluzioni lessicali e stilistiche. Si potrebbe dire che possieda perfino una sorta di intrinseca religiosità per quanto laica in ragione della struttura metrica tipica dei gosos, composti in onore dei santi, senza dimenticare l’accorata supplica alla giustizia divina e il richiamo possente e fiducioso al Magnificat (Atterradu hat su potente, Ei s’umile exaltadu).
Crediamo, per concludere, che l’autore abbia prodotto uno sforzo encomiabile nell’aver inquadrato rigorosamente i fatti storici del tempo. Senza tale analisi l’inno risulterebbe monco e per certi versi appiattito rispetto ad alcuni stereotipi di certo retrivo indipendentismo.
Rimane, però, il dubbio se, come afferma il curatore, l’opera abbia come messaggio trasversale portante la mediazione: infatti, per il Carta, l’inno, pur vibrante e risoluto, non incita mai alla lotta cruenta ma si limita a una appassionata richiesta perché cessino gli abusi e le malversazioni di feudatari e funzionari. Certo, però, non suonano teneri i versi rivolti ai burocrati piemontesi (Malaitu cuddu logu, Chi criat tale zenia) e, soprattutto, non restano inespressi, pur se abilmente sottintesi, alcuni inviti a procedere nell’opzione armata intrapresa: Sardos mios ischidade, E sighide custa ghia, Como chi est su filu ordidu, A bois toccat su tesser, se addirittura non si voglia enfatizzare la chiamata esplicita alla guerra (Gherra gherra a su egoismu, E guerra a sos oppressores) pur nella deferenza più piena alla monarchia sabauda.
È infatti l’inno del Mannu non a caso antifeudale e non antimonarchico.

Corrado Ballocco

 
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